«Un discorso tutto sommato modesto quello di Salvini», questo il severo commento espresso ieri “a caldo” dal senatore Luigi Zanda riguardo l’intervento nell’Aula di Palazzo Madama del leader della Lega, ministro dell’Interno e Vicepresidente del Consiglio dei Ministri nel Governo guidato da Giuseppe Conte.
Quest’ultimo, da dimissionario, al Senato della Repubblica c’era andato per riferire al Parlamento. Lo aveva fatto prima di recarsi al Quirinale dal Presidente della Repubblica e si era tolto anche qualche sassolino dalla scarpa.
Era attesa anche la replica del suo antagonista del momento, fino a pochi giorni prima suo vice assieme a Luigi Di Maio, quel Matteo Salvini che a partire da alcuni giorni prima, dal comizio tenuto a Pescara, aveva cominciato a rompere il giocattolo del governo giallo-verde, quello nato dal “contratto” stipulato da Lega e Movimento 5 stelle.
Perché modesto? Ad avviso di Zanda si era trattato della solita sequela di frasi effetto buone per i comizi in campagna elettorale, un copione ormai vecchio recitato a maniera da Salvini.
In effetti, Zanda non aveva torto, poiché «il capitano», abbastanza emozionato e un po’ confuso – come avrebbe successivamente sottolineato Marco Zucchetti dalle colonne de “Il Messaggero” -, dagli scranni del suo partito (giustamente la Presidente Casellati lo aveva fatto parlare in qualità di senatore della Lega e non di ministro), in tono dismesso aveva replicato a Conte facendo ricorso ai suoi collaudati lanci sensazionalistici dei comizi tenuti nei giorni precedenti, leggendoli disordinatamente da un foglietto di appunti che si era preparato.
Come può essere stato possibile che un politico come Matteo Salvini, che sulla comunicazione ha basato il suo recente grande successo, si sia reso protagonista di un prestazione a tal punto deludente in una occasione così tanto attesa, in un sede istituzionale e sotto i riflettori di tutta la stampa italiana e di parte di quella internazionale?
Dopo il passo falso della crisi di governo gli si è «bollito il cervello», oppure la sua oratoria retorica e dozzinale non deve venire considerata una défaillance poiché sotto c’è una strategia comunicativa ben precisa?
Mentre Giuseppe Conte starebbe completando la sua metamorfosi nelle forme di elemento di riferimento istituzionale, quindi si sforza di assumere atteggiamenti e tono da statista moderato, sfruttando appieno il suo punto di forza sul piano comunicativo.
Egli avrebbe intuito la cifra comunicativa ottimale, infatti mantiene una civiltà dei rapporti che sulla media-lunga distanza può risultare vincente: è duro nei contenuti ma sempre misurato nelle parole, rassicurando così il suo uditorio, cioè l’opinione pubblica.
L’esatto contrario di ciò che fanno tutti gli altri politici del momento, che abbaiano come dei forsennati nei “pollai” dei talk show e non infrequentemente debordano nel rancore.
Dietro all’approccio comunicativo del leader della Lega c’è invece l’ormai nota «bestia», cioè il gruppo di dodici-quindici giovani coordinati da Luca Morisi, spin doctor di notevoli capacità, che applicano una logica, quella della moltiplicazione, diversa da quella utilizzata dalla Casaleggio & Associati.
Infatti, il Movimento 5 stelle espande trasversalmente in tanti piccoli punti il disegno politico degli attivisti, il «popolo», mentre la bestia basa la propria attività su uno schema retorico del tutto diverso: la moltiplicazione delle gesta e del corpo (fisicamente inteso) del capo, il «Capitano».
Il Capitano è il portatore della retorica del popolo. Matteo Salvini a torso nudo evoca Vladimir Putin, se non addirittura Benito Mussolini (e, per la verità, in alcune sue battute pronunciate in pubblico i motti del duce riemergono).
È l’estetizzazione del corpo del capo. La formula vincente di Morisi è sintetizzata nell’acronimo «trt»: televisione, rete, territorio.
Si tratta di un continuo gioco di rimandi della moltiplicazione del messaggio inviato da Salvini attraverso la televisione, la rete che lo amplifica a dismisura personalizzandolo (Salvini che beve la birra, Salvini che indossa la felpa dei pompieri, eccetera) e infine il territorio, che in qualche modo completa quella sua immagine “virtuale” conferendogli ubiquità.
Ecco il perché Salvini più che al Viminale era sempre in giro per l’Italia, per lui era assolutamente necessario mantenere la propria fisica presenza dappertutto, immerso nel territorio.
