Quando la scorsa estate Mosca iniziò a effettuare le prime consegne dei complessi per la difesa antiaerea e antimissile S-400 Triumph ad Ankara, recapitandoli per mezzo di giganteschi aerei cargo nella base aerea di Murted, nei pressi della capitale, nonostante la controversia in atto con gli Usa all’evento venne dato enorme risalto mediatico, che suscitò una ulteriore vampata di orgoglio nazionale nel Paese.
In quella occasione il presidente Reçep Tayyip Erdoğan si peritò di annunciare che quei sistemi d’arma sarebbero stati resi operativi nell’aprile dell’anno seguente, cioè il 2020.
Una scadenza in agenda che in seguito sarebbe stata confermata ufficialmente almeno altre sette volte dopo, questo malgrado Washington facesse di tutto per dissuaderlo.
Alla fine, stavolta via mare, nel mese di dicembre arrivarono anche missili, parte fondamentale del sofisticato e potente sistema d’arma concepito e prodotto in Russia, questo mentre le forze armate turche – che, va ricordato, fanno parte integrante della Nato – erano già intente a testarli.
Verifiche e addestramenti che, comunque, avevano già preso avvio nel mese di novembre con specifico riguardo alla componente radaristica, quando il personale militare turco ebbe modo di applicarsi alla rilevazione, all’acquisizione e alla discriminazione degli obiettivi mediante l’apparato da sorveglianza a lungo raggio 91N6E BIG BIRD e di quello di acquisizione e tracking 96L6E.
Dunque, il passo fu breve e anche la scadenza successiva venne onorata dai turchi, infatti, in gennaio, quando gli ufficiali dell’aeronautica militare che avevano ricevuto una formazione sugli S-400 direttamente in Russia vennero assegnati alle unità che tali batterie missilistiche ormai disponevano.
Tuttavia, i complessi polivalenti (quattro batterie del valore commerciale di 2,5 miliardi di dollari) rimasero in bella mostra sul sedime aeroportuale di Murted senza venire effettivamente “attivati”.
Il tempo passò e, a un certo punto, giocoforza ad attivarsi dovettero essere gli uomini della comunicazione del presidente, che, ricorrendo nella prolusione a uno spunto retorico necessitato, si videro costretti a dichiarare a mezzo stampa (lancio Reuters del 20 aprile 2020) che «la Turchia non sarebbe tornata indietro sulla propria decisione di attivare gli S-400, ma che a causa del divampare della pandemia da Covid-19 la piena capacità operativa dei sistemi, che avrebbe dovuto essere raggiunta in primavera, avrebbe invece subito dei ritardi».
Un ritardo considerato con favore a Washington, che in precedenza era giunta a minacciare Ankara di ulteriori sanzioni nel caso gli S-400 fossero divenuti per davvero “operativi”.
E che gli americani non scherzassero Erdoğan lo aveva compreso perfettamente fin dal principio, seppure avesse trascinato il proprio paese nella sua politica fatta di azzardi e impegni bellici sempre più onerosi.
Infatti, nel momento stesso in cui Mosca consegnò la prima batteria di S-400 ai turchi la Casa Bianca non pese un istante nell’annunciare la cancellazione della partecipazione di Ankara al programma di sviluppo del F-35 e la definitiva sospensione delle consegne dei velivoli all’alleato, intimando a piloti e tecnici turchi che si trovavano negli Usa in ragione della partecipazione al programma di sviluppo del nuovo caccia di fare ritorno in patria entro il 31 luglio.
Washington aveva già interrotto le consegne di componenti, il supporto e la manualistica, indispensabili nella preparazione alla presa in consegna del velivolo, del quale l’aeronautica turca aveva già ricevuto due esemplari su un totale previsto di cento, macchine che da allora restano “congelate” sulla pista della base Usaf di Luke, presso Phoenix in Arizona, gestita dall’Air Education and Training Command.
Nonostante tutto, la questione degli S-400 permane un grosso ostacolo nelle relazioni bilaterali tra gli Usa e la Turchia, nonché in ambito Nato, si comprenderebbero quindi meglio i perché alla base della decisione di Ankara di ritardare l’attivazione dell’unita S-400, ed essi non sarebbero affatto di natura tecnica.
Secondo un articolo pubblicato il 23 aprile scorso su “Al-Monitor” dall’analista turco Metin Gurçan, seppure ufficialmente la pandemia da coronavirus venga addotta dalle autorità di Ankara come la ragione dei ritardi nello schieramento, la decisione sarebbe assolutamente politica. Anche perché – sottolinea Gurçan -, sorprendentemente, la pandemia in atto non ha interrotto alcuna operazione militare turca, né sul territorio nazionale né in Siria e in Iraq.
Conseguentemente, il Covid-19 non avrebbe avuto alcun impatto sul rinvio dell’attivazione dei sistemi missilistici, la difficile situazione economica nella quale versa il Paese invece sì.
