Con la sua voce roca, vincendo l’affanno che tormentava il suo respiro, sorseggiando un poco di Sarajevsko Pivo, Sharif, camionista musulmano in pensione che era nato e vissuto in quella città, ma che aveva girato l’Europa col suo autocarro ai tempi della Jugoslavia, ogni qualvolta gli chiedevo di mettermi in contatto col cardinale Puljić, lui replicava sempre alla stessa maniera:
«Va bene, ma prima devo parlare con lui. Sappi che Puljić è un uomo molto buono e intelligente, e prima di dire qualcosa a qualcuno soppesa attentamente le parole, perché in questa situazione non può permettersi di dire a qualcuno qualcosa di sbagliato, qualcosa che qui potrebbe creare grossi problemi… soprattutto quando parla a un giornalista».
Sharif era un uomo di mondo, un gigante affabile e sempre disponibile che parlava perfettamente l’italiano. Nel tempo era divenuto uno dei referenti sicuri per gli inviati della stampa estera nella capitale bosniaca.
Sempre amorevolmente assistito dalla moglie, ci affittava una delle camere del suo non grande appartamento in quella piccola traversa in salita della Mula Mustafe Bašeskije, una delle arterie che dalla città turca si connettevano con la Maršala Tita fino ad arrivare giù, all’incrocio con Alipašina e Skenderija.
E, in effetti, il cardinale Vinko Puljić era proprio così, una persona estremamente misurata.
Quella di allora, appena uscita dalla carneficina della guerra, era una Bosnia diversa da quella attuale, a tal punto cambiata da indurre questo prelato così attento alle espressioni e agli equilibri da giungere ad affermare che i cristiani in quel Paese stavano vivendo una persecuzione silenziosa e che vedevano la situazione incerta.
Era il settembre 2018 quando l’arcivescovo della città martire bosniaca, in una intervista rilasciata a margine della Plenaria del Consiglio delle Conferenze episcopali europee di Poznan, denunciò la persecuzione silenziosa dei suoi correligionari nelle zone popolate dai musulmani stavano abbandonando i loro luoghi di origine. Un «esodo nascosto» lo definì in quell’occasione.
Erano trascorsi tre anni dalla visita del pontefice, tuttavia, se si eccettuava il clima festoso creato da Bergoglio, a livello pratico era cambiato molto poco, anche nei rapporti con la Chiesa cattolica romana, che insisteva per riavere indietro i beni nazionalizzati a suo tempo dal comunismo.
«Siamo una minoranza – affermò quella volta – e gli Accordi di Dayton non danno uguaglianza per tutti i cittadini della Bosnia Erzegovina. I mass media sono duri, e molti giovani vanno via perché si stancano di un clima in cui c’è pressione da tutte le parti, i politici, d’altro canto, non lavorano per tutti. Quelli che sono eletti lavorano solo per i loro elettori».
Da oggi Vinko Puljić ha un coadiutore. Il porporato, che il prossimo 8 settembre compirà settantacinque anni e che è arcivescovo di Sarajevo dal 19 novembre 1990, verrà dunque messo presto a riposo per raggiunti limiti di età.
Bergoglio al suo posto – per il momento solo come coadiutore – ha nominato monsignor Tomo Vukšić, religioso che finora ha ricoperto l’ufficio di ordinario militare per la Bosnia ed Erzegovina.
Nato nel 1954, Vukšić è stato ordinato sacerdote per la diocesi di Mostar-Duvno nel 1980. A Roma ha conseguito il dottorato in teologia ecumenica presso il Pontificio Istituto Orientale e la licenza in diritto canonico presso la Pontificia Università Urbaniana, infine, nel febbraio del 2011 Benedetto XVI gli ha conferito l’incarico di ordinario militare.
Puljić nel corso della guerra nella ex Jugoslavia non ha mai abbandonato la sua diocesi, restando a Sarajevo durante tutto il periodo dell’assedio.
Presidente della Conferenza Episcopale di Bosnia ed Erzegovina per due mandati: dal 1995 al 2002 e dal 2005 al 2010, attualmente è il cardinale elettore di più antica nomina.