SIRIA, attacco turco. Lanciata l’operazione «Sorgente di pace»: le truppe di Erdoğan sferrano l’offensiva contro gli odiati curdi, colpite Ras al-Ayn e Tal Abyad

Ankara cerca di perseguire i suoi tre principali obiettivi, mentre negli Usa non c’è univocità di intenti: se Trump decide di scaricare i preziosi alleati curdi abbandonandoli al loro destino, il Pentagono, Congresso e Dipartimento della Difesa invece sono contrari. Ora divengono a rischio anche le carceri curde della Rojava dove sono attualmente detenuti 10.000 jihadisti dell’Isis.

L’attacco alla fine c’è stato. I turchi hanno oltrepassato il confine per penetrare in profondità nel nord della Siria, una operazione terrestre appoggiata dall’aria, con i jet militari che hanno effettuato raid sull’area di Ras al-Ayn bombardando postazioni dell’Ypg, mentre l’artiglieria turca batteva con i propri obici la zona di Tal Abyad.

Intanto l’Isis ha rivendicato una serie di attacchi compiuti contro forze curdo-siriane nel nord-est della Siria, in particolare contro basi e postazioni a Raqqa e nella città di Tabqa, sul fiume Eufrate.

«Nessun ritiro di truppe americane, l’ordine del presidente Trump riguarda solo un centinaio di uomini appartenenti alle forze speciali che verranno ridislocati in altre basi, quindi nessuna luce verde a un’azione militare turca in Siria che porterebbe al massacro dei curdi, poiché affermarlo sarebbe da irresponsabili…».

Queste le ultime parole famose pronunciate soltanto due giorni fa da un alto funzionario dell’amministrazione Usa con riguardo alla minacciata e poi concretamente attuata offensiva militare turca in territorio siriano.

Mentre la stampa internazionale registrava tale ufficiale presa di posizione, il presidente turco però faceva comprendere a quello americano che se non si fosse allineato avrebbe dovuto allontanare i suoi soldati dalla frontiera.

Erdoğan era stato estremamente chiaro: le forze turche avrebbero invaso la Siria nordorientale per ripulirla dalla presenza delle milizie curde e, alla fine, la Casa Bianca non si è opposta ad Ankara.

E come richiesto da quest’ultima, gli Usa non prenderanno parte al conflitto evitando di farsi trovare nelle vicinanze di esso.

Il ritiro americano riguarderà al massimo un centinaio di uomini dei 1.000 oggi presenti dalle postazioni di controllo lungo la linea di frontiera con la Turchia fino a oggi occupate, personale che dovrà venire ridislocato nelle altre sedici basi in territorio siriano allo scopo di non ostacolare l’avanzata del poderoso esercito turco.

Washington ha preteso da Erdoğan la custodia dei miliziani jihadisti dell’Isis catturati dai curdi negli ultimi due anni di guerra, che attualmente si trovano prigionieri nelle varie strutture di detenzione dello Ypg e dello Ypi in quella porzione di territorio siriano fino a oggi sotto il controllo curdo.

Non è certamente un problema di poco conto, poiché si tratta di 8.000 tra siriani e iracheni più 2.000 foreign fighters, tutti elementi pericolosi la cui detenzione adesso diviene a rischio. Infatti, le milizie curde sotto la pressione della possente macchina da guerra di Erdoğan non saranno più nelle condizioni di garantire la sicurezza delle loro improvvisate prigioni.

E poi ci sono i campi di raccolta dove sono ospitate decine di migliaia tra familiari (bambini inclusi) e altri soggetti sospettati di essere stati affiliati o comunque collaterali al califfato di al-Baghdadi.

Riguardo ai duemila combattenti jihadisti stranieri, il presidente turco ha affermato che Ankara e Washington di comune accordo stabiliranno i modi del loro difficile rimpatrio, in quanto persone indesiderate che nessun paese di origine vuole indietro, compresi quelli europei.

Ma il governo di Ankara non è certo il massimo in tema di rassicurazioni riguardo a tale aspetto, poiché a suo tempo,  la maggior parte dei foreign fighters unitisi alle milizie dello Stato Islamico fecero ingresso in Siria proprio dalla Turchia.

E sempre la Turchia fu poi protagonista della vicenda relativa al contrabbando di petrolio proveniente dal “califfato”, uno scandalo che vide implicato uno dei figli del presidente Erdoğan, lo stesso che nel 2016 venne indagato in Italia per riciclaggio, un’inchiesta in seguito archiviata.

Un’affrettata e maldestra exit strategy dunque, dato che Donald Trump ha molta fretta di togliere gli scarponi dei soldati americani dalla sabbia e dal fango di numerosi conflitti nei quali le varie amministrazioni in carica a Washington si erano andate a infognare, «ridicole guerre senza fine», come le ha definite lui stesso.

Tuttavia l’inquilino della Casa Bianca non trova tutti d’accordo. Il Pentagono e il Congresso ad esempio – e non è cosa da poco -, che, come era accaduto nel dicembre scorso, hanno di nuovo reagito negativamente alla decisione a sorpresa assunta dal presidente di ritirare le truppe.

