ZONE GRIGIE, stragi mafiose. Berlusconi inquisito non testimonierà in tribunale a Firenze

Dell’Utri, malato e agli arresti domiciliari lo implora, ma l’uomo di Arcore sembrerebbe non voglia presentarsi in Aula. Che sta succedendo? Intanto, ciò che rimane di Forza Italia lancia una campagna di distrazione di massa contro i poveracci: il referendum contro il reddito di cittadinanza…

Tra i reati contestati dalla Procura di Firenze all’ex  Presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi c’è anche il fallito attentato al giornalista Maurizio Costanzo, che il 14 maggio del 1993 sfuggi all’esplosione di un’autobomba in via Ruggero Fauro a Roma, non appena uscito dal Teatro Parioli con la sua automobile, accompagnato da Maria Filippi. È quanto si evince dalla documentazione resa pubblica dai pubblici ministeri del capoluogo toscano che indagano sulle stragi mafiose del 1993 ai legali dell’ottuagenario tychoon milanese figlio di un funzionario della Banca Rasini, depositata alla Corte d’Assise d’Appello di Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia.

 

Il teorema. Il 1992-93 fu la fase di transizione tra la cosiddetta «Prima Repubblica» e la seconda.

Un periodo che in Italia segna una svolta, infatti esso è concomitante con la “coda” della fine della Guerra fredda (1989-1991), con la contestuale, per altro, la fase di transizione in Vaticano (1989-1994).

Sulla base di questo teorema nel biennio 1992-93 si sarebbe verificata una concomitanza di veri eventi:

una nuova fase (o una nuova intesa ex novo) strategia della tensione, che comportò le stragi mafiose (la cui responsabilità in seguito sarebbe stata ascritta ai mafiosi corleonesi) e dei tentativi apparentemente  seri di soluzioni eversive del problema relativo alla transizione del potere nel Paese;

ma non solo, poiché nello stesso periodo si registra un dilaniante scontro intestino ai servizi segreti della Repubblica. Infatti, Giulio Andreotti, per mano del ministro plenipotenziario (ambasciatore) Francesco Paolo Fulci avrebbe decapitato i vertici dei servizi segreti, in quel periodo era già esploso il caso Gladio Stay behind e stava divampando lo scandalo Sisdegate.

Soltanto due parole su Francesco Paolo Fulci. Egli, dopo una lunga carriera diplomatica, proprio quando era ambasciatore a Bruxelles presso la Nato – quando era in ottimi rapporti con il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e col Presidente del Consiglio dei ministri Giulio Andreotti – si trova a cercare di disinnescare un serio problema per l’esecutivo all’epoca in carica, appunto l’affaire Gladio, circoscrivibile nella ovvia prassi nella contrapposizione tra i blocchi Est-Ovest oppure, come asseriva il giudice Felice Casson, attentato alla Costituzione della Repubblica?

Chiamato negli anni della crisi alla direzione del Cesis – lui in Tribunale, interrogato dal pubblico ministero Giuseppe Lombardo, asserirà di essere stato monitorato e intercettato – interpreterà il ruolo di moralizzatore nei servizi di intelligence italiani quando esplose lo scandalo per le malversazioni del Sisde che lambì l’allora Presidente della Repubblica in carica, il democristiano e fervente mariano Oscar Luigi Scalfaro.

Segnali di immanenti inquietudini, leggibili tra le righe dal fatto che in quella particolare fase – le stragi di mafia in Continente – il rapporto dei Servizi di informazione e sicurezza (i servizi segreti) con la giovanissima Antimafia non vennero delegati al suo Cesis, bensì a uno dei due servizi segreti di allora.

Il Cesis, va ricordato, era l’organismo di controllo di Sismi e Sisde, cioè dei servizi di intelligence militare (esterno) e civile (interno).

