I Kurdi sono ripiombati nuovamente al centro dell’attenzioni dell’opinione pubblica dopo il loro abbandono nella Siria settentrionale seguito all’uscita di scena degli Usa. La precarietà dell’attuale situazione pone serie incertezze per il futuro.
Dopo aver contribuito in modo fondamentale alla sconfitta di Islamic State sul campo di battaglia, ora uomini e donne al seguito dei movimenti più o meno legati al Pkk che fu di Abdullah Öçalan oggi sono schiacciati dalla tenaglia della poderosa macchina da guerra di Ankara.
È l’ultimo atto di una tragedia in vari atti che ha visto questo popolo senza Stato oggetto di repressioni o vere e proprie persecuzioni.
Uno degli ultimi fu il regime di Saddam, che tentò di arabizzarli attraverso la deportazione di parte di loro nelle zone arabe dell’Iraq e ai confini con l’Iran, oppure gasandoli in massa con le testate di «Ali il chimico» come ad Halabja, la kurda Kîmyabarana Helebce, fatta bombardare dal rais di Baghdad il 16 marzo 1988.
In effetti, il dittatore baathista , allora impegnato nella lunga e sanguinosa guerra di aggressione all’Iran degli ayatollah, con i Kurdi aveva numerosi conti da saldare. Infatti, oltre all’estromissione di un pericoloso incomodo da un territorio che trasudava petrolio, c’erano anche le perduranti trame di alcuni potenti leader del Kurdistan iracheno – Massud Barzani (Pdk) e Jalal Talabani (Upk) -, che brigavano pericolosamente con la Central Intelligence Agency del «greco» (in realtà di origini albanesi) George Tenet per provocare un regime change a Baghdad.
Altri tempi quelli, poiché una volta deposto Saddam il gioco parve favorevole ai Kurdi, o almeno a una parte di loro, quando a cercare di dettare legge nel nuovo contesto geopolitico venutosi a creare furono gli americani, protagonisti assieme a israeliani, turchi di una nuova strategia regionale, non soltanto energetica, che vide gli importanti siti estrattivi e le condotte in Kurdistan utilizzati anche in funzione dell’isolamento di una Russia ancora troppo debole dopo l’implosione dell’Unione sovietica, con sullo sfondo il contenimento della Repubblica islamica iraniana.
I Kurdi erano sempre lì, divisi dalle frontiere degli Stati sui quali insistevano i loro territori e divisi anche tra loro, in partiti, fazioni e clan.
Una costante confermata dal fallimento del referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno indetto nel settembre 2017 e dalla concomitante polarizzazione politica tra la neonata coalizione Nishtiman (formata dai partiti minori Gorran, Komal e Coalizione per la Democrazia e la Giustizia) e il duopolio Pdk-Upk.
Infine, l’ultimo atto del dramma, quello tuttora in corso, che vede le milizie dello Ypg schiacciate dai turchi, nella loro tragica consapevolezza di essere prive della capacità di arrestare la macchina bellica messa in moto in Siria da Reçep Tayyip Erdoğan.
Essi si sono visti dunque costretti a rivolgere lo sguardo a Damasco, lo hanno potuto fare grazie all’interposizione dei buoni uffici da parte del Cremlino, sempre più attivo in Medio Oriente.
Forse l’unica possibilità rimasta a questa filiazione del Pkk e alle altre formazioni minori che gli gravitano attorno potrà essere quella di trattare per una cessione a Bashar al-Assad dei territori rimasti ancora sotto il loro controllo in cambio della concessione di una forma di autonomia amministrativa su quasi un terzo di quello che fu lo Stato siriano.
Intanto le unità militari di Ankara lavorano alacremente fin dove riescono ad arrivare. Erdoğan non vuole kurdi ai suoi confini e vorrebbe spazzare via da quella strategica regione anche ciò che rimane del Pkk, facendo piazza pulita di loro nella regione montana nordoccidentale del Sinjar, dove la combattiva formazione guerrigliera ancora sopravvive.
Lì, sulla strategica direttrice originante a Erbil, il Pkk aveva costituito una delle sue più importanti basi, in una terra aspra popolata in buona parte da ezidi che, nel recente passato, hanno subito le angherie e i massacri degli jihadisti dell’Isis.
Una direttrice dove, però, transitano anche i flussi logistici del dispositivo militare statunitense in Siria e il petrolio estratto nel Kurdistan iracheno, oltre agli innumerevoli oggetti del contrabbando.
«I Kurdi sono un popolo tradito dalla storia», così alla Sioi, la Società per l’Organizzazione internazionale hanno intitolato l’incontro/seminario che ha avuto luogo il 10 dicembre scorso su questo popolo sfortunato e tenace.
«Ci hanno venduti di nuovo dopo averlo fatto a Kirkuk», così ha avuto modo di affermare in quella sede Rezan Kader, Alto Rappresentante del Governo regionale del Kurdistan in Italia e presso la Santa Sede, che – nel corso del suo intervento molto diplomatico venato da appelli accorati – ha aggiunto che «né i profughi cristiani né quelli Kurdi fanno rientro nei loro villaggi di origine dell’Iraq, perché ora lì sono presenti milizie sciite estremiste che neppure il governo di Baghdad riesce a controllare, quel governo che, per altro non ha mai versato interamente le royalties del petrolio che spettavano ai Kurdi».
Quello stesso giorno, il 10 dicembre 2019, ricorreva la Giornata mondiale dei Diritti umani, un aspetto che è stato sottolineato negli interventi dei relatori, che non hanno mancato di sottolineare i dubbi sull’efficacia di strumenti di tutela come la Corte internazionale sui crimini contro l’umanità, ritenuta «estremamente parziale» poiché «ha colpito, o ha tentato di colpire, soltanto i nemici dell’Occidente», giungendo infine alla conclusione ponendo un interrogativo dirimente: è lecito negoziare sulla base della “svendita” dei Kurdi, un popolo che ha pagato la messa in discussione da parte di alcuni dei principi sanciti dalla Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo?
àdi seguito è possibile ascoltare l’audio dell’incontro che ha avuto luogo nella sede della Sioi il 10 dicembre scorso (A218)