Non solo, anche il Dipartimento della Difesa ha sempre manifestato contrarietà a un’azione di forza turca nella Siria nordorientale, sostenendo al contrario il mantenimento di una zona cuscinetto di superficie ridotta rispetto a quella contemplata dagli strateghi militari di Ankara, che avrebbe dovuto essere pattugliata congiuntamente come stabilito nell’intesa del 7 agosto scorso, una safe zone che avrebbe separato i turchi dai curdi.

La forza di interposizione sarebbe stata americana, una garanzia di protezione e sicurezza per i curdi, che avevano iniziato a ritirarsi dalla linea di frontiera demolendo su richiesta di Washington le proprie fortificazioni.

Seppure Pentagono, Congresso e Dipartimento della Difesa abbiano apertamente e ripetutamente espresso in modo chiaro il loro dissenso al ritiro dalla Siria  all’attacco turco, Trump ha invece deciso di abbandonare i preziosi alleati curdi al loro drammatico destino.

Una collaborazione avviata nell’ottobre di cinque anni fa dall’amministrazione Obama, che sostenne le milizie curde allora poste sotto assedio a Kobane dagli jihadisti dell’ Stato Islamico.

Oggi quella città simbolo della sconfitta del sanguinario califfato di al-Baghdadi è uno degli obiettivi principali delle forze corazzate turche.

Ankara è fermamente intenzionata a chiudere i conti con e Unità di protezione del popolo (Ypg), braccio armato del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) attualmente presente e attivo in Siria, formazione che, nella proteiforme realtà del Paese arabo da anni dilaniato dalla guerra civile, è alleata di Washington nella lotta contro gli jihadisti di Islamic State.

Una collaborazione che si era dimostrata decisiva nella sconfitta del sedicente califfato, ma adesso le alleanze sono cambiate. Nell’area di operazioni Ankara ha imposto l’unificazione sotto un unico comando di tutti i gruppi ribelli siriani nemici del presidente Bashar al-Assad, circa quaranta formazioni composte in massima parte da arabo-sunniti.

E proprio ad Assad, grazie all’interposizione dei buoni uffici di Mosca, hanno iniziato a rivolgere l’attenzione i curdi, consapevoli del fatto che l’unica via di uscita potrebbe essere rappresentata dalla consegna del territorio siriano ancora sotto il loro controllo alla sovranità di Damasco in cambio della concessione di un’autonomia amministrativa, ma questo sì che vorrebbe dire la totale uscita degli americani dalla Siria.

Gli obiettivi dell’operazione Sorgente di pace sono tre: costituire una zona cuscinetto lungo l’intera fascia di territorio siriano al di là dei suoi confini meridionali, una buffer zone estesa all’incirca 480 chilometri e profonda oltre trenta, complessivamente una superficie di 15.000 chilometri quadrati.

Una onerosa soluzione al problema della guerriglia e del terrorismo curdo, che da quella frontiera infiltra uomini e armi nell’Anatolia sudorientale. Infatti, la Siria nordorientale ha sempre costituito un “santuario” per il Pkk. Non va poi dimenticato che il grosso dei combattenti del Pkk in questo momento sotto la pressione dell’azione militare turca nel nord dell’Iraq, ritirandosi potrebbe riorganizzarsi in forze lungo il confine siro-iracheno, area sotto il controllo dello Ypg, un’evenienza che Ankara vuole a tutti i costi impedire;

modificare la composizione etnica della regione mediante il trasferimento di buona parte dei tre milioni e mezzo di profughi siriani attualmente presenti in Turchia, una massa di persone divenuta problematica sul piano della sicurezza e quello politico;

infine stabilire e mantenere la propria influenza sulla regione attraverso i propri alleati arabo-sunniti.

Da domenica scorsa  i blindati americani avevano incominciato ad abbandonare i posti di confine di Tall Abyad e Ras Ayn, punti di ingresso in Siria delle forze turche.

«Gli Stati Uniti non appoggiano l’attacco turco in Siria e hanno detto chiaramente ad Ankara che questa operazione è una cattiva idea», queste sono le più recenti affermazioni del presidente Trump.

Egli ha poi dichiarato di attendersi da Erdoğan, dopo l’invasione, che «rispetti tutti i suoi impegni», tra i quali figurerebbero la protezione dei civili e delle minoranze religiose inclusi i cristiani, «assicurando che non ci sarà alcuna crisi umanitaria».

«Inoltre – ha detto sempre Trump – la Turchia è ora responsabile nel garantire che tutti i combattenti dell’Isis catturati restino in prigione e che l’Isis non rinasca in nessun modo o forma. Noi li richiameremo ai loro impegni e monitoreremo strettamente la situazione».

Parole che fanno sempre meno effetto, dato che l’attuale inquilino della Casa Bianca ha ormai da tempo abituato il mondo alle sue contradditorie e continue dichiarazioni

Trump ed Erdoğan si incontreranno a Washington il mese prossimo. Nell’agenda è previsto che discutano di Siria, dei sistemi missilistici russi S-400 acquistati da Ankara e dei caccia F-35 di produzione Usa.

Dopo un mese di combattimenti sarà per loro possibile anche fare un bilancio di quest’ultima recrudescenza bellica in Medio Oriente, valutandone accuratamente i risultati e il volume delle macerie e dei cadaveri accumulatisi sul terreno. Un de-briefing dal quale trarre utili lessons learning, magari sul rinvigorirsi degli jihadisti di quel “califfato” che sembrava ormai debellato sul piano militare.

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