Infine, sempre in quegli stessi anni – ma ci si ritornerà -, emerse anche un’altra oscura vicenda, della quale lo stesso Fulci molti anni dopo sarebbe stato richiesto nel corso delle udienze del “processo trattativa” a Palermo: la famigerata Falange armata.

Neofascista? Stragista? Un vero e proprio mistero. Tuttavia, alcuni collaboratori di giustizia di mafia hanno affermato che sarebbe stato lo stesso Totò Riina, il capo di cosa nostra corleonese, a ordinare ai suoi “soldati” di rivendicare le stragi mafiose con quella sigla – in precedenza utilizzata soltanto per la rivendicazione dell’omicidio di un operatore carcerario – allo scopo di sviare le attenzioni dalle trattative segrete a quel tempo (la sentenza di Palermo lo stabilisce) in corso con apparati dello Stato.

 

Una fase difficilmente decifrabile: due paralleli radicali mutamenti, quello della politica e delle mafie. Secondo il teorema, in quella fase cruciale sarebbe mutato radicalmente lo scenario politico ed economico del Paese.

La crisi dei partiti politici tradizionali (quelli che formavano il cosiddetto pentapartito) e quello dei maggiori protagonisti economici avrebbe potuto spianare la strada a un’assunzione del potere da parte di una parte degli eredi del Partito comunista italiano.

Ma la transizione alla Seconda Repubblica non si sarebbe  configurata come un passaggio indolore, poiché avrebbe implicato la risistemazione dell’intera (o quasi) eredità della Guerra fredda, cioè di cinquant’anni di dura contrapposizione ideologica, politica, economica e, soprattutto, militare.

In un arco di tempo brevissimo (il biennio 1992-93) si rese necessario liquidare gli scomodi protagonisti (con i loro scheletri nell’armadio) di quella lunga  fase storica, quindi risistemare tutta l’eredità della contrapposizione tra i blocchi capitalista e comunista.

Uno scontro epocale che vide protagonisti tutti quei poteri – economici, politici, massonici e criminali – che fino ad allora avevano costituito le anime della Prima Repubblica.

Ma l’Italia, «ventre molle» della Nato assieme al Belgio, nel corso della Guerra fredda era stata una protagonista centrale sui diversi piani strategico, geografico e politico.

Non meraviglia dunque l’inevitabile esplosione dello scontro intestino ai vari livelli del sistema di potere.

Il “canovaccio” del teorema riporta tutto agli interna corporis del vecchio sistema. Uno dei principali aspetti della complessa vicenda sarebbe rappresentato proprio dal dilaniante scontro intestino divampato nei servizi di Intelligence, causato dall’asserito intrinseco essere di questi ultimi, portato dei precedenti cinquanta anni di vita repubblicana, nel corso dei quali l’establishment aveva frequentemente fatto ricorso ai poteri occulti e alle strutture clandestine esistenti, che alla luce delle epocali trasformazioni internazionali divenivano oltremodo ingombranti.

 

La contestualizzazione dei fatti. Secondo il teorema, Giulio Andreotti (che mira a divenire l’inquilino del Quirinale) per il tramite di Fulci avrebbe cercato di decapitare i servizi segreti. Infatti, con lui assiso al Colle il processo di transizione si sarebbe certamente rivelato meno facile.

È la fase nella quale avviene il decisivo scontro della vecchia guardia dell’Ostpolitik e il “nuovo”, che registra – non a caso  – l’esplosione dello scandalo dei “fondi neri” del Sisde che coinvolge Scalfaro.

Ma, sempre sulla base del teorema, Fulci non avrebbe voluto colpire esclusivamente il servizio segreto civile, poiché egli tirò in ballo anche i militari, rivelando l’esistenza della struttura segreta OSSI (Operatori speciali dei servizi segreti) e attribuendole non poche responsabilità in ordine alle zone grigie che nel passato avevano funestato l’esistenza del Paese.

