Nella serata di ieri, attorno alle ore undici, le forze armate del governo di Damasco, sostenute dal dispositivo militare russo in Siria, hanno attaccato una colonna dell’esercito turco nei pressi di Seraqib, località strategica situata a una ventina di chilometri da Idlib, importante nodo stradale (vi si incrociano le due autostrade M4 ed M5) nell’ultima enclave ribelle nella quale, oltre agli occupanti turchi, sono concentrate migliaia di profughi e di jihadisti orfani di Islamic State.
Quella verificatasi ieri sera è stata la maggiore perdita delle forze armate turche in termini di vite umane in una sola giornata di combattimenti registrata a partire dall’inizio del conflitto, risalente a nove anni fa.
A essere colpita dai jet da combattimento siriani una colonna dell’esercito turco, almeno trentatré i militari morti a seguito dell’attacco, mentre i feriti ammontano a oltre trenta.
I combattimenti di ieri delineano uno scenario preoccupante, essi sono lo sviluppo dell’escalation sul campo di battaglia recentemente registrata nel quadrante nordorientale siriano.
Un effetto diretto delle politiche avventuristiche poste in essere negli ultimi mesi dal presidente turco Reçep Tayyip Erdoğan, ormai imbrigliato da una situazione dalla quale gli sarà difficile uscire.
La tensione, dunque, continua a salire pericolosamente, anche a causa della rappresaglia contro le forze di al-Assad decisa da Ankara e posta in essere dal dispositivo militare in Siria mediante tiri di artiglieria contro le posizioni dell’esercito di Damasco nelle province di Aleppo, Hama e Latakia, oltre all’attacco delle linee siriane nella provincia di Idlib.
L’attacco nella notte. Raid aerei e lanci di missili hanno caratterizzato l’attacco siriano di ieri sera.
La partecipazione russa all’azione, ritenuta fondamentale, è stata però subito smentita dal ministero della difesa di Mosca, che in un comunicato stampa diffuso dall’agenzia Interfax ha negato la partecipazione delle proprie forze aeree nei combattimenti di ieri contro i militari turchi, aggiungendo però che i soldati di Ankara rimasti coinvolti nell’attacco delle forze di Damasco si trovavano all’interno di «formazioni terroristiche legate all’organizzazione jihadista di matrice qaedista Hayat Tahrir al-Sham».
Sempre il ministero della difesa russo, questa mattina ha tenuto a precisare in una nota ufficiale che «i militari turchi colpiti dai bombardamenti non avrebbero dovuto trovarsi nell’area dai raid», precisando inoltre che Ankara «non aveva informato in tempo Mosca della loro posizione».
A seguito dell’offensiva lanciata dal presidente siriano Bashar al-Assad nel tentativo di riconquistare la provincia di Idlib, Erdoğan ha inviato un possente contingente militare allo scopo di sostenere i ribelli – suoi proxi – che combattono il governo di Damasco.
Forte di un dispositivo della consistenza pari a una divisione meccanizzata, dotata di moderni sistemi d’arma e affiancata sul terreno anche da altri assetti, il presidente turco, malgrado la debolezza dal punto di vista del controllo dello spazio aereo siriano, evidentemente ha pensato di trovarsi nelle condizioni di poter minacciare un’offensiva su vasta scala a meno di un completo ritiro delle forze siriane.
Ma potrebbe trattarsi di un pericoloso azzardo, un bluff al quale egli si è visto costretto dopo essersi cacciato (e avere trascinato il proprio paese) in una situazione dalla quale potrà trarsi fuori con estrema difficoltà, potenzialmente foriera di sviluppi ancor più catastrofici di quelli attuali.
Ma la sua rappresaglia non si è fatta egualmente attendere, poiché le forze armate di Ankara hanno martellato le posizioni dell’esercito siriano provocando la morte di almeno sedici soldati.
Al riguardo, nella notte Fahrettin Altun – portavoce del presidente Erdoğan – ha rilasciato una breve dichiarazione: «Tutte le posizioni note del regime siriano vengono prese di mira dalle nostre unità terrestri e aeree», un evidente segnale inviato a Mosca, tra le righe della retorica di maniera e delle minacce , espressa nelle forme dell’invito rivolto alla comunità internazionale e ai partecipanti al Processo di Astana (cioè Russia e Iran) «ad assumersi le proprie responsabilità».
