Oltre sei milioni di cittadini israeliani oggi sono chiamati al voto per la seconda volta nello stesso per scegliere la nuova leadership del Paese, consultazione resasi necessaria dopo lo stallo politico venutosi a creare cinque mesi fa tra i due maggiori partiti, il Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu e Kahol Lavan (Blu-Bianco) la formazione di centro guidata dall’ex generale di Tsahal Benny Ganz e da Yair Lapid, nata dall’aggregazione del Partito di resilienza per Israele con Yesh Atid e Telem.
I due schieramenti contrapposti sono alla ricerca della maggioranza alla Knesset, il parlamento dello Stato ebraico, che è di almeno sessantuno seggi, seppure i sondaggio indichino la sostanziale perpetuazione dell’attuale indirizzo dei consensi dell’elettorato.
I seggi sono stati aperti alle ore 07:00 locali e chiuderanno alle 22:00, dopodiché potranno essere resi pubblici gli exit pool. Alle ore 16:00 gli aventi diritto al voto che si erano recati alle urne erano il 44,3%, l’affluenza più alta registrata negli ultimi trenta anni.
Da queste elezioni, che si configurano come un referendum sulla figura politica di Netanyahu, si attende in ogni caso un Israele diverso da quello caratterizzato dal lungo mandato – gli ultimi tredici anni di potere – conferito al capo del Likud.
Il loro risultato è incerto, dai sondaggi emerge un sostanziale equilibrio. Il blocco di partiti di destra e religiosi che ha guidato il Paese fino a oggi era in possesso di sessanta seggi, cioè l’esatta metà di quelli della Knesset. Netanyahu aveva infatti fallito nel tentativo di creare una coalizione di governo stabile dopo le scorse elezioni che hanno avuto luogo in aprile.
La coalizione a guida Likud annovera sia partiti di matrice fortemente nazionalista che di ispirazione religiosa ultraortodossa, che in un caso si richiamano addirittura allo scomparso rabbino Meir Kahane, un tempo alla guida del partito estremista Kach.
A questo fronte politico si oppone quello liberale e democratico di Ganz e – aggiuntosi nelle ultime settimane – dell’ex premier e anch’egli militare Ehud Barak, uno schieramento che vede al suo interno lo storico partito laburista (che fu di Peres e Rabin), ridotto ai minimi termini e che rischia persino di non superare la soglia di sbarramento del 3,25 per cento.
Infine ci sono i partiti dei Palestinesi, quattro formazioni tra loro molto eterogenee che si sono coalizzate anche loro per non rimanere sotto la soglia di sbarramento prevista.
Avigdor Liebermann, più volte ministro dello Stato di Israele, leader di una formazione politica della destra ebraica laica e secolare, dunque in posizione critica nei confronti dei partiti religiosi, si è invece presentato come “indipendente”.
Al riguardo va ricordato che fu proprio Liebermann a togliere l’appoggio al precedente esecutivo di destra di Netanyahu, secondo i sondaggi avrebbe incrementato i suoi consensi, allargando il suo bacino di voti da quello originario, raccolto prevalentemente tra gli ebrei russi immigrati in Israele.
Si tratta di elezioni di fondamentale importanza anche e soprattutto riguardo al futuro del processo di pace con i Palestinesi, reso per altro più complicato dal recente piano del premier uscente, che nel corso della campagna elettorale ha dichiarato che, in caso di una sua vittoria, annetterà allo Stato ebraico la cosiddetta «fascia di sicurezza» coincidente con la Valle del fiume Giordano.
I risultati del voto verranno resi pubblici nella giornata di domani.
Intanto continua la guerra sottotraccia tra Israele e Iran, nella notte tra lunedì e martedì almeno dieci persone avrebbero perso la vita a causa di un attacco aereo effettuato in territorio siriano.
Nel corso dei raid su Al Bukamal, località situata nei pressi della frontiera con l’Iraq, sono state colpite posizioni tenute da milizie sciite filo-iraniane, l’operazione non è stata rivendicata, tuttavia, si ritiene che sia stata l’aviazione militare di Gerusalemme.
La scorsa settimana, nella medesima zona, un’altra base di quella stessa milizia era stata l’obiettivo delle incursioni di aerei non identificati, ma è noto che ormai da tempo Israele sta attaccando, sia in Siria che in Iraq, i depositi e le postazioni delle milizie filo-iraniane sostenute dai Guardiani della Rivoluzione.