Gli Ossi erano un’unità interna al servizio segreto militare costituita – parrebbe – da dodici o tredici elementi particolarmente addestrati e performanti, una squadra speciale voluta dall’ammiraglio Fulvio Martini (criptonimo «Ulisse»), da alcuni considerato come il migliore direttore dei servizi militari nella storia della Repubblica.

L’ufficiale avrebbe voluto costituire questa struttura segreta informandosi alla logica mirante a evitare problemi alla catena di comando derivanti dal ricorso a unità speciali appartenenti alla Polizia o alle Forze armate.

In precedenza, nel 1989, alla luce della dissoluzione del blocco orientale comunista, lo stesso Martini avrebbe ristrutturato il cosiddetto “Centro Gladio Scorpione” di Trapani (quello che aveva in forza il maresciallo dell’Esercito Vincenzo Li Causi, assassinato in circostanze misteriose a Balad, in Somalia, 12 novembre 1993) in funzione di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso.

Una iniziativa che evidentemente non fu apprezzata dal Presidente del Consiglio dei ministri allora in carica (Andreotti), poiché la definì «indebita», un pretesto, forse, per rimuovere dall’incarico un ufficiale che in quel momento gli era sgradito.

Il Centro Gladio Scorpione sarebbe poi ritornato alla ribalta delle cronache dopo l’omicidio di Mauro Rostagno, l’ex leader di Lotta Continua divenuto operatore nella comunità di recupero per tossicodipendenti siciliana Saman che venne assassinato.

E quale fu l’effetto di tutte queste dinamiche? Un ricambio totale in seno alle strutture di Intelligence dello Stato, preludio al passaggio alla cosiddetta Seconda Repubblica.

Fino alla sua nomina al vertice del Cesis (voluta da Andreotti e Cossiga) il ministro plenipotenziario Fulci, almeno apparentemente, era rimasto estraneo al mondo dei servizi segreti.

Egli aveva infatti ricoperto la carica di ambasciatore italiano presso la Nato, come rilevato in precedenza, proprio nel periodo nel quale a seguito dell’inchiesta della magistratura veneziana (Casson) era venuto alla ribalta il caso “Stay behind-Gladio”, che inevitabilmente lo aveva coinvolto nella polemica che ne era seguita.

Fulci venne insediato al Cesis al momento della prima percezione di segnali di crisi all’interno dell’Intelligence. si trattò dell’ultimo governo a giuda Andreotti, politico democristiano che si sarebbe dimesso prima delle elezioni anticipate del 1992, che avrebbero poi visto alla guida dell’esecutivo – e assumere decisioni epocali e controverse – due presidenti “tecnici”, il socialista Giuliano Amato (orfano di Craxi) e l’ex governatore della Banca d’Italia Azelio Ciampi.

Tornando a Fulci, appena si insediò divenne oggetto di una violenta campagna di stampa e ricevette inoltre delle minacce di morte da parte della misteriosa organizzazione Falange armata.

Fulci attraversa tutta la fase delle stragi mafiose, sia quelle in pregiudizio dei magistrati del pool di Palermo (Falcone e Borsellino) che quelle compiute in Continente.

Lascerà la direzione del Cesis nell’estate del 1993 per assumere la carica di Ambasciatore italiano presso l’Onu a New York.

 

La Falange armata. La sigla “Falange armata carceraria” comparve in assoluto per la prima volta nella rivendicazione di un attentato, quando un anonimo dal marcato accento tedesco con un mese e mezzo di ritardo (era infatti il 22 maggio 1990) attribuì all’organizzazione – fino ad allora sconosciuta – la paternità dell’omicidio di Umberto Morvile, un educatore carcerario assassinato il giorno 11 aprile precedente.

In quell’occasione la sigla utilizzata fu Falange armata carceraria e, in seguito, i responsabili di quel delitto – Domenico e Antonio Papalia, mandanti ed esecutori materiali – vennero condannati.