I turchi asseriscono di aver «neutralizzato» 329 militari di Assad a seguito dell’attacco di oltre duecento obiettivi, distruggendo tra l’altro cinque elicotteri, ventitré carri armati e numerosi depositi militari e armamenti del nemico.
Sempre nella notte, dopo un incontro straordinario avuto con Erdoğan, il ministro della difesa Hulusi Akar si è recato nella provincia di Hatary (al confine tra Turchia e Siria) allo scopo di verificare personalmente lo schieramento dei militari del proprio Paese, dove ha ispezionato le unità dislocate nella provincia di Idlib che erano state attaccate dall’esercito siriano.
L’incidente rischia ovviamente di alimentare la già grave escalation in atto in un conflitto convenzionale di dimensioni notevolmente maggiori, incrementando ulteriormente il livello di tensione e instabilità nel Mediterraneo orientale, incidendo terribilmente sul gigantesco problema dei profughi.
L’escalation. Mosca ha disposto immediatamente il trasferimento in Siria di due fregate lanciamissili della Flotta del Mar Nero, la Admiral Makarov e la Admiral Grigorovich, unità che in passato hanno trovato impiego nel corso di precedenti operazioni militari effettuate nel Paese arabo.
Esse raggiungeranno il Mediterraneo orientale attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli e lì si uniranno alla task force stanziata permanentemente nel Mediterraneo, della quale fa parte un’altra fregata russa, la Admiral Essen, presente in zona di operazioni dal 2019, si tratta di navi da guerra potentemente armate, in quanto dotate di missili da crociera Kalibr.
Contestualmente, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha dichiarato l’avvenuta conversazione telefonica tra Putin ed Erdogan, su richiesta del presidente turco. Una conversazione «dettagliata, dedicata alla necessità di fare tutto per realizzare l’accordo iniziale sulla zona di de-escalation di Idlib».
Ma nella notte appena trascorsa tutto scorreva per linee parallele. Infatti, in tutta risposta – e sempre per bocca del portavoce presidenziale Altun – il governo di Ankara chiedeva l’istituzione di una no-fly zone nelle zone dove si raccolgono le migliaia di profughi in fuga dalle località interessate dai combattimenti.
«La comunità internazionale – ha al riguardo affermato Altun – deve agire per proteggere i civili e imporre una no-fly-zone sulla provincia di Idlib. Una ripetizione dei genocidi del passato come in Ruanda e Bosnia non può essere permessa», assicurando che i militari del proprio paese non abbandoneranno l’area al suo destino, poiché questo significherebbe «la realizzazione dei sogni del regime di al-Assad, che ha compiuto una pulizia etnica e demografica nella regione».
È evidente che, al netto della retorica, se effettivamente imposta (dalla Nato?, dall’Onu?) un’eventuale no-fly-zone inibirebbe soprattutto l’operatività delle aviazioni militari di Damasco e di Mosca, eliminando conseguentemente il grave deficit manifestato da Ankara nei termini del supporto dall’aria del proprio dispositivo militare nell’area. Una sostanziale ri-simmetrizzazione del conflitto che andrebbe tutta a suo vantaggio.
Politica, interessi e diplomazia. Nel frattempo, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg annunciava per la giornata di oggi la convocazione del Consiglio del Nord Atlantico, formato dagli ambasciatori di tutti e ventinove i Paesi membri della Nato più la Macedonia del Nord (già Fyrom) in qualità di paese invitato, riunito su richiesta turca allo scopo di avviare consultazioni sulla situazione in Siria.
Egli ha condannato gli attacchi aerei siriani e russi definendoli «indiscriminati» e ha chiesto un’immediata de-escalation. Quindi ha incontrato il ministro degli esteri turco Mevlüt Cavusoglu, esortando tutte le parti «a ridurre questa situazione pericolosa e a evitare di aggravare ulteriormente la spaventosa situazione umanitaria nella regione».
Uno stop alle ostilità è stato richiesto dalle Nazioni Unite, il cui portavoce Stephane Dujarric, ha dichiarato che il segretario generale Antonio Guterres «ribadisce la sua richiesta di un immediato cessate il fuoco ed esprime particolare preoccupazione per il rischio per i civili con un’escalation delle azioni militari, tornando a sottolineare che non esiste una soluzione militare al conflitto in Siria, poiché l’unica soluzione è un processo politico facilitato dall’Onu».
