Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha incontrato l’omologo iraniano Mohammad Javad Zarif e l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea Josep Borrell, a margine dell’ International Follow-up Committee sulla Libia, la conferenza sulla sicurezza che ha avuto luogo a Monaco di Baviera.
Nel corso dei colloqui, riferisce il ministero degli Esteri russo in una nota, si è discusso del programma nucleare iraniano, nonché della situazione in Medio Oriente, in particolare in Siria.
«Si è svolta una discussione sulla situazione in Medio Oriente e in Nord Africa, nonché sul piano d’azione congiunto globale sul programma nucleare iraniano. Sono state affrontate alcune questioni relative alle relazioni Russia-Ue e Russia-Iran», questo riferisce la nota ufficiale diffusa dopo l’incontro.
Il piano d’azione comune congiunto (Jcpoa), noto come accordo sul nucleare iraniano, è stato firmato nel 2015 da Iran, Francia, Germania, Regno Unito, Russia, Cina e Stati Uniti.
Tuttavia nel maggio 2018 gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo, che mirava a frenare l’attività nucleare dell’Iran. Washington ha così reintrodotto le sanzioni contro Teheran, suscitando le critiche degli europei.
Conseguentemente, la Repubblica Islamica ha iniziato a ridurre gradualmente l’esecuzione dei propri impegni assunti sulla base dell’accordo a partire dal maggio 2019.
Il mese scorso Teheran ha annunciato che avrebbe sospeso tutti gli obblighi rimanenti previsti dall’accordo, dicendosi tuttavia pronto a tornare ad adempiere ai propri obblighi in caso di revoca delle sanzioni e a collaborare con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea).
Intanto, mentre il viceministro della Difesa dell’Arabia Saudita twittava che «fu l’Iran a uccidere nel 2005 l’allora premier libanese Rafiq Hariri», da Teheran il presidente della Repubblica islamica iraniana Hassan Rouhani dichiarava ufficialmente che «tra l’Iran e il Regno degli al-Saud non vi è alcun problema irrisolvibile».
E, in effetti, di un dialogo segreto (del quale però gli americani sarebbero stati perfettamente al corrente) si era velatamente insinuato nell’immediatezza dell’eliminazione del tenente generale Qassam Soleimani, questo da parte di chi esplorò l’ipotesi che vedeva tra le possibili cause della frenesia di Trump di fare fuori l’elemento apicale della Repubblica Islamica proprio quella di evitare che un dialogo tra Teheran e Riyadh potesse avere una qualche possibilità di sviluppo.
Un segnale forte insomma, un’azione che avrebbe permesso a Washington – in via di estromissione dal petrolifero Iraq (si veda il caso Exxon-Bassora) – di conseguire più obiettivi con un colpo solo.
Hassan Rouhani, considerato un esponente moderato della teocrazia iraniana, è stato membro dell’Assemblea degli Esperti dal 1999, del Consiglio del Discernimento della Repubblica Islamica dell’Iran dal 1991, del Supremo Consiglio per la sicurezza nazionale dal 1989 e capo del Centro per la ricerca strategica dal 1992.
Ha ricoperto inoltre l’incarico di vice presidente della Majlis (il parlamento iraniano) e, in qualità di Segretario del Consiglio supremo della sicurezza nazionale (incarico ricoperto dal 1989 al 2005) è stato negoziatore capo con i paesi dell’Aiea sul programma nucleare iraniano.
Estromesso dall’incarico di Segretario del consiglio supremo per la sicurezza nazionale a seguito della vittoria degli ultraconservatori di Mahmud Ahmadinejad, nel maggio 2013 si è presentato alle elezioni presidenziali, divenendo – a seguito dell’esclusione di Hashemi Rafsanjani e della rinuncia di Reza Aref – l’unico candidato per il movimento moderato-riformatore.
Favorevole al programma nucleare sostiene però una linea in politica estera più moderata e maggiormente incline al dialogo con l’Occidente, mentre in politica interna ha promesso riforme sui piani dei diritti civili e dell’economia.
Eletto alla presidenza della Repubblica Islamica dell’Iran nel giugno 2013, è stato poi riconfermato nella carica quattro anni dopo.