Infatti, ulteriori sanzioni imposte da Washington si rifletterebbero sulle condizioni di vita dei cittadini turchi, rendendo ancora più critica la gestione della precaria situazione sia sul piano economico che politico da parte del presidente in carica Erdoğan e della parte del suo partito, l’Akp, che lo sostiene malgrado gli ultimi non eccessivamente preformanti risultati elettorali.
Nella sua approfondita analisi Gurçan fa anche riferimento ai recenti approcci di Ankara alla Federal Reserve Usa, alla ricerca di un accesso a dieci miliardi di dollari al di fuori dei canali possibili rappresentati dal Fondo monetario internazionale, referente verso il quale Ankara è riluttante.
È opinione dell’analista di Al-Monitor è che l’attivazione degli S-400 per la Turchia potrebbe comportare enormi costi economici, che la precipiterebbero in una condizione simile a quella che visse nell’estate del 2018, quando per effetto della crisi valutaria innescata da Washington la lira turca perse gran parte del suo valore.
Eppure – sottolinea Gurçan – il disperato bisogno di una moneta forte per salvare la propria economia colpita dalla pandemia non è l’unico fattore in gioco, poiché il ritardo nell’attivazione degli S-400 risponderebbe ad almeno altri tre fattori: il riposizionamento geostrategico turco in Siria nel tentativo di bilanciare Iran e Russia, l’impellente necessità per Erdoğan di non recidere il legame con l’amministrazione presieduta da Donald Trump e, aspetto altrettanto fondamentale, il disperato tentativo di mantenere una sufficiente soglia di consenso interno che gli permetta di conservarsi al potere in Turchia.
In questo senso il teatro bellico siriano insegnerebbe molto, infatti, le dinamiche osservate sul campo nell’enclave di Idlib nei primi mesi dell’anno sarebbero indicative di come gli interessi turchi e americani siano divenuti maggiormente coincidenti, mentre contestualmente emergevano con evidenza i limiti della cooperazione tra Ankara e Mosca, anche se all’inizio di marzo Erdoğan e Putin pareva avessero raggiunto un nuovo accordo.
Quella tra Usa e Turchia assumerebbe dunque i contorni di un’alleanza obbligata, poiché a Washington sono pienamente consapevole di non disporre di altri potenziali alleati nella regione mediorientale in grado di bilanciare la presenza attiva dei russi, contrastando al contempo gli iraniani e i loro proxi in Siria.
Erdoğan sa bene che l’attivazione degli S-400 è la “linea rossa” che non può assolutamente azzardarsi a oltrepassare, questo, per altro, Trump glielo ha chiaramente ribadito nel corso del loro vertice che ha avuto luogo alla Casa Bianca nel novembre scorso.
«A questo punto – ha concludeva Metin Gurçan nella sua analisi citando una propria fonte – la pandemia da coronavirus sarebbe giunta giusto in tempo per Ankara, offrendogli un appiglio per superare la difficile fase di pressioni alle quali era sottoposto».
Tuttavia non andrebbe sottovalutato un ultimo ma non meno importante aspetto della questione, tutto interno alla dialettica politica turca (una dialettica… divenuta sempre meno dialettica, a dire il vero).
Infatti, l’opposizione al governo dell’Akp, cavalcando il sentimento indotto nell’opinione pubblica, potrebbe sì esercitare pressioni sull’esecutivo e sul presidente affinché le batterie di S-400 vengano ridislocate al confine con la Siria allo scopo di fornire una copertura aerea alle truppe turche impegnate nella provincia siriana di Idlib.
Si tratta di 22.000 uomini attualmente schierati in 56 avamposti, ma sostanzialmente privi del controllo dello spazio aereo (che è di dominio dei russi), quindi esposti agli attacchi delle forze del presidente Bashar al-Assad e degli alleati locali di quest’ultimo.
Dalla fine del mese di febbraio sul fronte siriano Ankara ha perduto più di sessanta soldati. Un impegno militare che in Turchia non viene più gradito, e che rischia di erodere ulteriori margini di consenso a Erdoğan, per il quale inizia a divenire difficoltoso spiegare perché quei costosissimi sistemi d’arma, che sono stati fonte di attriti con lo storico alleato americano, rimangano inutilizzati in una base aerea presso la capitale quando invece se ne potrebbe fare proficuo uso per proteggere il contingente di occupazione in Siria.
È ovvio che Erdoğan se ne guarda bene, poiché altrimenti innescherebbe una nuova crisi dalle prospettive imprevedibili con la Russia, frustrando così anche le aspettative di business del comparto militare-industriale di Mosca, che ha in animo di vendere ai turchi altre quattro batterie di S-400.
Per Erdoğan il passo indietro nell’attivazione dei sistemi antiaerei/antimissile sarebbe dunque un passo obbligato, egli infatti cerca disperatamente di guadagnare tempo. Ma, allora, sorge un altro interrogativo: quanto ancora potrà andare avanti in questo modo?