Anche l’Unione europea, attraverso l’Alto rappresentante per la Politica estera Josep Borrell, ha chiesto un’immediata de-escalation, annunciando che «prenderà in considerazione tutte le misure necessarie per proteggere i suoi interessi in materia di sicurezza».
Dal canto loro, Italia e Francia nella dichiarazione finale del vertice intergovernativo di Napoli hanno rivolto una richiesta alla Corte penale internazionale affinché si occupi della situazione in Siria, questo mentre il Dipartimento di Stato americano si schierava apertamente sulle posizioni di Ankara, condannando «l’odiosa offensiva» (così è stata definita) condotta dalle forze russe e di Damasco.
Ovviamente quella che si presenta agli americani è una ghiotta occasione per riallacciare i tormentati rapporti con l’alleato membro della Nato che, seppure alle strette nel vicolo cieco di Idlib, è ben consapevole del fatto che nessun richiamo alla difesa collettiva prevista dal trattato di alleanza Nato potrebbe applicarsi nel caso di un Paese membro responsabile dell’attacco e dell’occupazione militare del territorio di un altro Stato – fino a prova contraria ancora sovrano, seppure con tutti i suoi evidenti limiti –, nonché sostenendo i gruppi guerriglieri e terroristici che a quest’ultimo si oppongono (gli jihadisti), come sta facendo la Turchia nella Siria nordoccidentale.
Washington cerca di sfruttare le crepe che si sono aperte nelle relazioni tra Ankara e Mosca e, al proposito, nella mattinata l’ambasciatore statunitense presso la Nato non ha mancato di rivolgere un accorato invito ai turchi affinché rinuncino all’acquisto dei sistemi antiaerei e antimissile russi S-400.
Il dramma dei profughi. Erdoğan ha riaperto la frontiera con la Turchia. «Non fermeremo più i migranti diretti in Grecia – ha dichiarato nella notte durante un consiglio di sicurezza straordinario -, non chiuderemo più i nostri confini ai rifugiati che vogliono andare in Europa».
Migliaia di profughi siriani vengono dunque fatti entrare dai posti di confine delle province di Idlib e Afrin nella Turchia nordoccidentale, dall’Anatolia verranno poi instradati verso la Grecia e la Bulgaria. Ankara ha concesso loro settantadue ore per transitare attraverso il Paese, via terra o via mare, in direzione dell’Unione europea.
Dal lato siriano della frontiera attendono di passare almeno un milione di disperati, un formidabile strumento di pressione nei confronti di Bruxelles, soprattutto in questa drammatica fase di diffusione del coronavirus.
Tuttavia, almeno per il momento, un portavoce della Commissione europea intervenuto al briefing di mezzogiorno con la stampa, ha fatto sapere che da comunicazioni ufficiali non risulterebbe che la Turchia abbia cambiato la propria politica riguardo a migranti e richiedenti asilo, quindi l’accordo tra le parti in materia permarrebbe ancora in vigore.
La preoccupazione principale di Ankara è che il devastante impatto della campagna militare lanciata da al-Assad possa spingere ulteriori masse di profughi verso i confini con la Turchia, che già ospita tre milioni di rifugiati e dove si registra un crescente malcontento dell’opinione pubblica nei confronti del governo, sia a causa della presenza degli immigrati (3.700.000 persone) che dei pesanti disagi creati dalla non buona situazione economica.
Dal 2016 la Turchia ospita i rifugiati siriani in cambio degli aiuti economici forniti dall’Unione europea, si tratta di una sostanziale contropartita profumatamente pagata da Bruxelles con miliardi di euro, timorosa di vedere riaprirsi la rotta balcanica degli immigrati.
Un pessimo affare parrebbe, in quanto Erdoğan non ha mai smesso, più o meno velatamente a seconda dello stato dei rapporti del momento, di riavviare i flussi di disperati in cerca di rifugio, ricattando i Paesi membri al fine di piegarli a sostenere gli obiettivi di Ankara in Siria.
Inoltre, il gruppo di potere dell’Akp attualmente al governo in Turchia ha un disperato bisogno di finanziamenti a causa della crisi economica e della pesante svalutazione della propria moneta nazionale.
Infine, restando alla Siria va inoltre rilevato che sempre la notte scorsa alcuni elicotteri militari israeliani nel corso di un raid hanno colpito degli obiettivi militari nella zona di Quneitra, sulle alture del Golan. Il bilancio delle vittime dell’operazione effettuata da Tsahal sarebbe di un morto e tre feriti tra i soldati di al-Assad.