A meno di un mese dalle prossime elezioni politiche israeliane si assiste all’ennesimo colpo di teatro del presidente statunitense Donald Trump, il cosiddetto «accordo del secolo» tra Israele e i Palestinesi.
Nulla di nuovo in realtà, poiché se ne era già parlato ufficialmente in passato, soprattutto dopo che uno dei suoi principali artefici, Jared Kushner (genero e ascoltato consigliere del presidente, ne ha sposato la figlia Ivanka) si era recato in visita ufficiale in Medio Oriente.
Date le attuali dinamiche in atto nel contesto internazionale e – forse soprattutto – di quelle interne a Usa e Israele, sarà possibile attendersi pericolose accelerazioni nella sua attuazione?
Entrambi i leader _ tutti e due a capo di partiti conservatori e, almeno uno, cioè il leader del Likud, ancora in difficoltà sul piano giudiziario – potrebbero approfittare di un velato senso di onnipotenza e forzare il gioco.
Tuttavia, i termini di un accordo – che un accordo in realtà non è, dato che verrebbe calato sulle teste di una delle due controparti, i Palestinesi, nella loro totale estromissione – sarebbero in ogni caso di difficile applicazione.
Intanto, si è visto come, almeno per il momento, la questione dell’estensione della sovranità dello Stato ebraico sulla Valle del Giordano sia stata “congelata”. Si tratta di un aspetto ineludibile, poiché di fondamentale importanza ai fini della sicurezza di Israele sul proprio fianco orientale.
Un qualsiasi mutamento dello status di quella estesa porzione di territorio cisgiordano militarmente e capillarmente occupato da Tsahal dal 1967, anche se concepito per un periodo transitorio (ma necessariamente lungo) non potrebbe essere stabilito unilateralmente da Gerusalemme, altrimenti si rischierebbe seriamente di porre a repentaglio l’accordo di pace in essere con il Regno Hascemita instabilità in quello specifico settore.
Dal canto suo, il «piano Trump» prevedrebbe uno scambio di territori, da un lato Israele consoliderebbe le sue colonie nel West Bank (vecchio cavallo di battaglia di Netanyahu), mentre quale contro partita all’Amministrazione nazionale palestinese (Anp) verrebbero ceduti alcuni territori nel deserto del Negev non distanti dalla Striscia di Gaza.
Quello dello scambio di territori non rappresenta una novità, esso infatti aveva trovato una elaborazione nelle sue linee generali per iniziativa di un gruppo di studio formatosi attorno al maggiore demografo israeliano, l’ebreo di origini triestine Sergio Della Pergola.
“Terra in cambio di terra”, questo il principio chi informò quella possibile opzione, con un ritorno dello Stato ebraico entro confini per il più corrispondenti a quelli precedenti la guerra del 1967 a fronte di uno scambio di territori che si sarebbe dovuto trattare con i Palestinesi.
Già allora le ipotesi concernevano il cosiddetto «triangolo», cioè quella porzione di territorio dello Stato ebraico a est di Tel Aviv e Netanya popolato prevalentemente da arabi, unitamente a una serie di villaggi della Galilea, anch’essi abitati da palestinesi.
Oggi il principale sostenitore di una soluzione del genere, che contribuirebbe a rendere lo Stato ebraico “etnicamente più puro” mediante la cessione all’Anp della sovranità su una serie di villaggi popolati da arabi, è di uno degli esponenti di maggiore spicco della destra israeliana, Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beitenu.
Oggi i fautori di questa “cessione” hanno ricevuto un avallo importante, irresistibile si direbbe, quello di un Trump liberatosi dall’impeachment e lanciato nella sua personale campagna elettorale per la riconferma per un altro mandato alla Casa Bianca.
Una soluzione che interesserebbe direttamente non soltanto alcuni villaggi della Bassa Galilea per complessive 260.000 persone, ma anche quelle porzioni di deserto del Negev lungo il confine con l’Egitto – ma non collegate con la Striscia di Gaza – che verrebbero assegnate all’Anp, che tuttavia su questi aspetti non è stata neppure interpellata.
Di pari passo (o forse già prima), si procederebbe alla compensazione mediante la prosecuzione della politica degli insediamenti ebraici in Cisgiordania.
Tuttavia, se sulla carta questo «accordo del secolo» viene propinato come qualcosa di irresistibile e potenzialmente salvifico, nei fatti esso presenta non poche difficoltà di varia natura in molti casi difficilmente sormontabili, se no a caro prezzo.
Esse sono state trattate in un articolo a firma Ely Karmon pubblicate ieri dal quotidiano “Jerusalem Post”, nel quale l’autorevole analista dell’Interdisciplinary Center di Herzliya ha affrontato i vari aspetti dirimenti della questione esprimendo non pochi dubbi riguardo a una loro possibile composizione.
Egli esordisce affermando che i cittadini arabi di Israele appartenenti alle comunità del cosiddetto «triangolo» verrebbero direttamente colpiti da un provvedimento concepito sulla scorta di un “vizio” di natura politica che fa del “piano Trump” lo strumento principe nella lotta per la sopravvivenza politica del premier uscente Netanyahu.
Al riguardo il professor Karmon è stato tranchant: «Anche prima della sua pubblicazione ufficiale (del piano, n.d.r.), era chiaro a coloro i quali conoscono il Medio Oriente che non c’è praticamente alcuna possibilità che esso porti alla pace tra le parti, mentre al contrario esiste la realistica possibilità che esso causi aspre battaglie politiche e una nuova ondata di violenza».
