L’imponente figura del tenente generale dei Pasdaran iraniani Qassem Soleimani – ucciso il 3 gennaio scorso all’aeroporto di Baghdad in un’esecuzione mirata delle forze americane in Iraq – punta il dito verso Israele, l’odiato nemico che si trova a poche centinaia di metri.
Forse è vero che si tratta di una sorta di incoraggiamento ad attaccare lo Stato ebraico, un’apparente riferimento al piano dichiarato di Hezbollah, il movimento fondamentalista sciita libanese, di conquistare la Galilea, nonché al ruolo chiave che nella sua pratica applicazione verrebbe svolto della forza Quds.
Soleimani non rappresenta solo una figura simbolica, un martire eroico con la cui effige – al pari di quella dei numerosi altri shuhada morti in quella terra – vengono tappezzate le strade del Libano meridionale e dei degradati (e frequentemente bombardati dagli israeliani) quartieri del sud della capitale Beirut, quella banlieu a maggioranza sciita dove, a fianco delle baraccopoli dei campi profughi palestinesi, regna incontrastato Hezbollah.
Infatti, il generale ucciso dal Pentagono su ordine del presidente Donald Trump non era, come sommessamente spesso si afferma, il «numero tre» della gerarchia del potere della Repubblica islamica iraniana, bensì il «numero due» dopo la guida suprema Khamenei, se non addirittura il vero «numero uno», poiché lui era l’artefice della realizzazione del progetto rivoluzionario dell’ayatollah Ruollah Khomeini rimasto incompiuto dopo la scomparsa di quest’ultimo: realizzare il “Governo islamico” ed estenderlo dalla Persia alle coste del Mar Mediterraneo.
Ebbene, ieri una sua gigantesca effige è stata scoperta a pochi metri dal confine dello Stato ebraico, avversario regionale di Teheran e “piccolo satana”. In territorio libanese, in quella vasta porzione del Paese dei cedri controllata da Hezbollah, dove per altro è attualmente schierato un contingente militare italiano nel quadro della missione Onu Unifil 2.
Chissà cosa avranno pensato i caschi blu mentre osservavano quella cerimonia nel villaggio di Marun Al-Ras, quando è stato tolto il telo che copriva l’immagine del comandante della Quds Force, quando la bandiera issata su di essa ha iniziato a garrire al vento permettendo la lettura del messaggio scrittovi sopra: «Presto pregheremo ad Al-Quds», cioè a Gerusalemme. Accanto a lei sventolava il vessillo palestinese. In cima al monumento che è parte del Museo della Resistenza.
E gli italiani? In Unifil sono inquadrati 1.250 uomini, mentre altri 140 possono essere attivati nell’ambito della missione bilaterale di addestramento Mibil.
La corposa presenza militare all’interno della forza multinazionale dell’Onu, della quale Roma esercita attualmente il comando, ha la funzione di interporre un “cuscinetto” tra le Israel Defense Force (Tsahal) e la milizia di Hezbollah.
Allo scopo si susseguono con frequenza le esercitazioni congiunte con i reparti di Beirut, attività addestrative pianificate dai vertici operativi del Sector West di Unifil che interessano migliaia di soldati libanesi a cicli semestrali, che a volte assumono le forme di pattugliamenti congiunti finalizzati a garantire il rispetto della Risoluzione Onu 1701 e la sicurezza sulla Blue Line.
Si tratta di controllare la “linea blu”, grazie a un mandato conferito dal Palazzo di vetro che impone l’intervento solo se richiesti dall’Armée libaneise, cioè del Governo di Beirut.
Gli sciiti di Hezbollah hanno sempre espresso gratitudine e vicinanza all’Italia, ci mancherebbe altro, seppure nei corridoi degli austeri palazzi ministeriali di via XX Settembre circolino voci di episodi non proprio amichevoli, come la sottrazione di armi da parte dei miliziani sciiti ad alcuni caschi blu in pattuglia nelle tortuose strade dell’entroterra del Libano meridionale.
Tuttavia, non è escluso il riaccendersi di scontri tra le forze dello Stato ebraico e quelle di Hezbollah.
L’allerta sui due versanti della frontiera è a uno stato perennemente elevato. Come a ridosso della linea di separazione con la striscia di Gaza (operazione Southern Shield), anche al confine col Libano dal 4 dicembre 2018 gli israeliani hanno avviato l’operazione Northern Shield, proprio lungo la linea armistiziale controllata dai caschi blu.
Un’attività considerata di «engineer works» e finalizzata alla chiusura o alla distruzione delle gallerie scavate nel sottosuolo allo scopo di permettere l’accesso clandestino al territorio dello Stato ebraico da quello libanese.
Un attività che i caschi blu dei battaglioni italiano, ghanese e irlandese hanno il compito di monitorare al fine di riferire sulle eventuali azioni ritenute straordinarie, sia dei militari israeliani che dei libanesi.
Per rimanere alla turbolenta regione palestinese, va registrato che nella notte tra sabato e domenica velivoli dell’aviazione militare israeliana hanno effettuato dei raid a Gaza bombardando obiettivi di Hamas, una rappresaglia per gli attacchi missilistici mediante i quali precedentemente dalla striscia palestinese controllata dal movimento islamista era stato colpito il territorio dello Stato ebraico.