Al termine del vertice durato tre ore, che ha visto confrontarsi il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e sei ministri del suo governo con due dei massimi dirigenti dell’Arcelor-Mittal, le facce erano scure, poiché il gigante siderurgico indiano aveva posto condizioni apparentemente insormontabili alla base della sua permanenza in Italia: cinquemila esuberi oltre alla dirimente questione dello «scudo legale».
Ma mentre trattavano, contestualmente avviavano la procedura per la dismissione dell’Ilva, interfacciandosi con i commissari dell’amministrazione controllata del maggiore complesso siderurgico europeo.
La situazione resta dunque irrisolta, seppure formalmente la trattativa non è ancora definitivamente sfumata.
Però, intanto il Governo Conte 2, sempre più vacillante, pensa a un nuovo decreto legge che tuteli eventuali futuri acquirenti: a Palazzo Chigi (e magari anche alla Leopolda) hanno in testa qualche nome?
A questo, nel bel mezzo di una incandescente polemica politica, tutto e niente è possibile.
Adesso è l’ora delle accuse, dei titoloni dei giornali, delle paure e delle speranze delle maestranze di un’impresa un tempo pubblica, quell’Italsider che i Riva, una volta acquistata dallo Stato, si ripagarono con un anno di esercizio.
Un colosso ritenuto strategico che i detrattori dell’esecutivo in carica – in parte animati da sottile millenarismo – giungono a stimare di un valore pari a un punto e mezzo di prodotto interno lordo.
Ma, l’eventuale chiusura dell’Ilva porterebbe davvero alla perdita dell’1,5% del Pil italiano?
Non tutti concordano su queste cifre “sparate” da alcuni uomini politici a da non pochi commentatori delle vicende tarantine, poiché le ritengono completamente sballate e soprattutto fuorvianti.
Potrebbe l’Italia, ottava potenza economica mondiale, avere un impianto industriale che da solo rappresenta l’1,5% del Pil?
Se così fosse – affermano coloro i quali contestano tale assunto – il Pil italiano si potrebbe quindi comporre di una settantina di impianti di dimensioni e importanza simili a quello pugliese.
Una conclusione apparentemente risibile, ma per fare chiarezza sull’argomento tornano utili le conclusioni di uno studio elaborato lo scorso mese di giugno dall’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez).
In esso è stato valutato l’impatto di un’eventuale chiusura del complesso siderurgico dell’Ilva di Taranto sull’economia nazionale e anche su quella meridionale, distinguendo le diverse aree geografiche utilizzando il proprio modello di previsione econometrica, che prende in considerazione gli effetti diretti, indiretti e indotti.
Allo specifico scopo sono state prese in considerazione le perdite del colosso siderurgico da quando esso è stato posto in amministrazione controllata, cioè dal 2012 a oggi.
Dai riscontri sono emersi i valori relativi ai cali della produzione (in tonnellate di acciaio) in questi ultimi sette anni, giungendo alla conclusione che le cifre allarmanti delle quali parlano alcuni commentatori in questi giorni, riferendosi a un punto e mezzo di prodotto interno lordo nazionale, cioè più o meno venticinque miliardi di euro, dunque praticamente una manovra in finanziaria.
In realtà, se le acciaierie di Taranto venisse chiuso l’ammontare della perdita derivante per il prodotto interno lordo italiano si aggirerebbe al massimo soltanto al suo 0,2%, cifra inclusiva degli effetti indiretti e indotti, quindi non solo gli impianti in sé.
Ma quali potrebbero essere dunque gli effetti diretti, indiretti e indotti realisticamente derivabili dalla chiusura degli impianti?
Il primo riguarderebbe la produzione realizzata e l’occupazione che si perderebbe direttamente nei tre impianti oggetto di valutazione.
Il secondo effetto (indiretto) sarebbe conseguente ai minori input e servizi acquistati che dai tre impianti si diffondono nei restanti comparti e da questi ad altri ancora. In esso, ad esempio, viene computato il valore – e l’occupazione derivante – dell’energia elettrica generata in regione e/o altrove necessaria ad alimentare gli impianti siderurgici.
Il terzo effetto invece riguarderebbe l’indotto, questo a causa della riduzione del consumo derivata dai minori livelli di occupazione (diretta e indiretta).
Tabella 1 – Impatto della chiusura Ilva rispetto alla produzione attuale | |||
Miliardi di euro | variazione % di Pil | ||
Pil | -3,5 | -0,2 | |
investimenti fissi lordi | -1,0 | -0,3 | |
consumi delle famiglie | -1,4 | -0,1 | |
export estero | -2,2 | -0,4 | |
import estero | 0,7 | 0,15 | |
Fonte: modello Multiregionale I-O (IRPET) – modello bi-regionale (SVIMEZ).
|
|||
Si esaminino le cifre. Nella tabella 1 gli economisti della Svimez hanno riportato i valori dell’impatto complessivo su Pil e occupazione derivanti dal blocco della produzione del sito di Taranto.
Una valutazione che tiene conto degli effetti della chiusura rispetto all’attuale assetto produttivo, caratterizzato già oggi da una produzione – intorno ai 4,5 milioni di tonnellate – inferiore agli obiettivi previsti dal piano industriale.
