Nell’imbroglio libico, tanto complicato per la geopolitica internazionale quanto devastante per i poveri locali, c’è stato, fra gli altri, uno specifico conflitto interno all’Islam sunnita che ha visto da una parte Turchia e Doha, sponsor della Fratellanza mussulmana e supporter di quel che rimane del governo di Tripoli, e dall’altra Egitto, Arabia saudita e Abu Dabi, che sostengono il Generale Haftar.
In tale conflitto si mescolano rivalità ancestrali e dottrinali con interessi economici immediati, manco a dirlo legati allo sfruttamento degli idrocarburi. Esattamente come succede nel più ampio scontro in cui esso si inserisce, come in un gioco di scatole cinesi: quello che divide le due anime della religione di Maometto, lo sciismo e il sunnismo. La prima è capeggiata, quasi impersonata dall’Iran e dalla sua teocrazia; la seconda è appunto frammentata, ma se si guarda al Golfo, anziché al Mediterraneo, come terreno primario di rivalità, Riad è il principale antagonista di Teheran.
Ora, né il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan né il principe Mohamed bin Salman né l’Ayatollah Kamanei amano parlare di queste faccende. La Guida Suprema a vita non precisa che la mozione del Parlamento di Bagdad per la cacciata degli stranieri, che ha preceduto l’uccisione di Soleimani, era stata votata dai suoi proxi sciiti iracheni, mentre i rappresentanti sunniti erano assenti dall’aula per protesta. Preferisce inveire contro il Satana americano, invocando la maledizione e la punizione di Allah su di un Presidente, che per parte sua ama dire di essere ispirato da Dio nella sua condotta. Intanto le folle, che nelle città iraniane piangevano la morte del capo di Al Qud’s prima di essere decimate dalle morti per schiacciamento nella ressa spaventosa, bruciavano la bandiera a stelle e a strisce; e già che c’erano anche quella con la Stella di Davide.
Assorbiti da questi eventi che ci toccano da vicino, non dedichiamo altrettanta attenzione a vicende che si svolgono un po’ più in là, ma che vedono anch’esse i seguaci di Maometto in difficoltà. Si tratta dei violenti scontri che si sono svolti in India, da qualche mese a questa parte, come reazione a una legge sulla cittadinanza, che il governo Modi ha fatto approvare dal parlamento di Delhi, egemonizzato dalla sua supermaggioranza induista: una legge che contiene disposizioni gravemente discriminatorie contro la consistente minoranza mussulmana (13%) – e, si noti bene, anche contro un’altra minoranza, quella dei secolaristi, eredi del Pandit Nehru.
Aggiungiamo il fatto che nell’elezione del presidente statunitense Donald Trump, futuro interprete di volontà divine, ebbe peso rilevante la potentissima lobby degli Evangelici (nata da una delle denominazioni del protestantesimo americano), che poi influenzò le elezioni brasiliane così da portare alla presidenza il reazionario e anti-ecologico Bolzonaro e che adesso incide di nuovo sulle prospettive di rielezione di Trump.
O la deriva fondamentalista dello Stato di Israele, ora definito ebraico in barba al 20% di popolazione araba, ma anche alle radici laiche del sionismo. O infine, per venire in Europa, il ‘cristianesimo’ dell’ungherese Viktor Orbán, fautore della ‘democrazia illiberale’ (in piena sintonia con il presidente russo Vladimir Putin), del polacco Kaczyński, che voleva nascondere le responsabilità dei suoi concittadini nel massacro degli ebrei e, perché no, dell’italiano Matteo Salvini che bacia il rosario in piazza mentre rigetta naufraghi e rifugiati dai porti italiani.
Tutto questo sembra confermare la validità di una scuola di pensiero che aveva preso piede all’inizio del secolo: quella del ‘ritorno della religione’ negli affari mondiali. Giusto? Sì, nella misura in cui si dà della religione una lettura politica, identitaria, normativa e/o rivendicativa. Donde la quasi simbiosi con il nazionalismo, riscontrabile praticamente in tutti i casi elencati sopra, e il conseguente effetto negativo su interdipendenza, integrazione e multilateralismo fra le nazioni – dunque, a parere di chi scrive, sulla stabilità internazionale.
Ma se alla religione si attribuisce invece significato spirituale, morale e valoriale, la sussistenza di tendenze e comunità – e anche autorità, come quella di Papa Francesco – alternative a tale lettura tutta politica è compatibile con le trasformazioni in corso nelle diverse società, a loro volta coerenti con la tendenza alla secolarizzazione, che risulta confermata soprattutto fra i giovani. E ciò, contro le apparenze, anche nell’America cristiana e nel Medio Oriente mussulmano.
Due correlazioni aiutano a spiegare tale coerenza: 1) ovunque l’adesione a una fede tende a scendere al crescere del reddito pro-capite, e quindi risente dell’andamento del benessere globale; 2) la religiosità è più debole nelle persone sotto i quarant’anni che in quelle sopra, tanto più quanto dall’appartenenza formale ed ereditaria si passa alla partecipazione ai riti e al credo convinto. Aggiungo il processo di emancipazione femminile, che pur fra continue resistenze, spesso provenienti proprio da istituti e movimenti religiosi a carattere conservatore e identitario, continua ad avanzare.
Dio salvi la secolarizzazione.