di Michele Marsiglia, presidente di FederPetroli Italia, editoriale pubblicato da “L’Indro” il 10 Aprile 2020 – La tanto attesa riunione Online tra Opec e Opec Plus c’è stata e proprio ieri sera alle 21:00 (ora italiana), alcuni stati membri hanno deciso di tagliare per qualche mese la produzione giornaliera di greggio di dieci milioni di barili al giorno, per poi diminuire gradualmente, a partire da luglio in poi.
Lo hanno fatto per consentire, come richiesto in ginocchio nelle ultimi settimane dagli Stati Uniti, di risollevare almeno lievemente le quotazioni internazionali del greggio e lanciare così una piccola ciambella di salvataggio all’economia petrolifera.
Ma quale economia petrolifera?
Sicuramente quella russa, che da un po’ di tempo è di intralcio a tanti (ma è buona cosa tenere Vladimir Putin al guinzaglio), e soprattutto quella americana.
Partiamo dal fatto che la comunità petrolifera internazionale non ha posto mai totale fiducia nell’OpecPlus, la pseudo organizzazione nata qualche tempo fa è stata sempre solo una diversificazione dell’Opec originale, per dare una piccola “voce” in capitolo a Mosca.
L’America petrolifera distrutta, onda che già si procrastinava da tempo e che in un periodo inaspettato come questo, non ha avuto pilastri per reggere.
Cosa sta succedendo negli Stati Uniti?
Lì esistono grandi e forti compagnie petrolifere, ma è anche terra di nuove tecnologie in tutti i campi.
Tempo fa, per rafforzare la propria produzione interna di petrolio, piccole e medie aziende hanno deciso di investire in tecniche di nuove produzioni petrolifere dette fracking, dando così vita all’avvento dell’era dello shale-oil, una tecnica di ricerca petrolifera molto costosa e onerosa nella sua fase di mantenimento.
Oggi però, tutti questi piccoli produttori sono andati fortemente in crisi. Oltre al fattore costituito dal prezzo dell’investimento, un’altra causa è stata la massiccia e ingorda avidità nell’estrarre olio e gas, che ha portato al prosciugamento di alcuni terreni americani e, inoltre, perché con un prezzo del greggio così basso la bancarotta per queste aziende è garantita.
Negli Usa si chiama «Chapter 11» e nelle scorse settimane già in tante ne hanno fatto ricorso.
Tutto questo ha costretto l’Amministrazione Trump a ricorrere da un lato a stanziare forti risorse economiche pubbliche per questi piccoli e medi cercatori di petrolio, dall’altro a chiedere a più tornate a Russia e ad Arabia Saudita di non litigare e stabilire quindi un piccolo taglio della produzione petrolifera mondiale, per far sì che l’America energetica potesse riprendere fiato.
Penso che la carta geografica sia chiara, durante il vertice digitale di ieri Riyadh ha detto: «Volete un segnale? Va bene, tagliamo di un po’ la produzione», ma si tratta di un contentino dato a tutti, poiché in qualsiasi momento, se Mohammad bin Salman decidesse di riaprire i rubinetti dei pozzi, anche soltanto per poche ore, il mercato internazionale verrebbe inondato di greggio e i prezzi crollerebbero nel giro di minuti.
È quello che gli analisti di Wall Street chiamano Oil Flooding, cioè l’allagamento del mercato provocato da un incrementata produzione petrolifera.
E, visto che l’indotto dello shale ha sempre infastidito gli arabi, con un forte approvvigionamento a tappetto nelle ultime tre settimane il Medio Oriente sta riuscendo politicamente ed economicamente a tagliare fuori dal mercato tutte quelle piccole aziende di trivellazione americane.
In un lancio giornalistico di ieri, con FederPetroli Italia abbiamo dichiarato: «Stiamo assistendo al gioco delle tre carte tra Usa, Arabia Saudita e Russia», in un contesto geoenergetico nel quale è evidente che tre potenze… o forse due, o forse soltanto una, utilizzano il ring del Covid-19 allo scopo di affermarsi come i più grandi produttori di petrolio, dettando conseguentemente legge sulla scena internazionale.
Però, nel gioco delle tre carte quella vincente porta il simbolo di Riyadh e di tutta la Penisola arabica, la carta del Medio Oriente, che diventa (come per altro lo è stato sempre) oggi ancor più di ieri il Jolly, quella che in ogni posizione vale di più e può stravolgere il punteggio finale.
Ed è quello che la monarchia saudita sta facendo, effetto domino della quotazione borsistica di qualche mese fa della compagnia petrolifera più grande al mondo, la Saudi Aramco.
Riyadh in questo modo, assieme ai propri alleati potrà sempre e in ogni momento provocare uno shock momentaneo grazie alle provviste di greggio accumulate in questo periodo in tutto il mondo, non soltanto sui mercati a terra, rastrellando gran parte di petroliere nei mari e ancorandole nei porti strategici del Golfo Persico.
Tuttavia, il terzo incomodo esiste anche in questa tornata. Si tratta di un paese che non si era fatto mai sentire più di tanto, ma che ieri ha alzato la voce: il Messico.
Di fronte a illustri membri dell’Opec Plus, i messicani hanno detto di no facendo rischiare di far saltare l’accordo. Essi non erano concordi sulla quota di taglio della produzione petrolifera assegnata a ogni singolo stato membro.
Sia la situazione, sia l’organizzazione astratta dell’Opec Plus si rivelano deboli e, se una pedina come il Messico è stata in grado di porre a repentaglio il buon esito del vertice, vorrà dire che potrà bastare un «soffio di vento mediorientale» per rimettere in gioco tutto e sconvolgere gli equilibri in essere. In poche ore.