«La parte palestinese è la principale vittima del piano – ha egli aggiunto -, infatti si è vista la chiara preferenza per le esigenze di Israele in ambito territoriale, di sicurezza e politico, senza tuttavia un coordinamento, una consultazione o una partecipazione da parte dell’Autorità palestinese».
A parte Trump e Netanyahu, infatti, sul palco a celebrare l’accordo del secolo c’erano soltanto i membri della delegazione di Gerusalemme, diversi donatori americani e tre ambasciatori Arabi di Oman, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, tre Paesi del Golfo Persico la cui presenza è apparsa ai più superflua.
Come affermato, gli arabi israeliani diverrebbero oggetto passivo della ridefinizione dei confini, con la conseguenza che le “comunità triangolari” diventerebbero parte dell’Anp.
Ma, come previsto, il presidente Mahmoud Abbas ha però respinto il piano, minacciando di porre fine al coordinamento della sicurezza con lo Stato ebraico, riuscendo a persuadere (o costringere) la Lega araba a respingere in toto il piano Trump.
L’amministrazione statunitense si è allarmata per la pressione esercitata dagli Stati arabi moderati e ha chiesto che il piano sia pienamente accettato e che l’attuazione dell’annessione sia sospesa fino a dopo le elezioni e, comunque, in coordinamento con lui.
«La leadership Israeliana – ha proseguito poi Karmon -, che negli ultimi anni è stato in stretto contatto e in rapporti di collaborazione strategica con Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman e Bahrain nel contrasto della minaccia iraniana e del terrorismo jihadista, ha sottovalutato l’umore della piazza araba, cioè della minaccia esistenziale per i regimi al potere in quei Paesi.
Nonostante alcune dichiarazioni incoraggianti rese dai ministri degli esteri di Abu Dhabi e Manama, la Lega Araba è tornata ai principi dell’iniziativa araba del 2002, che non è esattamente in linea col piano Trump, un riposizionamento che ha sorpreso l’amministrazione americana.
Ma, è opinione del docente di Herzliya, che: «Le persone che stanno dietro al piano americano – cioè lo stesso Kushner, l’ambasciatore David Friedman e l’inviato presidenziale Jason Greenblatt – non sono esattamente esperti del Medio Oriente e sono troppo vicini alle posizioni dei coloni israeliani (…) Non sarà quindi una sorpresa se le manifestazioni di antisemitismo negli Usa si intensificheranno durante la campagna elettorale e tra gli ambienti estremisti locali».
Riguardo agli atteggiamenti della dirigenza palestinese, Karmon non ha mancato però di sottolineare come essa «abbia continuato a resistere a qualsiasi compromesso reale dopo la firma degli accordi di Oslo nel settembre 1993. Dapprima Yasser Arafat e poi Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non furono d’accordo con le proposte rivolte loro dal primo ministro israeliano Ehud Barak e dal presidente statunitense Bill Clinton, in seguito neppure con quella molto più generosa di Ehud Olmert».
Sebbene L’Anp continui a richiedere uno stato entro i confini del 1967, questione ampiamente affrontata nel corso dei precedenti negoziati, i veri problemi dirimenti permangono lo status della città di Gerusalemme e il diritto di ritorno dei rifugiati palestinesi.
Ma non solo. Il piano Trump per avere successo prevede la necessaria smilitarizzazione della Striscia di Gaza e il disarmo di Hamas, tuttavia nelle cinquanta pagine del piano non ne vengono menzionate le modalità di esecuzione. Ma si tratta di un aspetto dirimente, poiché un accordo tra l’Anp e Israele non raggiungibile finché il movimento islamista palestinese, che si pone tra i suoi obiettivi principali la distruzione dello Stato ebraico, continuerà a controllare militarmente Gaza.
«E cosa ha fatto il governo israeliano negli ultimi due anni? – pone come interrogativo Karmon nel suo intervento di ieri sul JP – Cerca di “accordarsi” con Hamas, ma in realtà ne perpetua il dominio militare e il controllo della striscia di Gaza».
«Gli abitanti della comunità del triangolo arabo in Israele hanno ragione a opporsi al piano proposto – ha infine affermato l’analista dell’Idc -, allo stesso tempo, alcuni dei suoi leader hanno espresso posizioni estreme che non favoriscono le relazioni tra i due popoli. L’aumento delle bandiere palestinesi durante le proteste produrrà soltanto l’effetto di convincere i cittadini ebrei che è auspicabile spostare le città e i villaggi triangolari in un futuro Stato palestinese».
Ma a questo punto «gli unici vincitori a livello regionale saranno il regime di Teheran – che sicuramente incoraggerà qualsiasi partito palestinese a opporsi al piano attraverso la violenza e il terrorismo – e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha fortemente criticato il piano e ha già messo in gioco Gaza e Gerusalemme attraverso le sue proposte».
Egli ha quindi concluso con un auspicio e una esortazione al buon senso: «Speriamo – ha scritto – che il governo israeliano e l’amministrazione Trump superino la tentazione di compiere azioni di annessione pre-elettorale, atti che aumenterebbero soltanto la probabilità di nuove violenze. Occorre dare al governo la possibilità di esaminare seriamente i punti positivi del piano Trump, ma in dialogo con l’Anp e gli Stati arabi moderati. Il prossimo governo (israeliano, n.d.r.) dovrà anche assumere finalmente una decisione sul modo come risolvere il problema di Gaza, al fine di non perpetuare il dominio di Hamas e garantire pace e tranquillità ai cittadini del sud di Israele».
https://www.jpost.com/Opinion/Deal-of-the-Century-born-in-sin-616783