La prima rivendicazione della “falange armata” venne invece ricevuta dalla stazione dei Carabinieri di Polistena, in provincia di Reggio Calabria. Si trattò di  uno scritto realizzato a mezzo di un normografo, col quale il sedicente gruppo terroristico si assumeva la paternità di un duplice omicidio di militari dell’Arma compiuto in precedenza.

Più tardi, nel 1993, sarebbe stato registrato il picco maggiore di rivendicazioni con questa sigla, poi il fenomeno conobbe una fase di decremento e, infine, scemò.

Cosa fu veramente la Falange armata?

Fu espressione di quei settori dei servizi segreti che si attendevano (con timore) una vasta azione di epurazione all’interno di quegli apparati nell’ambito dei quali fino ad allora avevano agito? Una “purga” voluta da Andreotti e posta in essere da Fulci?

Oppure si trattò davvero di una sigla di copertura utilizzata da cosa nostra di Riina e Bagarella per rivendicare gli attentati compiuti in Continente?

 

Funzione eversiva della mafia. Nuova strategia della tensione, tentativi di soluzioni eversive, mafia e politica, stragi di cosa nostra. Il teorema segue questa traccia: la criminalità organizzata siciliana (ma anche calabrese) sarebbe stata attivata dal livello politico allo scopo di evitare mutamenti radicali al vertice dello Stato e garantire al contempo la fedeltà italiana agli Accordi di Yalta.

Carmine Pecorelli, detto «Mino», direttore del periodico “OP”, poco prima di essere assassinato con un colpo di pistola in bocca a bordo della sua Citroën CX nel quartiere romano di Prati, ebbe a scrivere che «fu Yalta a decidere via Mario Fani».

Furono i Bontade, la cosiddetta «mafia perdente», a ucciderlo su ordine di un livello superiore?

Chissà. Comunque è possibile trarre delle conclusioni dal passato di questo Paese: nella sua sostanza, la criminalità organizzata, nelle sue varie forme e addentellati, ha costituito una sorta di emendamento occulto della Costituzione repubblicana.

Secondo questo orientamento, dal dopoguerra in poi la mafia siciliana avrebbe sempre costituito una massa di manovra utile alla contribuzione al mantenimento della stabilità di quella divisione del mondo in blocchi stabilito dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale.

Nel corso della storia dell’Italia repubblicana ne si rinverrebbe il tempestivo intervento nei momenti in cui nel paese si andarono manifestando i pericoli di una messa in discussione degli equilibri di Yalta, dell’appartenenza italiana al campo occidentale guidato dagli Usa. Come quando si rese necessario evitare il ribaltamento delle maggioranze parlamentari a guida democristiana.

Affermò al riguardo l’agente della Central Intelligence Agency (CIA) Victor Marchetti che: «Per il suo carattere anticomunista, la mafia è uno degli elementi che la CIA utilizza per controllare l’Italia».

Dunque, la mafia quale elemento politico essenziale necessario al controllo del Paese onde evitare eventuali pericoli di derive comuniste.

Sulla base del teorema, a partire dal secondo dopoguerra essa – assieme ai latifondisti, la massoneria, il clero e la destra eversiva – avrebbe costituito un nucleo rimasto intatto nel tempo.

 

1992-93: nuova strategia della tensione. Esiste un filo conduttore nella storia della Prima Repubblica che unisce tutti gli episodi oscuri di quella che è stata definita come la strategia della tensione?

1969, primi attentati dinamitardi e strage di Piazza Fontana a Milano;

1970, rivolta di Reggio Calabria;

1970, tentato “golpe” Borghese (l’intentona);

1973, tentato “golpe” del capitano dei Carabinieri Palinuro;

1974, fine presidenza Nixon e mutamento della politica estera Usa: bombe sui treni in Italia;

1978, sequestro e assassinio dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana e artefice del compromesso storico con il Partito comunista italiano.

