ECONOMIA, fondi di investimento. «Voglio la testa di Maduro!»

Venezuela, Argentina (e Turchia), queste le piazze “attenzionate” dai Rotschild e dagli altri acquirenti di titoli dei debiti pubblici, però a Caracas dovrà avvenire prima un “regime change”

Orizzonti lunghi per gli investitori, questo si evincerebbe dalle dichiarazioni rese negli ultimi giorni sulla stampa internazionale specializzata da Jean-Jacques Durand del fondo di investimento Emerging Debt.

Gli investitori avrebbero messo gli occhi su piazze non del tutto sicure come Argentina, Venezuela e Turchia.

Tre mercati, in particolare quelli sudamericani, che – a detta sua – rappresenterebbero le principali scommesse del fondo da lui gestito, che è riconducibile a Edmond de Rothschild.

Il peso congiunto di questi tre mercati nel portafoglio del fondo si attesta intorno al 35%, mentre a su un quarto mercato, l’Ucraina, è stata investita una quota inferiore al 10 per cento.

Durand non nasconde l’elevato livello di rischio insito in queste operazioni, ma, dal canto suo ritiene (o almeno così afferma) che si tratterebbe di un rischio poco correlato con l’andamento dei mercati sviluppati.

È per questo  che non pochi clienti di Emerging Debt vi fanno ricorso nella forma di un investimento satellite, in grado di offrire nel lungo termine mediamente rendimenti più elevati.

«L’orizzonte minimo di investimento è di tre anni – afferma Durand -, tuttavia direi che siamo piuttosto sui cinque o dieci anni».

Orizzonti lunghi, dunque, ritenuti necessari per superare le attuali non semplici problematiche che affliggono questi Paesi, che restano comunque una fonte di preoccupazioni per il gestore.

«Due anni fa Emerging Debt ha raggiunto la sua massima quotazione – ha aggiunto Durand –, ma sono poi seguiti due anni difficili».

Venezuela e Argentina, due delle principali piazze “attenzionate”, hanno incontrato rilevanti difficoltà, tuttavia non hanno comportato sensibili condizionamenti nell’indirizzo del fondo.

«Ad esempio il Venezuela per noi rimane uno dei migliori investimenti di lungo termine degli ultimi venti anni – ha spiegato il capo di Emerging Debt -, poiché nel Paese sudamericano sono in atto dinamiche che porteranno a un cambiamento di regime».

L’Argentina ha già cambiato strada, le elezioni tenutesi il 27 ottobre scorso hanno sancito la sconfitta del presidente uscente Mauricio Macri e la vittoria del tandem peronista formato da Alberto Fernande e da Cristina Fernandez de Kirchner.

Emerging Debt ha iniziato ad acquistare titoli del debito argentino nel 2018, dopo il primo shock che ha colpito il Paese, continuando a farlo anche nelle scorse settimane, cioè dopo lo shock di agosto.

Già dopo il primo evento considerato i bond argentini hanno perso valore, quale riflesso di un’incombente scenario di ristrutturazione del debito.

«Considerando quindi quelli che erano i livelli di partenza – ha proseguito Durand -, questi bond rappresentano dunque una buona opportunità, naturalmente in un’ottica di lungo termine».

Gli osservatori del settore finanziario sono infatti convinti che il dialogo tra la Casa Rosada e il Fondo monetario internazionale – che attualmente ha sospeso il piano di aiuto finanziario da 56 miliardi di dollari -, sembrerebbe sul punto di riavviarsi.

«I titoli di Stato dell’Argentina – ha concluso – stanno scontando una situazione disastrosa, simile a quella del 2001. Però oggi non siamo nel 2001, siamo in una situazione diversa, ed è per questo che mi aspetto un recupero. L’Argentina rimarrà all’interno del programma del Fondo monetario internazionale ma negoziando più tempo per onorare il proprio debito».

Durand manifesta ottimismo, tuttavia i recenti rialzi dei tassi di interesse del dollaro Usa decisi dalla Federal Reserve dovrebbero indurre a una riflessione.

Infatti, se si esclude dal discorso il Venezuela – per le note ragioni di instabilità proprie della Republica Bolivariana orfana di Chávez Frias -, paesi come l’Argentina e la Turchia sono quelli che si trovano maggiormente soggetti ai rischio derivanti da tassi di interesse e cambi crescenti della moneta verde, poiché hanno il loro debito pubblico in buona parte denominato in dollari (il 70% l’Argentina e circa il 40% la Turchia).

Non solo, per entrambi quasi la metà del debito viene detenuta all’estero, e dato che nessuno dei due registra tassi di risparmio interno elevati (al contrario sono modesti) e non sono neppure grandi esportatori, si vedono costretti a indebitarsi in dollari al fine di favorire la propria crescita economica, contraendo così – è il caso di Buenos Aires – enormi debiti che ora gravano paurosamente sulla bilancia dei pagamenti.

La Turchia, invece, vive la fase discendente del suo leader, Recep Tayyip Erdoğan, che ne ha dapprima drogato l’economia assecondando politiche creditizie che hanno incentivato l’indebitamento delle imprese e dei privati cittadini, quindi l’ha sovraesposta sul piano bellico, impegnando il proprio strumento militare in costose (sia economicamente che politicamente) campagne all’estero.

Per entrambi i Paesi i problemi sono arrivati quando gli investitori hanno smesso di sottoscriverne i titoli del debito pubblico (è il caso argentino) o quando la credibilità si è ridotta e le pressioni politiche esercitate dall’estero sono state incrementate (è il caso turco).

Un debito pubblico denominato in dollari contratto da un paese che ha la maggior parte dei suoi ricavi nella moneta nazionale (ad esempio perché non esporta materie prime) con l’apprezzamento della valuta Usa diviene più costoso.

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