Il copione è sempre il medesimo: agli attacchi palestinesi con i razzi segue inesorabile la risposta israeliana.
Anche stavolta è andata in questo modo, dopo una giornata di manifestazioni di protesta inscenate dai palestinesi lungo la linea di confine tra la Striscia e lo Stato ebraico, le cosiddette «marce del ritorno».
Due salve di razzi per complessivi dieci ordigni sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza contro il territorio israeliano, nove di essi sono stati intercettati dal sistema difensivo Iron Dome oppure sono andati fuori bersaglio, mentre uno ha raggiunto una casa della città meridionale di Sderot.
Gli attacchi, effettuati a distanza di circa un’ora l’uno dall’altro, hanno avuto luogo nella serata di venerdì, mentre molte famiglie stavano consumando la tradizionale cena di Shabbat.
Dopo gli attacchi palestinesi la Jihad islamica ha diffuso un proprio comunicato nel quale si addossava la responsabilità della situazione all’occupazione militare israeliana, facendo inoltre richiamo alla Dichiarazione Balfour a sostegno di uno stato ebraico nella Terra di Israele, della quale ricorreva l’anniversario, poiché venne emessa il 2 novembre del 1917.
Dunque non c’è stata una vera e propria rivendicazione, tuttavia tutti puntano il dito sull’organizzazione jihadista filo-iraniana.
Dal canto suo Hamas avrebbe presso le distanze dai lanci di razzi, comunicando contestualmente ai mediatori egiziani di aver avviato un’indagine sui responsabili, mentre questi ultimi si sarebbero attivati autonomamente per chiarire questo aspetto.
Fawzi Barhoum, portavoce del movimento islamista al potere nella Striscia, ha comunque definito pubblicamente le incursioni effettuate in ritorsione dalla Israel Air and Space Force (Heyl Ha’Avir, l’aeronautica militare di Gerusalemme) «una pericolosa escalation».
Sempre fonti riconducibili ad Hamas hanno inoltre affermato che i miliziani islamisti avrebbero aperto il fuoco contro i velivoli con la stella di Davide nel tentativo di disturbarne l’azione.
In un comunicato le forze di difesa israeliane hanno poi reso noto che i raid in ritorsione avevano avuto come obiettivi installazioni della milizia islamista e un suo impianto di produzione di armi. Nel corso delle incursioni ha perso la vita il ventisettenne Ahmed al-Sheri di Khan Younis.
Netanyahu, la politica interna israeliana e Hamas. È trascorso esattamente un anno da quando, grazie alla mediazioni dell’Onu e dell’Egitto, è stata negoziata una tregua tra lo Stato ebraico ed Hamas che aveva ridotto le violenze, un risultato che gli stessi islamisti al potere nella Striscia avevano in seguito cercato di migliorare.
I termini di essa sono molto chiari: a fronte di una cessazione dei lanci di razzi da parte palestinese, Israele avrebbe concesso l’attuazione di alcune minime misure tese ad alleviare i disagi derivanti alla popolazione dell’enclave costiera, stretta dal decennale blocco asfissiante deciso da Gerusalemme per evitare i transiti di armi e, parallelamente, esercitare pressioni sulla locale dirigenza politica.
La concretizzazione delle aperture israeliane si è concretizzata nello sblocco dei milioni di dollari del Qatar portati a Gaza da Mohammed el-Emadi, l’inviato da Doha, denaro destinato al pagamento degli stipendi dei dipendenti dell’amministrazione pubblica, a sussidiare le famiglie bisognose della Striscia e a far funzionare l’unica centrale elettrica.
Inoltre – seppure in una misura rapportata al verificarsi o meno di attacchi e violenze – è stata anche incrementata la distanza dalla costa nell’ambito della quale è consentito ai pescatori gaziani di uscire in Mediterraneo.
Una politica, quella del premier Benjamin Netanyahu, criticata dai suoi oppositori, che era finalizzata al mantenimento di una situazione di relativa calma nella cruciale fase pre e post-elettorale, cioè quella attuale che vede una situazione di stallo politico nella formazione del nuovo esecutivo.
Il leader del Likud ha improntato l’ultima fase della sua premiership alla flemmatizzazione della Striscia, mantenendo un occhio fisso sulla propria politica di (nuovi) insediamenti ebraici nel West Bank, dove attualmente alla guida dell’Amministrazione nazionale palestinese (Anp) c’è il Fatah, questo nella prospettiva di una successiva “espulsione” di Hamas da Gaza, che verrebbe ottenuta anche grazie all’aiuto egiziano.
Egli tuttavia sta attraversando un momento particolarmente difficile, sia sul piano politico che su quello giudiziario, dato che è attesa la pronuncia della magistratura israeliana in ordine alle accuse di corruzione che pendono sul suo capo.
