Di Mario Baldassarri, pubblicato da “Il Sole 24 Ore” il 4 gennaio 2020. Sulla base dei dati ufficiali di Eurostat dal 2000 al 2019, il Centro studi Economia Reale ha misurato il grado di convergenza o divergenza che si è realizzato in termini di Pil pro capite reale tra i 28 Stati dell’Unione europea e i 19 della zona euro.
In questi venti anni c’è stato un forte allargamento dell’Unione (da 15 a 28 Paesi), ma il processo di approfondimento ancora oggiAggiungi un appuntamento per oggi risulta zoppo. C’è infatti stata l’introduzione dell’euro e della Banca centrale europea tra 19 Paesi, ma dobbiamo ancora completare l’Unione bancaria e dovremmo introdurre almeno un embrione di bilancio federale europeo da affiancare alla Bce e alla moneta unica.
I dati mostrano che c’è stato un processo di convergenza tra i vari Paesi dell’Unione (catching-up), più forte tra i Paesi appartenenti all’euro.
Certamente, questa convergenza avrebbe potuto e dovuto essere più forte e accelerata. Sta di fatto però che non è vero che l’Unione e la moneta unica abbiano avuto effetti divergenti e dirompenti tra i vari Paesi.
Diverso potrebbe essere il ragionamento rispetto alla distribuzione dei redditi interna a ciascun Paese. Ricordiamo però che siamo in una Europa intergovernativa e in questo assetto istituzionale il compito della redistribuzione interna dei redditi spetta a ogni governo nazionale.
Qualcuno sostiene che i governi nazionali possono fare ben poco sul piano della distribuzione dei redditi perché sono limitati dai vincoli europei, soprattutto da quelli relativi a chi fa parte dell’euro.
Dai dati storici questa appare una falsa vulgata. Infatti, il Pil reale pro capite è aumentato in tutti i Paesi e le differenze tra gli Stati membri si sono ridotte. Pertanto, i governi nazionali, con un Pil pro capite via via crescente e in avvicinamento rispetto alla media europea, avrebbero potuto redistribuirlo in modo più equo tra i propri cittadini senza necessariamente dover sforare i parametri europei.
Tra i 19 Paesi dell’euro e tra i 28 Paesi dell’Unione, l’unica eccezione è l’Italia. Dal 2000 al 2018 il nostro Paese è passato da un reddito reale pro capite che era al 103% della media della zona euro all’86 per cento.
Rispetto all’Unione europea, l’Italia nel 2000 era al 120% della media e nel 2018 è scesa al 95 per cento. Siamo quindi l’unico Paese tra i 19 appartenenti all’area euro ad aver perso 17 punti e tra i 28 Stati dell’Unione 25 punti.
Per di più, mentre tutti gli altri hanno aumentato il loro Pil pro capite, l’Italia è l’unico Paese ad avere un Pil reale pro capite ancora oggiAggiungi un appuntamento per oggi inferiore a quello che aveva nel 2000.
Pertanto, non solo abbiamo perso posizioni rispetto all’Europa, ma abbiamo perso posizione anche rispetto a noi stessi cioè a come eravamo nel 2000, venti anni fa.
Questa anomalia italiana non ha niente a che vedere con i parametri europei ma è in realtà collegabile a cause strutturali tutte interne e alle politiche economiche attuate dai vari governi nazionali.
Confrontando per gli ultimi dieci anni 17 Def e Nadef presentati dai sette governi che si sono succeduti, si verifica che il dibattito di politica economica si è sempre articolato su numeri farlocchi e sugli stessi magheggi contabili.
Da questi numeri si rivela un paradosso: abbiamo sempre fatto una politica di bilancio restrittiva che frena la crescita e non fa austerità, continuando a fare deficit e soprattutto aumentando il debito, sia in valore assoluto che in percentuale del Pil. In realtà, all’interno dell’Italia alcuni sono stati costretti a fare austerità ma altri hanno potuto continuare a sguazzare tra gli sprechi di spesa pubblica e le mancate entrate da evasione.
Di fatto deficit e debito sono stati fatti per aumentare le spese correnti ben al di là del parallelo aumento delle tasse. Questa è stata un decisione interna non imposta da nessuno dall’esterno.
Sul fronte dei parametri dell’economia reale i dati mostrano più bassi investimenti pubblici e privati, più alta spesa corrente, risparmio pubblico negativo (disavanzo di parte corrente), produttività totale dei fattori in declino da oltre 25 anni.
Questi andamenti sono stati tutti decisi, nei fatti e nei numeri, dai vari governi nazionali e non sono stati imposti dalla Commissione europea.
Un esempio concreto: il famigerato limite del 3% al deficit pubblico con progressivo azzeramento.
Ebbene tutti i governi italiani hanno detto a parole di volerlo perseguire e rispettare (poi nei fatti non è stato realizzato), ma lo hanno fatto aumentando la spesa corrente, aumentando le tasse e tagliando a metà gli investimenti pubblici.
Questo modo di perseguire l’equilibrio di bilancio non ce lo ha imposto nessuno e per di più si è dimostrato un modo vizioso e controproducente perché ha ridotto la crescita e amplificato gli squilibri di finanza pubblica.
Non è quindi colpa di altri se l’Italia è l’unica anomalia dell’Europa, quanto piuttosto il risultato di nostre decisioni nazionali.