1992-93, fine della contrapposizione tra i blocchi: inchieste giudiziarie che distruggono i partiti politici della Prima Repubblica, nuovi indirizzi di politica economica, privatizzazioni delle imprese pubbliche.

Quest’ultima, non vi è dubbio, fu  una fase epocale che registrò una crisi dei partiti tradizionali che avrebbe potuto condurre alla vittoria elettorale di una delle formazioni politiche nate dalle ceneri del Partito comunista italiano.

Si accende la lampadina rossa dell’allarme e i problemi propri di cosa nostra (in mano ai corleonesi di Riina) si saldano con le dinamiche apparentemente fuori controllo della politica nazionale.

È una fase cruciale durante la quale si verificano due fondamentali mutamenti: cambia la politica e cambiano le mafie.

Per quanto concerne la politica – transizione alla Seconda Repubblica – le interferenze in atto tra i vari centri di potere non riescono a ricostruire un’unità e la lotta fratricida miete le sue vittime: alcuni sopravvivono e si riciclano, altri vengono “azzerati”.

Tra i sopravvissuti ci sono quelli che riescono a confluire nella grande sintesi di aggregazione rappresentata dal partito politico verticistico fondato da Silvio Berlusconi.

Il controverso concessionario delle frequenze televisive, respinto da Mino Martinazzoli, che gli nega l’accesso al costituendo Partito Popolare formato dagli ex democristiani, fonda Forza Italia, il “suo” partito azienda.

 

Forza Italia. Forza Italia vede la luce nel 1994, ma le sue radici in realtà affondano al 1990, quando vennero elaborati dei progetti politici finalizzati alla costituzione di una forza di governo in vista della epocale transizione che aveva da poco preso avvio con l’implosione dell’Unione sovietica e la fine del confronto bipolare tra le superpotenze che, in precedenza, aveva contrassegnato tutto il periodo della Guerra fredda.

La data chiave per comprendere gli avvenimenti seguenti, quelli del fatidico biennio 1992-93, è quella dell’arresto per corruzione di Mario Chiesa, amministratore in quota socialista del Pio Albergo Trivulzio di Milano, la cosiddetta «Bagina».

È Tangentopoli, inizio dell’effetto domino che travolgerà lo scenario economico e politico italiano portando a radicali mutamenti.

Su diretta disposizione di Berlusconi gli uomini della Fininvest formano un gruppo di lavoro che viene coordinato dall’ex democristiano Ezio Cattotto, figura chiave preposta alla formazione dei “quadri” del nuovo partito politico allora ancora allo stato embrionale.

In quel momento all’interno della Fininvest coesistono due diverse anime, ispirate da differenti correnti di pensiero: quella favorevole alla “discesa in campo” del cavaliere e quella invece contraria.

La prima è espressione del gruppo facente capo a Marcello Dell’Utri e a Cesare Previti, l’altra di quello raccolto attorno a Gianni Letta e a Fedele Confalonieri, che tentano di frenare le intenzioni politiche di Berlusconi ritenendo che  in quella particolare fase si debba agire con maggiore prudenza.

Nel 1993 la Fininvest attraversava una difficile crisi finanziaria, in quanto era il secondo gruppo maggiormente indebitato in Italia, preceduto soltanto dal gruppo Ferruzzi, che in breve tempo avrebbe fallito finendo nelle mani di Mediobanca.

La vacillante Fininvest aveva contro l’intero establishment capitalista italiano – Enrico Cuccia in testa  – e su di essa incombeva anche l’inchiesta giudiziaria della Procura della repubblica di Milano (mani pulite), che vedeva coinvolta Publitalia nella persona di Brancher a causa delle tangenti sulla pubblicità televisiva per la prevenzione dell’aids commissionate a suo tempo dal Ministero della Sanità guidato dal liberale De Lorenzo.

Senza contare, infine, che gli ex comunisti avrebbero potuto affermarsi alle elezioni politiche e quindi andare al governo.

