ARABIA SAUDITA, guerra nello Yemen. Gli Houti attaccano gli impianti petroliferi della Saudi Aramco

Gli Ucav degli sciiti filo-iraniani yemeniti hanno colpito il giacimento Hijra Khurais e l’impianto di Abqaiq, nella Eastern Province. Bloccata metà della produzione petrolifera di Riyadh, che impedisce alla stampa di avvicinarsi ai siti per verificarne i reali danni subiti

Dieci velivoli senza pilota armati degli Houti yemeniti – due secondo le fonti ufficiali di Riyadh – hanno attaccato due strutture petrolifere della Saudi Aramco situate nella Eastern Province.

Si tratta del giacimento di Hijra Khurais (il secondo per dimensioni nel Regno, con una capacità produttiva di 1,45 milioni di barili di greggio al giorno) e dell’impianto di Abqaiq, di importanza fondamentale – esprime una capacità di stabilizzazione pari a sette milioni di barili al giorno – poiché vi vengono pre-trattati i due terzi del petrolio estratto in Arabia Saudita che viene poi destinato all’esportazione.

Abqaiq, situato a sessanta chilometri a sud-ovest della città di Dhahran – la «città del petrolio» dove ha sede la compagnia energetica degli al-Saud – ospita il maggiore impianto di lavorazione del petrolio, mentre Khurais, sito a duecentocinquanta chilometri dalla città, costituisce uno dei principali giacimenti energetici del Paese.

Non si registrano vittime ma soltanto danni. Con ogni probabilità ingenti, visto che se il personale è stato evacuato e gli incendi sarebbero stati posti sotto controllo dai vigili del fuoco e dalle squadre di pronto intervento in servizio negli impianti, invece l’accesso alle aree adiacenti ai due siti colpiti è stato proibito ai giornalisti dalle autorità di sicurezza saudite, che in questo modo impediscono una valutazione degli effetti dell’attacco degli Houti.

Questi ultimi – impegnati nel loro paese dal 2015 in una sanguinosa guerra contro una coalizione di forze guidata dai sauditi a loro volta sostenuti dagli Usa – hanno prontamente rivendicato la paternità delle azioni.

Circa la metà della produzione petrolifera di Riyadh, qualcosa come cinque milioni di barili al giorno su un totale di 9,8, risulta dunque bloccata dalle bombe degli sciiti filo-iraniani yemeniti.

Un duro colpo per la monarchia e, in particolare, per il suo gioiello, quella Saudi Aramco che il principe ereditario al potere, Mohammad bin Salman – seppure tra non poche contradizioni e alcune zone grigie – vorrebbe al più presto collocare sul mercato borsistico internazionale dopo un propedeutico esordio sulla piazza saudita, il Tadawul Saudi Stock Exchange, piazza affari aperta per la prima volta agli operatori stranieri soltanto nel giugno del 2015.

Un passaggio cruciale per l’economia e il futuro del Regno, finora sempre rinviato, anche a causa del calo dei prezzi del greggio sul mercato mondiale.

L’escalation della tensione in atto da settimane nella regione mediorientale, con le sue appendici nordafricane e asiatiche, ha fatto registrare un’intensificazione delle dinamiche belliche.

Negli ultimi mesi infatti, gli attacchi portati a non poche infrastrutture petrolifere, non soltanto saudite ma anche di altri paesi del Golfo Persico, come gli Emirati arabi uniti, hanno costretto a una corposa riduzione della produzione.

Meno di un mese fa, il 17 di agosto, grazie al sostegno tecnologico e logistico fornitogli dall’Iran – l’altra potenza regionale impegnata nel conflitto per procura in atto -, gli Houthi avevano attaccato un altro giacimento saudita, quello di Shaybah, danneggiandolo gravemente senza comunque provocare vittime tra il personale che vi lavorava.

Il 14 maggio, invece, sempre gli sciiti yemeniti  effettuarono dei raid contro due stazioni di pompaggio in un gasdotto est-ovest provocandone la temporanea interruzione del flusso di materia prima energetica.

