Che cosa sta accadendo? Gli effetti perniciosi del prolungato «distanziamento sociale» imposto dalla necessità di contenere il numero dei contagi da Covid-19 stanno conducendo il Paese all’insofferenza sociale?
Due emblematici episodi verificatisi nei giorni scorsi indurrebbero a ritenerlo. A Piacenza, una donna che girava per la strada completamente nuda si è sdraiata sul cofano di una gazzella dei Carabinieri che pattugliava la città; la donna, divenuta aggressiva, è stata poi ricoverata in ospedale, forse era preda di droghe o alcool.
A Padova, invece, un uomo che faceva podismo portandosi dietro il proprio cane è stato dapprima insultato da due individui, padre e figlio, poi brutalmente aggredito, al punto che ha dovuto fare ricorso alle cure in ospedale; i due lo avevano ripreso con durezza perché non indossava la mascherina protettiva, questo malgrado il podista stesse correndo all’aperto in una zona praticamente deserta nei pressi della sua abitazione.
Segnali di allarme. È forse presto per affermare che si tratti di forme di psicosi, tuttavia sono sicuramente segnali di allarme che non vanno sottovalutati, poiché, soprattutto nel secondo caso descritto, si profila la preoccupante ricerca di un “nemico” sul quale scaricare le colpe della condizione nella quale si è finiti a causa della pandemia.
Si tratta di un meccanismo psicologico di difesa, la mente colma un vuoto che altrimenti la sprofonderebbe nella paura. Dapprima, all’inizio di questa terribile avventura, i nemici erano i monatti cinesi che avevano portato il contagio in Italia, adesso lo sono tutti quelli che non si adeguano allo stretto regime di misure di sicurezza stabilite per contenere la pandemia.
Un’operazione pericolosa quella di creare un nemico invisibile, soprattutto perché spesso fatta inconsapevolmente. Di esso se ne ravvisa una irrefrenabile necessità poiché è a lui che dovrà «dare un volto» al fine di soddisfare in modo effimero i propri insopprimibili bisogni di sicurezza.
E su di esso verrà quindi scaricata la rabbia e la frustrazione per una condizione esistenziale divenuta deteriore dalla quale parrebbe sia difficile uscire nell’immediato.
Un processo che conduce a forme di iniziale solidarietà tribale. Se all’inizio era sufficiente lo sfogo liberatorio dell’inno nazionale cantato dal balcone di casa sventolando il tricolore, momento nel quale l’individuo avvertiva una forma di appartenenza al suo gruppo sociale (la propria famiglia, gli inquilini del proprio palazzo, il quartiere, la città, la “Patria”, eccetera), col passare dei giorni e l’immutare della situazione in alcuni, ancora pochi per fortuna, ha iniziato a prevalere la rabbia.
Ed ecco, dunque, la ricerca di un nemico, qualunque esso sia, basta che si possa crocefiggere: il “cinese che ci ha infettati”, il diverso, coloro i quali non rispettano le regole del distanziamento sociale, i possibili sciacalli e gli speculatori che approfittano della situazione e via discorrendo.
Elementi oggettivi e irrazionalità si fondono, creando una miscela esplosiva di istinti che normalmente andrebbero tenuti a freno, è il meccanismo irrazionale che nell’individuo scatta automaticamente, una forma di autodifesa che tende a proteggere la propria autostima seriamente messa in discussione dagli eventi.
Conseguenze dell’isolamento forzato e prolungato. Nell’attuale situazione di isolamento forzato i soggetti più deboli sono maggiormente esposti alle conseguenze della loro condizione. Si tratta soprattutto degli anziani, ma non soltanto di loro, delle persone che vivono sole in casa o, al contrario, di quei nuclei famigliari costretti a una coabitazione forzata, magari in appartamenti di dimensioni ridotte.
Convivenze, in quest’ultimo caso, magari in precedenza mai vissute, poiché orari e abitudini differenti tra i componenti il nucleo familiare avevano evitato una permanenza prolungata nello stesso ambiente che avrebbe costretto a una condivisione degli spazi, disagio che oggi è divenuto però inevitabile.
E allora ecco insorgere lo stress, associato in molti casi all’angoscia dell’incertezza riguardo sia al presente che al futuro.
Ma, dove cercare delle risposte a questi pressanti interrogativi?
Nella televisione, certamente, ma anche nella Rete. Una ricerca diuturna e spasmodica di “informazioni” che soddisfino il bisogno di sicurezza. Un appiglio.
Tuttavia i media, seppure continuamente e in maniera ripetitiva, non riescono a colmare questo vuoto interiore che si è aperto: infatti allo stato attuale non esistono né una cura né un vaccino nei confronti del micidiale Covid-19.
Ma il web dove ci si rifugia è anche un terreno abitualmente praticato da persone senza scrupoli come pedofili e maniaci e truffatori, pronti a tendere agguati alle loro inconsapevoli vittime sfruttando questo momento propizio.
Un’ulteriore rischio associato all’isolamento è poi quello della disabitudine alla socialità, fenomeno che si riflette spesso in modo deleterio sui comportamenti individuali, portando o accentuando le violenze domestiche, i disturbi da stress, portando a un’accentuazione dell’aggressività nell’individuo.
Senza parlare dei casi di isolamento forzato in casa insieme a una persona malata (ad esempio un autistico) oppure con una affetta da patologie psichiatriche, tumorali o in dialisi.
Le vulnerabilità dell’Occidente. In questa condizione di disagio tutto viene rimesso in discussione, dai valori al senso del tempo. Accentuato è il deficit di interazioni sociali, questo nonostante al giorno d’oggi la tecnologia venga in soccorso facilitando i contatti con l’esterno.
Ma gli effetti della pandemia evidenzierebbero anche altro, un fantasma che era riemerso prepotentemente a seguito delle stragi terroristiche compiute dagli jihadisti negli anni recenti.
In particolare quella del Bataclan a Parigi, quando ci si pose l’interrogativo se le generazioni nate e cresciute in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale fossero o meno capaci di resistere al dolore e alla sofferenza, se fossero divenute vulnerabili.
Un aspetto sul quale nessuno tra i vecchi avrebbe mai voluto tornare a riflettere, ma che il coronavirus ha invece costretto a fare.
In Europa la gente non è più in grado di affrontare eventi come l’attuale pandemia?
Superate le normali difese nei confronti della catastrofe subentra lo stress. È il «born out», che investe principalmente chi lavora in “relazione di aiuto”, come il personale medico e paramedico degli ospedali e gli operatori della sicurezza, proprio come accadde nei pronto soccorso degli ospedali parigini quando le ambulanze vi trasportarono centinaia di feriti dilaniati dai colpi delle armi da fuoco, alcuni dei quali giunti morti. Il personale sanitario venne assalito dallo sgomento, condizione che incapacitò non pochi di loro a operare.
Medici e paramedici sono categorie a rischio, persone costrette ad affrontare lo stress evitando però le situazioni di panico, poiché altrimenti, giunti allo stremo delle forze, se prevale l’angoscia è molto più facile il crollo.
Anche allora, seppure in ritardo, si fece ricorso a psichiatri e psicoanalisti di sostegno.
Di seguito è possibile ascoltare l’audio integrale dell’intervista con la dottoressa Silvia Bassi, psicologa e criminologa (A242).