Da stanotte, circa trecento uomini unità della Squadra mobile e del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Brescia, supportati dallo SCO della Polizia di Stato e dallo SCICO della Guardia di Finanza, sono impegnati in una attività di contrasto e repressione di una organizzazione criminale siciliana da tempo ramificata nell’Italia settentrionale.
Si tratta della «stidda», che in siciliano significa la «stella», cioè l’altra mafia che in passato si oppose a cosa nostra palermitana e corleonese.
L’operazione, convenzionalmente denominata «Leonessa», ha portato alla disarticolazione della ramificazione di una cosca che aveva stabilito il proprio centro nodale a Brescia.
Le indagini, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica della città lombarda, hanno portato all’accertamento di una serie di reati e all’individuazione dei presunti responsabili, circa duecento persone oggetto di esecuzione di provvedimenti cautelari.
Sono state inoltre effettuate un centinaio di perquisizioni e sequestrati beni e c contanti per un ammontare pari a 35 milioni di euro.
La filiazione della cosca mafiosa stiddara, formatasi in Lombardia da un paio di anni a seguito del trasferimento di alcuni componenti di un sodalizio criminale gelese, infiltrandosi nel tessuto economico ospite aveva iniziato a inquinarlo attraverso operazioni illegali, in particolare offrendo un servizio “chiavi in mano” di commercializzazione di crediti d’imposta fittizi.
La metamorfosi evolutiva criminale è quella classica, che vede la sostituzione – spesso soltanto parziale – dei tradizionali reati con nuovi business, alimentati dalle disponibilità finanziarie acquisite nel tempo dalle cosche e dall’intraprendenza di alcuni elementi di esse.
Un passaggio che prevede l’indefettibile complicità dei cosiddetti «colletti bianchi», necessari sia all’interfacciamento con settori «più scaltri» dell’universo imprenditoriale locale, sia alla concreta predisposizione degli strumenti per il perseguimento – ma sul piano dell’illegalità – degli interessi di questi ultimi, siano essi di natura fiscale che di altra natura, quale ad esempio dello stoccaggio dei rifiuti tossici.
Nel caso di specie i colletti bianchi individuavano direttamente tra i loro clienti – principalmente in Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio, Calabria e Sicilia –“ quelli disponibili al “risparmio facile”, integrando gli estremi di diversi reati tributari e mettendo alla luce fenomeni corruttivi.
L’enorme redditività di tali attività illecite era giunta addirittura a determinare attriti tra la diramazione lombarda e la cosca madre in Sicilia, il cui traffico di sostanze stupefacenti era stato inizialmente finanziato dai proventi della vendita dei crediti fittizi.
Nel corso dell’indagine è stata monitorata l’evoluzione dei rapporti tra i due sodalizi criminali, compresa l’addivenuta pax mafiosa, consapevoli, poiché – come chiaramente affermato da un indagato intercettato – «la guerra non porta a niente, mentre la pace porta a qualcosa».
Il livello apicale della ramificazione criminale settentrionale, trasformatasi poi nel tempo in vera e propria cosca, si componeva assunta era un triumvirato formato da soggetti di elevata caratura criminale che già in passato avevano ricoperto ruoli di vertice nella stidda gelese e nelle sue proiezioni lombarde.
Gli stiddari offrivano agli imprenditori del settentrione la cessione di crediti fiscali inesistenti dei quali poi questi ultimi si servivano per abbattere illegalmente i loro debiti tributari (reato di indebita compensazione di tributi).
In un anno e mezzo la cosca ha commercializzato a imprenditori attivi nei più svariati settori crediti fiscali inesistenti per venti milioni di euro,
Pur mutando il business, gli stiddari nel loro quotidiano agire avevano tuttavia mantenuto le loro originarie modalità mafiose, esercitando in tutto e per tutto la classica “riserva di violenza” quando lo ritenevano necessario, ad esempio nei confronti di rivali o di affiliati inaffidabili.
Un asset – come la cosiddetta «protezione» – che veniva offerto sul mercato in aggiunta ai crediti fittizi qualora gli imprenditori ne facevano richiesta.
Gli investigatori hanno ricostruito le attività di reimpiego e riciclaggio del denaro di provenienza illecita, rese possibili dal ricorso a società dei più vari settori: consulenza amministrativa, finanziaria e aziendale, sponsorizzazione di eventi, marketing sportivo, noleggio di autoveicoli, barche e aerei, commercio all’ingrosso, studi medici specialistici, fabbricazione di apparecchiature per illuminazione e gestione di bar.
Le fonti di finanziamento illecito derivanti dai reati tributari diventavano così lo un efficace strumento di radicamento del sodalizio mafioso nell’economia reale, una metastasi che inquinava il tessuto economico-finanziario sano, con le ovvie perniciose conseguenze derivanti dalla concorrenza sleale operata dalle società gestite dai prestanome della criminalità organizzata.
L’indagine, oltre ai profili illustrati, ha anche fatto emergere una serie di dinamiche “patologiche” che interessano il Bresciano. Due i filoni investigativi scaturiti dall’indagine dell’Antimafia: uno – e si è visto – relativo al mondo dell’evasione fiscale (con operazioni inesistenti per un ammontare complessivo di fatture false per 230 milioni di euro), l’altro afferente a varie condotte corruttive che hanno visto protagonisti in negativo sia alcuni imprenditori, sia pubblici funzionari dai quali i primi ottenevano significativi risparmi fiscali.
Il bilancio dell’operazione Leonessa è il seguente: circa duecento persone sono state deferite all’Autorità giudiziaria, mentre settantacinque son le misure cautelari restrittive emesse, quindici per associazione mafiosa, quindici per indebita compensazione, diciotto per reati contro la Pubblica amministrazione e ventisette per emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti; emessi inoltre anche numerosi decreti di sequestro.