Avrebbero finanziato al-Nusra, questa una delle accuse formulate nei confronti delle dieci persone tratte in arresto questa mattina.
Esse sono indagate per reati tributari e autoriciclaggio con finalità di terrorismo e nei loro confronti sono stati emessi provvedimenti di sequestro patrimoniale di loro beni per un valore di oltre un milione di euro attualmente in corso di esecuzione.
Questi i risultati di una complessa e articolata inchiesta condotta sinergicamente dall’Arma dei Carabinieri e dal Corpo della Guardia di Finanza, coordinati a loro volta dalla Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo di L’Aquila, attività resa possibile dal supporto fornito dai rispettivi comandi provinciali di Teramo, Ascoli Piceno, Lodi e Torino.
L’indagine è partita dalle attività di osservazione dei luoghi di culto islamico da parte dell’Arma dei Carabinieri, in modo particolare della moschea di Martinsicuro, in provincia di Teramo, luogo dove nel corso di alcune “preghiere del sabato” le orazioni degli imam sono risultate particolarmente aggressive.
Uno scenario del tutto insolito per quella parte di Abruzzo, dato che non esistevano precedenti attività investigative in grado di tracciare possibili piste.
Le informazioni raccolte dalla Territoriale dell’Arma avevano infatti suscitato interesse su quella particolare moschea, frequentata da elementi vicini alle frange islamiste radicali, ai limiti dell’estremismo religioso.
Partendo da queste informazioni acquisite in forma riservata e, anche attraverso la ricostruzione del circuito relazionale dei soggetti attenzionati, sono state sviluppate indagini «ordinarie», che in seguito hanno condotto a quelle di natura economica.
Dall’approfondimento sul lato religioso si è dunque passati all’analisi della movimentazione del denaro.
A seguito di una serie di perquisizioni effettuate a marzo in Abruzzo, Piemonte, Lombardia e Marche, i militari del Raggruppamento operativo speciale (Ros) e quelli del Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) dell’Aquila erano venuti in possesso di una copiosa documentazione contabile e di materiale propagandistico riconducibile all’area del radicalismo islamista.
I materiali rivelavano l’esistenza di un’attività di fiancheggiamento di organizzazioni terroristiche di matrice jihadista posta in essere sul territorio italiano principalmente nelle forme del finanziamento. Tra i beneficiari di questo fund raising non viene esclusa al-Nusra, organizzazione nata nella galassia qaedista tuttora attiva.
La gravità delle risultanze emerse rendeva quindi necessaria l’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare a carico degli indagati – due tradotti in carcere e otto agli arresti domiciliari – disposta dal Giudice per le indagini preliminari (Gip) aquilano, dottor Giuseppe Romano Gargarella.
Le ipotesi di reato sulle quali gli inquirenti stanno attualmente lavorando riguardano una serie di illeciti di natura tributaria commessi dagli arrestati nel corso della loro attività di raccolta di ingenti somme di denaro che, secondo l’impianto accusatorio, successivamente venivano in parte destinate agli jihadisti.
Mediante una serie di artifici contabili, il gruppo – una sorta di «cellula» sostanzialmente monoetnica, sia pure non strutturata e preordinata alla commissione di determinati atti -, che faceva capo all’imam di Martinsicuro, riusciva a distrarre considerevoli quantità di denaro liquido, somme alle quali si aggiungevano poi quelle raccolte all’interno delle moschee e dei centri culturali islamici, dazioni volontarie di fedeli.
Le società di diritto italiano attraverso le quali operava questa aggregazione di finanziatori dell’islamismo radicale operavano nei settori dell’edilizia e del commercio dei tappeti.
Commerciante di tappeti ritenuto uno terminali intermedi del collettore che alimenterebbe al-Nusra, un cittadino turco attualmente in libertà, che gestisce una rivendita di tappeti nella città di Gaziantep, nell’Anatolia sudorientale, non lontano dalla frontiera con la Siria, uno dei punti di passaggio dei numerosi foreign fighters diretti ai fronti mediorientali e asiatici del jihad.