Nel complesso e instabile quadro della situazione regionale, agli attacchi vanno poi aggiunte le azioni di sabotaggio ai danni delle petroliere (oltreché dei loro sequestri), delle quali Riyadh e Washington hanno ritenuto responsabile l’Iran, che tuttavia ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento.

La Saudi Aramco, compagnia petrolifera statale del Regno, è la più grande società del settore operante al mondo. La sua attività principale consiste nell’estrazione di materie prime energetiche che, successivamente, esporta sui mercati internazionali.

Essa, oltre alla perforazione raffina anche il greggio estratto in carburanti (come la benzina) e altri prodotti chimici.

Aramco, colosso societario di proprietà sovrana non ha mai pubblicato un proprio bilancio finanziario. I funzionari di Riyadh affermano che la compagnia abbia una valutazione record di due trilioni di dollari, una cifra stratosferica che surclasserebbe giganti come Microsoft, Alphabet e Apple, tuttavia non pochi analisti riducono questo valore della metà.

Questa scarsa trasparenza ovviamente condiziona i mercati, dove gli operatori finanziari sono stati posti di fronte a una prossima offerta di una quota di capitale pari al 5% sul mercato azionario mondiale.

Il nuovo vertice politico di Riyadh, impersonificato nel potente Mohammed bin Salman, intenderebbe reinvestire il ricavato di questa cessione miliardaria in settori economici al di fuori dell’oil & gas, come il turismo, la sanità e l’industria mineraria. Ma anche per continuare a “pagare” la stabilità sociale del proprio regno, un costoso contratto sociale che costringe la famiglia regnante a impegnarsi i gioielli di famiglia, senza contare poi le guerre (proxi war e impegni diretti) nelle quali il principe ha trascinato – senza troppi successi ma con tante spese – l’Arabia saudita.

Naturalmente, la privatizzazione di Aramco rafforzerebbe la posizione dei sauditi all’interno del cartello petrolifero dell’Opec, conferendogli maggiori disponibilità finanziarie per alimentare la strategia di affossamento della produzione dell’alleato statunitense di shale gas e tight oil.

Non è chiaro, in ogni caso, se il Tadawul possa essere in grado di gestire un’offerta di tali ampie proporzioni, un aspetto che indotto le grandi banche e i trader mondiali a esercitare pressioni sul ramo della famiglia saudita che controlla il gruppo energetico a quotare quest’ultimo anche presso di loro.

Un’altra incognita è quella relativa alla data dell’operazione finanziaria, poiché quando l’Ipo avrà luogo non è ancora chiaro. Finora diversi fattori hanno giocato in favore del rinvio.

A Riyadh non si ha mai avuto veramente fretta di privatizzare il proprio “campione” nazionale, e su questa inerzia hanno ovviamente inciso le fluttuazioni dei prezzi del greggio.

Inoltre, va anche tenuto in considerazione il fatto che la famiglia regnante saudita non è certamente un monolite e, all’interno del variegato sistema di potere monarchico di Riyadh, ci sono anche alcune persone che non hanno mancato di mettere in dubbio la logica alla base di questa privatizzazione, argomentando, tra l’altro, che il picco della domanda di petrolio sia molto lontano e che quindi la cessione di anche una piccola parte di Aramco sarebbe controproducente.

Nell’eventualità si dovesse farlo, sarà comunque difficile quotare in borsa Saudi Aramco, poiché potrebbe essere too big to value, cioè di dimensioni eccessivamente grandi.

E poi resta difficile valutarla con esattezza anche perché Riyadh non ha mai voluto fornire dati ufficiali sulle effettive riserve di greggio detenute dalla società.

Infatti, soltanto una valutazione indipendente potrebbe rivelare – per la prima volta dal 1980 – se i sauditi abbiano affermato il vero riguardo alle loro riserve energetiche, sia nei termini della loro consistenza che delle effettive possibilità di sfruttamento dei giacimenti.

I dubbi ingeneratisi nelle potenziali controparti estere permangono, anzi, forse sono aumentati. Indice di ciò sarebbe il periodico arresto dell’operazione di collocazione del 5% di Aramco sui mercati.

Per il momento arrivano i droni degli Houti.

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