Ormai è un vero e proprio bollettino di guerra, poiché le aggressioni ai danni del personale in servizio presso le strutture sanitarie italiane sono aumentate esponenzialmente.
Un fenomeno divenuto oltremodo insostenibile e reso ancora più grave dalla chiusura dei posti di polizia situati all’interno degli ospedali.
Soltanto negli ospedali lombardi nel periodo intercorrente tra il 2016 e il 2019 sono stati registrati quasi 5.000 casi di aggressione ai danni di medici e infermieri, ma si tratta esclusivamente degli episodi denunciati dalle vittime all’Autorità giudiziaria, aspetto che induce a pensare che le statistiche ufficiali non li includano tutti.
A Milano si verificano all’incirca sei aggressioni al giorno, ma, se la Lombardia si pone al primo posto per numero di episodi violenti, questo non deve portare a pensare che il resto del Paese non venga interessato da questo fenomeno.
Al riguardo è emblematica la presa di posizione risalente a pochi giorni fa del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, che si è espresso pubblicamente nel senso della necessità di un intervento urgente che ponga termine al fenomeno.
Il recente caso del tentativo di sequestro e dirottamento di un’autoambulanza a Napoli ha riportato alla ribalta un fenomeno di malcostume che, a onore del vero, è frutto anche dei disservizi della sanità italiana.
Dunque i riflettori si sono nuovamente accesi rendendo ben visibile il problema agli occhi dell’opinione pubblica, col consueto rischio che ora si possa scivolare nella deriva sensazionalistica della facile strumentalizzazione, cavalcandolo sul piano mediatico magari per “strappare” un titolo di telegiornale in prima serata o delle condivisioni nel web, senza tuttavia trovarne una soluzione.
Sull’onda dell’indignazione è stata ipotizzata l’estensione della qualifica di “pubblico ufficiale” ai medici ospedalieri, ma essi, attualmente “esercenti un pubblico servizio”, la rifiutano, in quanto – affermano le organizzazioni sindacali di categoria – esiste già un impianto normativo di riferimento per tali specifiche deprecabili situazioni.
Si tratta dei reati di interruzione di pubblico servizio, danneggiamento aggravato e, nei casi più gravi, di minacce e lesioni, tutte fattispecie contemplate dal Codice penale vigente.
Una volta trasformati in pubblici ufficiali, la differenza per loro sarebbe quella che potrebbero redigere dei verbali, ma certamente questo non contribuirebbe in maniera rilevante a trattenere dal ricorso alla violenza un paziente esagitato (o un parente ovvero l’amico di un paziente).
In particolare, nel corso del suo intervento il presidente Rossi ha inteso riferirsi ai cosiddetti «posti fissi» della Polizia di Stato, presidi fino a poco tempo fa attivi ventiquattro ore al giorno tutti i giorni della settimana, in seguito però soppressi o ridotti nel personale e nell’orario di attività in conseguenza dei tagli di bilancio, al punto che oggi ne rimangono alcuni soltanto negli ospedali più grandi.
I poliziotti non possono trovare una sostituzione con le guardie giurate che svolgono compiti di sorveglianza all’interno delle strutture sanitarie, a queste ultime infatti viene attribuito uno status giuridico diverso da quello degli agenti di polizia giudiziaria.
Esse inoltre – che, va ricordato, sono dipendenti di imprese private appaltate dall’azienda sanitaria locale – hanno esclusive competenze sulle strutture e non anche sul personale ospedaliero, seppure nella maggior parte dei casi si prodighino egualmente intervenendo in difesa di questi quando vengono aggrediti, malgrado il capitolato di appalto non lo preveda.
I sindacati del comparto sicurezza denunciano da tempo l’allarmante frequenza con la quale si ripetono gli episodi di violenza ai danni di medici e paramedici negli ospedali italiani.
Valter Mazzetti, segretario generale dell’Fsp Polizia di Stato, afferma che «la compressione di determinati servizi è conseguenza infausta delle carenze di cui i nostri organici soffrono, che continuano a crescere, e che sono destinate ad aumentare quando nei prossimi anni lasceranno il servizio decine di migliaia di poliziotti senza seria possibilità che vengano colmate da altrettante assunzioni».
Si tratta dell’annoso problema del mancato turn-over, che accomuna gli operatori della sicurezza al personale sanitario, anch’esso di età media elevata con grandi numeri prossimi al pensionamento.
«E’ fin troppo ovvio – aggiunge sempre Mazzetti – che in un contesto in cui il personale non è numericamente sufficiente, magari si preferisce mandare un uomo in più su strada e, piano piano, però si riducono altri servizi, in qualche caso fino a farli scomparire del tutto».
I poliziotti sono ridotti a svolgere compiti di natura sostanzialmente amministrativa, come ad esempio ricevere i referti dal personale ospedaliero.
In passato, prima dei tagli, i loro uffici erano solitamente situati accanto al pronto soccorso e la presenza attiva ovviamente si caratterizzava per un’aderenza maggiore.
Oggi il medico in servizio, qualora si renda necessario, è invece costretto a telefonare al 112 per farsi mandare in ospedale una pattuglia.
Ma, allora di cosa ci sarebbe davvero bisogno, tenuto anche conto delle attuali (in verità croniche) limitate capacità sul lato della spesa?
Secondo il dottor Natale De Falco, medico in servizio presso il pronto soccorso dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli ed esponente del CIMO (Coordinamento italiano medici ospedalieri) «in primo luogo è necessaria una maggiore formazione degli operatori sanitari che ponga questi ultimi nelle condizioni migliori per affrontare l’irrequietezza del paziente, ad esempio mediante dei corsi di comunicazione; quindi pervenire a una corretta ed esauriente informazione dei pazienti che li possa mettere nelle condizioni di consapevolezza riguardo al luogo dove si trovano (l’ospedale) al fine di deterrerli e allo stesso tempo, però, anche tranquillizzarli; infine, e questo rappresenta un passaggio imprescindibile, portare la pianta organica delle strutture sanitarie a livelli adeguati attraverso l’assunzione di nuovo personale, dato che quello attualmente in servizio è in possesso di un’età media elevata e in ogni caso è insufficiente».
In definitiva, il paziente non si reca in ospedale per picchiare medici e paramedici, bensì per essere curato, quindi andrebbe incrementato il personale di accoglienza che possa prenderlo in carico una volta entrato nel pronto soccorso tranquillizzandolo, anche in sala di attesa e a maggior ragione se ha un codice bianco o verde.
Questo porterebbe a una riduzione degli episodi di insofferenza, tenuto conto che su cento casi di aggressione circa il 10% vede protagoniste persone violente.
Dunque, innanzitutto formazione e informazione, quindi eventualmente anche repressione.
Un concetto fatto proprio dal Ministero della Salute nel 2007 per mezzo di una propria «raccomandazione» (la nr. 8), formalmente recepita – ma con molto ritardo da non poche aziende sanitarie locale – e tuttavia finora mai concretamente applicata.
«È probabilmente da qui che si dovrebbe ripartire – conclude il dottor De Falco -, anche se si tratterebbe di un impegno gravoso sul piano della spesa pubblica».
Insieme al dottor Natale De Falco, medico ospedaliero esponente del Coordinamento italiano medici ospedalieri (CIMO), insidertrend.it ha cercato di approfondire questa specifica problematica; di seguito è possibile ascoltare l’intervista con il medico napoletano registrata nel pomeriggio del 10 gennaio 2020 (A221).