Il soggetto in questione non rivestirebbe particolare interesse ai fini dell’indagine, poiché figurerebbe esclusivamente come prestanome.
Gli indagati, che facevano tutti riferimento a un’unica persona – l’elemento apicale del gruppo, che esercitava un’indiscussa autorità sugli altri componenti e ne gestiva le attività -, provvedevano la raccolta e il successivo re-impiego in varie forme del denaro: acquisto di immobili in Italia, costituzione di fondi neri, re-investimento in attività imprenditoriali.
Allo scopo venivano emesse delle fatture, per operazioni però inesistenti, tra una società inglese e una italiana, la prima risultava fornitrice della prestazione a fronte della quale veniva successivamente corrisposto un pagamento, anch’esso fittizio.
Inoltre, grazie alla complicità di una commercialista di Torino, ai dipendenti delle imprese riconducibili all’elemento di vertice del gruppo (tutti cittadini italiani di origini tunisine) venivano consegnate buste paga gonfiate.
Le somme in esse indicate, ad esempio alle voci “assegni familiari” o di “arretrati”, apparivano oltremodo esorbitanti rispetto alle effettive spettanze dei lavoratori, somme in eccesso che venivano successivamente restituite al datore di lavoro sulla base di un rapporto fiduciario improntato alla comune militanza nel gruppo islamista.
Il credito in eccesso vantato nei confronti di dipendenti veniva annullato per mezzo delle fatture false, un complicato aspetto contabile che permetteva la fuoriuscita dal circuito bancario del denaro.
La commercialista che ha partecipato alla commissione degli illeciti non era comunque animata da ideologie o fervore religioso.
Oltre alle false fatturazioni, l’indagine ha documentato anche la raccolta di denaro in Francia, Italia e Svezia, che, tramite bonifici o corrieri che trasportavano somme in contanti, veniva fatto successivamente transitare attraverso un conto corrente in una banca tedesca.
Il fund raising assumeva una vera e propria perentorietà, nei termini e nei tempi, seppure non nei termini estorsivi.
Parte del denaro si ritiene abbia anche finanziato la rete radicale islamista di al-Nusra, giungendo in Turchia e Siria dopo alcuni passaggi intermedi in Paesi europei, Belgio, Germania e Gran Bretagna.
Secondo gli inquirenti il flusso illecito di denaro non arrivava soltanto ad al-Nusra, ma veniva diretto anche ad alcuni imam residenti in territorio italiano, uno dei quali con specifici precedenti penali per associazione con finalità di terrorismo internazionale.
Tutto questo, però, non si sarebbe potuto realizzare senza la rilevante partecipazione all’attività fraudolenta di una commercialista torinese, che si è prestata alla predisposizione di una contabilità artefatta al fine di mascherare gli illeciti tributari.
La donna, ha ad esempio utilizzato nella contabilità fatture emesse a fronte di operazioni inesistenti, molte delle quali da lei stessa, una documentazione attestante un volume di affari di oltre due milioni di euro.
Le Forze dell’Ordine stanno inoltre eseguendo un provvedimento di sequestro patrimoniale preventivo dell’ammontare di oltre un milione di euro nei confronti delle persone indagate, che include anche due appartamenti sulla costa abruzzese acquistati grazie al riciclaggio del denaro frutto dei reati.
Tuttavia, gli investigatori non sono stati in grado di contestare il reato di finanziamento illecito del terrorismo, poiché non hanno potuto provare l’esistenza dell’anello finale della catena, cioè il concreto versamento alle organizzazioni jihadiste e il loro successivo impiego in attività terroristiche, quindi è stato possibile contestare soltanto «l’aggravante terroristica» acclarata nel corso dell’indagine.
Il Giudice per le indagini preliminari ha emesso le ordinanze richieste dagli investigatori, ora la pratica passa al Tribunale del riesame.
Tutti gli indagati sono cittadini italiani, dunque per le persone di origini tunisine non è scattato il provvedimento di espulsione dal territorio nazionale e il conseguente rimpatrio.
L’Italia si conferma dunque “anello” della catena di alimentazione logistica di gruppi e organizzazioni radicali islamisti.