Dal punto di vista politico Netanyahu sconta l’insuccesso subito nella formazione del nuovo governo, dato che l’incarico è adesso nelle mani di Benny Gantz, leader assieme a Yair Lapid della giovane formazione moderata Kahol Lavan (blu e bianco), che sta dialogando con i partiti arabi israeliani nel tentativo di trovarvi una sponda e, in questo modo, riceverne un appoggio esterno per il futuribile esecutivo.
Ma Netanyahu se la deve vedere anche con la dura opposizione interna che rischia di spaccare il Likud, poiché parte della base del partito (ma non i suoi leader) non gradisce l’alleanza con i partiti religiosi ultra ortodossi che permetterebbero la formazione di una maggioranza di governo.
Fazioni fuori controllo. Nella Striscia di Gaza, però, non tutti i conti tornerebbero, poiché almeno una fazione della Jihad islamica starebbe andando fuori controllo, sottraendosi alla guida del proprio vertice, ingenerando conseguentemente problemi anche ad Hamas, che sulla relativa stabilità della Striscia di Gaza deve necessariamente contare per ottenere le contropartite da Israele.
Si tratta di un’evenienza ventilata già in precedenza, quella dello scontro intestino tra le due organizzazioni palestinesi di matrice islamista, che tuttavia si cerca di mantenere il più possibile sotto traccia.
A ritagliarsi sempre maggiori spazi di autonomia sarebbe una fazione facente riferimento alla componente dell’ala militare attiva nel nord della Striscia, guidata da Baha Abu al-Hata, locale leader di orientamento oltranzista che starebbe contrastando i tentativi di Hamas di evitare un escalation di violenza al territorio palestinese.
Analisti israeliani ritengono che alla base delle azioni delle cellule che fanno capo ad al-Hata non necessariamente ci siano gli iraniani, storici referenti della sua organizzazione, poiché esse potrebbero invece rispondere a logiche diverse da quelle dell’estensione alla Striscia delle proxi war in atto tra le potenze regionali.
Infatti, a motivare l’azione degli uomini di al-Hata sarebbero interessi di natura personale e politica. Questi è un personaggio oltremodo scomodo sia per il leader della Jihad islamica Ziad al-Nakhala – che incontra addirittura difficoltà nel rapportarvisi -, che per gli stessi vertici di Hamas Ismail Haniyeh e Yahya Sinwar, che hanno le mani legate e non possono agire contro di lui, poiché rischierebbero di trovarsi in cattiva luce di fronte alla popolazione palestinese.
Seguendo una propria agenda improntata al totale rifiuto di compromessi con Israele, egli sta seriamente compromettendo il cessate il fuoco in vigore a Gaza, inoltre, l’agire in difformità agli ordini diramati dal vertice della propria organizzazione sarebbe indice di una sua sostanziale messa in discussione dell’autorità di comando di al-Nakhala.
Rafforzando la posizione autonoma e intransigente della Jihad islamica, egli tende a differenziare quest’ultima da Hamas nel tentativo di sostituirla nel ruolo egemone di potere nella Striscia, accendendo i riflettori dell’opinione pubblica palestinese su di sé e sul suo gruppo come l’unico autenticamente antagonista al nemico sionista.
Per farlo deve far fallire i tentativi di ricerca di una pur minima tranquillità e di respiro economico per Gaza.
Alla luce di tutto ciò, non appare dunque casuale che i lanci dei razzi contro Israele siano avvenuti immediatamente dopo che l’inviato speciale del Qatar per Gaza, terminata la distribuzione degli aiuti economici, aveva lasciato la Striscia.
Ma questa piega della situazione danneggia anche un altro attore regionale, l’Egitto, onnipresente mediatore nella Striscia di Gaza.
Negli ultimi anni le forze di sicurezza del Cairo avevano arrestato numerosi elementi della Jihad islamica palestinese, che, attraverso il valico di Rafah, avevano intrapreso i loro viaggi in direzione dei campi di addestramento del Libano e di altri Paesi mediorientali.
In seguito, la massima parte di questi militanti jihadisti detenuti erano stati liberati dai mukhabarat di al-Sisi nel quadro di un approccio dialogante alla questione.
Gli attacchi di venerdì giungono in un momento estremamente delicato, proprio mentre Hamas si sta preparando alle possibili prossime elezioni a Gaza e in Cisgiordania, consultazioni che fino a poco tempo fa parevano impossibili dato il forte attrito tra gli islamisti al potere nella Striscia e l’Autorità nazionale palestinese di Ramallah.
di seguito è possibile ascoltare la registrazione integrale dell’intervista con il giornalista palestinese Samir al-Karyouti↓