Gli anni della presidenza Draghi sono stati anni complicati, poiché hanno coinciso con la crisi dell’euro e dei debiti sovrani, quello della Grecia in testa, che hanno visto la Banca centrale europea, una istituzione tutto sommato giovane, dover assumere delle decisioni difficili e per certi aspetti inattese.
Come l’introduzione del Quantitative easing (Qe), uno strumento in precedenza mai utilizzato né da Deusemberg e neppure da Trichet, al quale però ha fatto ampiamente ricorso Mario Draghi.
L’euro, seconda valuta di riserva internazionale dopo il dollaro è stato salvato e ora è più forte di prima. Quella stessa moneta comune che, nella sua ultima conferenza stampa, lo stesso presidente uscente ha voluto ricordare «non essere irrevocabile», lanciando forse un sibillino messaggio ad alcuni membri del precedente governo antisistema italiano.
Oltre al Qe, nel corso della gestione Draghi sono stati introdotti anche altri strumenti, come l’OMT, ritenuto il vero bazooka a disposizione della Bce per l’acquisizione (a differenza del Qe, illimitata) di titoli di stato, intervento ovviamente condizionato alla rigida applicazione di un programma economico da parte del Paese membro beneficiario.
Ma anche il cosiddetto Meccanismo europeo di stabilità, forse più noto come «fondo salva stati», strumento utilizzato in questi anni per l’erogazione di finanziamenti europei agli Stati membri in difficoltà.
Insomma, una panoplia predisposta per attenuare l’impatto di una nuova eventuale crisi che si verifichi nel futuro.
In questi anni Draghi si è dovuto spesso confrontare con il blocco dei “Paesi nordici” – Germania, Olanda, Paesi baltici -, che hanno ostacolato il ricorso a misure eccezionali come il Qe, una opposizione motivata – a loro dire – dall’inutilità di un intervento a fronte di un’inflazione non bassa e di assenza di recessione, ammonendo per altro sulla nocività di strumenti che possono divenire vere e proprie droghe per le economie che ne beneficiano, in quanto non genererebbero i necessari incentivi alla crescita ma, al contrario, un «azzardo morale».
La politica monetaria europea viene decisa a Francoforte dal Governement Council, organismo al quale partecipano i diciannove governatori delle banche centrali dei paesi membri della zona euro, dotato di un consiglio esecutivo composto da sei membri, tra i quali il presidente della banca centrale europea (Bce).
Tuttavia, a differenza ad esempio degli Stati Uniti d’America dove c’è un unico ministero del tesoro, l’Unione europea non è pervenuta a un’unione fiscale tra i suoi Paesi membri e dunque ha diciannove diverse politiche fiscali nazionali, a volte troppo diverse tra loro, con conseguenti impatti e contagi di instabilità.
Egli ha sì posto in essere politiche monetarie “accomodanti” in soccorso di economie afflitte da rischio di deflazione e stagnazione, però ha contestualmente esortato anche i governi interessati a rimettere in ordine i loro conti e a varare le riforme di natura strutturale ritenute necessarie al potenziamento della crescita economica.
Al riguardo, nell’ultima fase del suo mandato Draghi ha sovente differenziato i casi di quei paesi in possesso di spazio fiscale e quelli che, invece, non ne dispongono.
I primi, che registrano una situazione di surplus di bilancio derivante da una spesa complessivamente minore rispetto al gettito fiscale (si tratta principalmente della Germania), dovrebbero allocare una quota maggiore di queste risorse in investimenti e consumi, anche per favorire la crescita economica dell’Unione europea.
La seconda categoria comprende l’Italia e la Grecia, paesi gravati da un enorme debito pubblico che devono riordinare i loro conti pubblici.
In questo senso Draghi ha sempre fatto riferimento a un «consolidamento fiscale amico della crescita», privilegiando alcune voci di spesa rispetto ad altre, come gli investimenti invece che gli sprechi, insomma, la cosiddetta «ricomposizione della spesa».
Il prossimo 2 novembre Mario Draghi verrà avvicendato alla carica di presidente della Bce dalla francese Christine Lagarde, una economista che in passato è stata ministro delle Finanze di Parigi nell’esecutivo guidato da Nicholas Sarkozy e, successivamente, direttore del Fondo monetario internazionale.
di seguito è possibile ascoltare l’audio integrale dell’intervista con la professoressa De Romanis↓