Nella giornata di ieri in Lombardia e in Calabria sono state eseguite dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia di Stato una serie di ordinanze di custodia cautelare nei confronti di trentaquattro persone, per la maggior parte di cittadinanza italiana, ritenute a vario titolo responsabili di reati di natura tributaria e fiscale, nonché di estorsione e indebito utilizzo di carte di pagamento.
Le Forze dell’ordine hanno posto sotto sequestro beni per oltre tredici milioni di euro, comprese alcune abitazioni riconducibili a un commercialista già tenutario di scritture contabili di società ritenute della cosca di ‘ndrangheta dei Piromalli.
Le indagini, condotte dagli agenti della Squadra mobile della Questura di Milano e dai Militari del Nucleo di Polizia economico-finanziaria di Como e delle Compagnie di Como e Olgiate Comasco, coordinate dalla Procura della Repubblica lariana, hanno consentito di fare luce su un complesso sistema fraudolento.
Esso, attraverso lo sfruttamento strumentale e illecito di numerose società cooperative e il ricorso massivo allo strumento dell’emissione di fatture per operazioni inesistenti, garantiva ingenti proventi agli indagati, alcuni dei quali contigui alla criminalità organizzata calabrese.
Nell’ordinanza di applicazione di misure cautelari emessa dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Como nei confronti dei trentaquattro indagati – dei quali ventidue destinatari del provvedimento in carcere, e dodici agli arresti domiciliari – si parla di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte per oltre tre milioni di euro.
Ricorrendo alla frode, posta in essere a partire dal 2012 al 2017 mediante il ricorso a venti società cooperative e una società a responsabilità limitata, le persone accusate avrebbero evitato il pagamento dell’imposta sui redditi, degli interessi e delle sanzioni amministrative previste.
A loro carico anche i reati di occultamento e distruzione di documenti contabili, bancarotta per distrazione (per un totale di oltre quindici milioni di euro) e documentale (con riferimento a dodici cooperative), falso in bilancio, emissione di fatture a fronte di operazioni inesistenti (pari a oltre 24.500.000 euro), utilizzo di fatture per un importo di oltre diciannove milioni di euro di fatture a fronte di operazioni inesistenti, indebiti utilizzi di carte di pagamento, turbativa di gare pubbliche (indette dal Comune di Como affidamenti in concessione) e illecito utilizzo di carte di credito
Gli accertamenti hanno permesso la ricostruzione delle dinamiche illecite ideate da due professionisti del settore tributario e fiscale, un commercialista di Gioia Tauro e un ex funzionario della Banca Commercio e Industria di Milano.
Essi, utilizzando le proprie competenze, avrebbero realizzato un sistema di frode finalizzato all’evasione fiscale, replicato ininterrottamente dal 2010, attraverso la sostituzione di società dolosamente e preordinatamente destinate al fallimento (consorzi e società cooperative di lavoro) con nuovi veicoli societari costituiti con la medesima finalità.
Come funzionava il sistema? Venivano costituite società cooperative di lavoro, quali soggetti giuridici di comodo intestati a prestanome e di fatto gestite da consorzi, nonché utilizzate come meri contenitori di forza lavoro e soggetti fiscali sui quali dirottare gli oneri tributari e previdenziali, mai assolti nel decennio di attività;
i consorzi rappresentavano il soggetto passivo d’imposta, dotato di un Durc (Documento unico di regolarità contributiva) fiscalmente in regola;
presentavano le prescritte dichiarazioni fiscali e avevano alle dipendenze solo personale con funzioni amministrative regolarmente assunti.
Per la realizzazione del sistema fraudolento era necessario che le cooperative emettessero fatture per operazioni inesistenti nei confronti dei consorzi, nelle quali venivano falsamente addebitati i costi del personale, consentendo così l’abbattimento dell’ingente debito Iva (Imposta sul valore aggiunto) scaturito dalla fatturazione delle prestazioni al consorzio, nonché un risparmio dei contributi previdenziali e assistenziali che il consorzio avrebbe dovuto sostenere nel caso avesse assunto i dipendenti delle varie cooperative.
Infatti, qualora le prestazioni fossero state rese direttamente dai consorzi, con propria forza lavoro, questi avrebbero annoverato tra le componenti negative di reddito unicamente quelle afferenti al costo del personale dipendente assunto che, notoriamente, non genera un’IVA a credito.
In tal modo le consistenti somme di denaro trasferite dai consorzi alle cooperative a titolo di pagamento delle false fatture, venivano successivamente prelevate dagli organizzatori della frode mediante prelievi per contanti, assegni o bonifici bancari a favore di loro stessi a pagamento di propri compensi.
Da qui la necessità di creare delle società cooperative alle quali formalmente attribuire l’assunzione del personale dipendente, presupposto per un’ipotetica parvenza di operatività che apriva la strada all’emissione delle fatture per la fornitura di manodopera nei confronti del consorzio, seppure queste ultime indicassero genericamente come oggetto della prestazione la dicitura “prestazione di servizi”.
In tal modo diveniva possibile abusare dello schema societario cooperativo non perseguendo alcuna finalità mutualistica ma sfruttando la normativa di favore prevista per le cooperative soggetti al fine di effettuare operazioni commerciali con evidente scopo di lucro, a proprio vantaggio e non dei soci delle cooperative, relegati a sostanziali ruoli di meri lavoratori dipendenti.
Le cooperative erano tali solo sulla carta, poiché di fatto erano società ufficialmente intestate a meri prestanome e, nella realtà, riferibili ai due professionisti indagati.
Le pseudo-cooperative generavano volumi d’affari consistenti che venivano nascosti al fisco poiché non veniva presentata alcuna dichiarazione fiscale.
Trascorso il periodo di attività, esse venivano lasciate in vita, tuttavia sostituite con altre di nuova costituzione, che operavano nel medesimo modo e con gli stessi clienti, nelle quali venivano trasferiti i soci/dipendenti, nella gran parte dei casi neppure a conoscenza di essere inquadrati come tali.
Sono inoltre attualmente in atto i sequestri delle somme di denaro depositate su oltre cento conti correnti bancari intestati o riconducibili a quarantacinque delle persone indagate nell’inchiesta.