L’impatto annuo sul Pil nazionale viene stimato in tre miliardi e mezzo di euro, dei quali 2,6 concentrati nel Meridione (in Puglia) e i restanti 0,9 nel Centronord, cifra pari allo 0,2% del Pil nazionale, mentre se viene considerato l’impatto sul Pil del Mezzogiorno si salirebbe allo 0,7 per cento.
Un impatto negativo si avrebbe soprattutto sulle esportazioni (-2,2 miliardi) e sui consumi delle famiglie (-1,4 miliardi), considerando il venir meno degli stipendi maestranze impiegate nello stabilimento, dell’indotto diretto e degli effetti occupazionali del rallentamento dell’economia.
Si ricordi infatti, che gli occupati sono all’incirca diecimila, dei quali più dell’80% a Taranto, mentre circa tremila sono i dipendenti nell’indotto e altri tremila gli addetti legati all’economia generata dall’azienda. Un bacino complessivo di oltre 15.000 persone a rischio perdita del lavoro, quindi del salario.
Ma non sono stati valutati soltanto gli effetti immediati della chiusura rispetto all’attuale situazione che, come illustrato, è di per sé già molto al disotto del potenziale produttivo, poiché sono state anche calcolate le perdite derivanti al Paese dalla mancata realizzazione del piano industriale proposto da AM Investco riguardo al quale si era impegnata l’azienda.
Esso prevedeva di portare la produzione di Taranto e dei due siti liguri a otto milioni di tonnellate, pari a circa il 35% della produzione nazionale di acciaio, questo dopo il 2023 e a seguito della messa in funzione dell’altoforno numero cinque
A questi volumi si sarebbero aggiunti i due milioni prodotti a Genova e Cornigliano, e la quota sul totale nazionale sarebbe salita a oltre il 40 per cento.
Sempre secondo la Svimez, nell’arco temporale di implementazione del piano industriale la nuova società avrebbe inoltre stanziato quasi due miliardi e mezzo di euro per nuovi investimenti, ai quali sarebbe stato aggiunto il miliardo a copertura delle spese di bonifica del sito oggetto di transazione con la precedente proprietà.
Nel periodo di attuazione del piano industriale (2019-2023), il Pil complessivamente attivato dalla produzione realizzata a Taranto e negli altri due impianti del Settentrione sarebbe stato pari a 19 miliardi di euro nell’intero arco temporale coperto dal piano industriale, mentre sul piano occupazionale, nel medesimo periodo di riferimento (sempre valutazioni Svimez) sarebbero stati creati oltre 50.000 posti di lavoro, dei quali 41.000 in Puglia e i restanti in massima parte nel Centronord.
Tabella 2 – Impatto sul PIL e sull’occupazione nel periodo 2019-2024 dell’attuazione del Piano industriale Accelor-Mittal
PIL miliardi |
Occupati |
||
Italia | 19,4 | 51000 | |
Puglia | 14,4 | 41800 | |
resto d’Italia | 5,5 | 9100 | |
Secondo Emilio Rossi, economista della Oxford Economics, quella del punto e mezzo di Pil sarebbe dunque una «colossale balla», che tuttavia alcuni, tra maligni e dietrologi, ricollegherebbero al complesso delle attività di disinformazione e condizionamento psicologico dell’opinione pubblica italiana poste in essere in questi giorni anche al fine di favorire l’ingresso nella – apparentemente moribonda – trattativa di una “seconda cordata”.
Si tratta soltanto dell’errore di un titolista e dell’avventatezza di qualche esponente politico dell’opposizione sotto i riflettori della stampa?
Forse sì, ma non è detto che sia vero per tutti. Infatti, la diffusione di una notizia del genere contribuirebbe ad alimentare nell’opinione pubblica il consenso nei riguardi di un’eventuale intervento dello Stato in qualche forma di salvataggio in extremis dell’Ilva, poiché si rafforzerebbe il concetto della sua strategicità sulla base del suo valore: se vale 1,5 punti di Pil non possibile perderla.
E qui rispunta l’ipotesi relativa a una nazionalizzazione dell’Ilva, che secondo alcuni investirebbe necessariamente la Cassa depositi e prestiti, che, in ogni caso, non si esporrebbe certamente da sola, ma, magari, lo farebbe assieme ai soggetti della cosiddetta «seconda cordata», che rientrerebbero in gioco a distanza di un anno.
Si tratta soltanto di un’ipotesi estremamente remota, al momento non si è di fronte a una chiusura dell’Ilva, le trattative con gli indiani, seppur compromesse, formalmente non sono ancora chiuse. Tuttavia…
In ogni caso è estremamente improbabile che lo Stato da solo si faccia carico del 100% dei costi di un rilevamento del genere, affondando fino alle ginocchia nel fango di un’operazione di salvataggio simile a quella dell’Alitalia.
Ma intanto l’Ilva continua a perdere due milioni di euro al giorno, dunque, qualora lo Stato decidesse di entrarci, una volta dentro dovrebbe in ogni caso accollarsi i settecento milioni di perdite annue che quest’ultima accumula.