Tutte ragioni che fecero prevalere la linea di coloro i quali volevano l’ingresso in politica di Berlusconi.

 

Mutamento delle mafie. Contestualmente si verificano altre fondamentali mutazioni: le mafie non si evolvono ma si trasformano. Esse vengono cooptate dal sistema economico-finanziario e imprenditoriale.

Cessato di svolgere il ruolo di “guardiano” per conto di poteri più forti di loro, una volta sdoganate compiono il salto di qualità e si trovano nelle condizioni di gestire i grandi traffici di cocaina che le alimentano in modo esponenziale sul piano finanziario, ingigantendone i poteri e le capacità operative.

In Sicilia, le difficoltà attraversate da cosa nostra, le conseguenti strategie stragiste dei corleonesi e i nuovi rapporti con  la politica caratterizzano il periodo 1992-94.

La mafia non agisce più soltanto in via preventiva o repressiva, ma anche in funzione politica propria. In questo senso la strage di Capaci dove trovo la morte il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta potrebbe essere stato un avvertimento lanciato da cosa nostra ad alcuni settori dello Stato.

Infatti, Riina richiamò da Roma i suoi uomini quando questi avrebbero potuto eliminare Falcone nella capitale senza eccessive complicazioni.

Al pari delle altre stragi del periodo della strategia della tensione, anche sulle stragi di mafia degli anni Novanta non si è pervenuti a un quadro sufficientemente chiaro dei fatti.

Agli inizi degli anni Novanta cosa nostra si trova in difficoltà poiché non riesce più a ricavare benefici dal suo tradizionale patto con la Democrazia cristiana, dunque va alla ricerca di altri referenti politici.

Nel 1992 avevano iniziato a operare le Direzioni distrettuali antimafia, mentre l’anno seguente presero avvio le attività della Direzione nazionale antimafia.

In questa medesima fase la mafia manifestò con sempre maggiore evidenza la stanchezza e l’insofferenza nel ricoprire il ruolo di “ausiliaria” dei settori deviati dello Stato e vuole divenire essa stessa “Stato”.

Secondo il teorema, in quella fase critica la mafia siciliana avrebbe puntato tutto su Berlusconi per averlo come referente politico diretto.

 

 

   Di seguito è possibile ascoltare alcune registrazioni di convegni e interviste sulle vicende sinteticamente descritte in questo articolo, in particolare l’audio A103, registrazione della presentazione del libro scritto sull’argomento dalla giornalista Stefania Limiti.↓

 

A013 – MAFIA, POLITICA, STRAGI E SERVIZI SEGRETI: 1992-93. La drammatica fase di transizione dalla “prima” alla “seconda” Repubblica. Presentazione del libro di Stefania Limiti “L’INGANNO: LA DOPPIA O TRIPLA VERITÀ”, Roma, Federazione Nazionale della Stampa Italiana, 28 settembre 2017. Interventi di: Sandro Provvisionato, Peter Gomez, Stefania Limiti, Otello Lupacchini, Vincenzo Macrì.

 

A039A – VATICANO, MISTERI VATICANI: I CASI DI EMANUELA ORLANDI E ALOIS ESTERMANN, Parla Fabio Croce, autore teatrale che conosceva il comandante delle Guardie svizzere assassinato (intervista del 2 maggio 2018). Dal 1893, anno della misteriosa scomparsa delle due giovani Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi sono ormai trascorsi trentacinque anni, mentre venti ne sono passati da quella tragica sera nella quale all’interno delle Mura leonine perirono violentemente il comandante delle Guardie svizzere Alois Estermann, sua moglie e un caporale del Corpo, amante del generale.

                                                                   

A039B – VATICANO, MISTERI: LE SCOMPARSE DI EMANUELA ORLANDI E MIRELLA GREGORI. A 35 anni dai fatti soltanto ipotesi e nessuna verità. Intervista con Marco Bertrandi del Partito Radicale (2 maggio 2018).

 

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