Un po’ sul modello del dottor Goebbels, che negli anni Trenta curò l’immagine del suo capo (Adolf Hitler) attraverso una campagna, condotta con i mezzi di comunicazione di massa di allora, che instillò nei tedeschi la sicurezza di un führer sempre presente, vigile e attivo su di loro e la loro patria: Hitler in volo sulla Germania. Il mito dell’ubiquità, appunto.
Un politico antropomorfo, «Salvini uno di noi!», che mangia la pagnottella assieme all’operaio o che prende il sole sulla spiaggia assieme agli altri bagnanti, un po’ come quell’Umberto Bossi in vacanza in Sardegna che in canottiera come un rozzo camionista degli anni Sessanta, parlava di politica con dei turisti milanesi sul bagnasciuga
Dunque, la moltiplicazione dei messaggi fatta dagli spin doctor della «bestia» sul piano della comunicazione si è rivelata prodigiosa.
Il modesto discorso pronunciato in Senato. Negli ultimi tre anni Salvini ha ripetuto in maniera quasi ossessiva quattro concetti: prima gli italiani; l’Europa è fatta da burocrati; l’euro ci ha rovinati; basta immigrazione.
A questi quattro messaggi, da quando è diventato ministro dell’Interno se ne è aggiunto un quinto: «io sto sempre dalla parte delle Forze dell’Ordine».
Cinque concetti. Sempre gli stessi, sia in contesti istituzionali che al di fuori di essi. Per il momento questa strategia comunicativa ha funzionato bene, infatti la curva del consenso elettorale è salita poiché ha intercettato il cosiddetto sentiment del Paese (la «pancia» dell’elettorato), da ora in avanti, però, se ne dovrà verificare l’efficacia nel tempo, cioè se questi concetti prima o poi anestetizzeranno o meno l’opinione pubblica.
Fino a ieri Salvini è riuscito a stare al governo utilizzando una retorica da opposizione, sfruttando lo statu quo per edificare il proprio futuro politico, ma d’ora in avanti questo espediente retorico potrà rivelarsi sempre meno efficace e, allora, anche il «Capitano» dovrà sottoporsi a una metamorfosi, molto più profonda di quella di Giuseppe Conte.
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Con l’avvento dell’apparente democratizzazione orizzontale della comunicazione chiunque può aprire un blog, comunicare tramite una pagina Facebook o realizzare un video e «postarlo» su YouTube.
La comunicazione oggi non si sostituisce tanto ai fatti, quanto alla vita istituzionale stessa, in un sorta di «disintermediazione» attraverso la quale i leader politici si rivolgono direttamente in Internet.
Quello è il luogo dove si riesce meglio a influenzare quella che un tempo veniva definita «l’opinione pubblica» e che oggi viene comunemente chiamata la «rete».
Dunque, Internet come nuova era della democrazia dove tutti possono prendere la parola? È vero soltanto in parte, poiché i grandi gruppi della rete sono in grado di controllare miliardi di account.
Si celebrano quindi matrimoni perversi: un politico pubblica un messaggio su twitter, questo messaggio viene ripreso dalle televisioni e ci fanno i titoli i giornali, quindi la medesima cosa viene riciclata da Facebook e quel politico, come se vivesse in una sorta di “mega Truman Show”, riesce a imprimersi nelle menti della gente.
È la cosiddetta «panmediacrazia», dove tutti i media contribuiscono a generare una continua fibrillazione, e a rimetterci è la verità.
Nell’ultimo decennio, in particolare, ne ha risentito la professione giornalistica, che in qualche modo ha subito una delegittimazione.
Sempre più frequentemente accade, infatti, che quando una testata pubblica un articolo sgradito a un politico, questi replica affermando che si tratta di fake news.
E qui risiede uno dei maggiori problemi, cioè quello di ristabilire la giusta distanza tra il giornalismo che verifica accuratamente le proprie fonti e quello invece dedito alla disinformazione o alla misinformazione.
Tuttavia è molto difficile che il «pigro uomo medio» – stanco e assillato da mille problemi quotidiani, quello che, per rendere l’idea, qualche hanno fa leggeva il giornale in tram la sera al ritorno dal lavoro – possa davvero impegnarsi a fondo per verificare l’autenticità delle fonti di informazione propinategli diuturnamente in quantità più che industriale.
Informazione è potere, un assunto valido in tutti i sensi. Il controllo delle menti è sempre stato di fondamentale importanza per il potere, oggi, nell’era dell’informatica, viene esercitato facendo ricorso a un mix di Internet, televisione e altri media.
Internet funge da immenso moltiplicatore tecnologico. La sua progressiva trasformazione in un «media individuale di massa» fa sì che, nell’era del web e dei social media, esso sia divenuto uno strumento idoneo a influenzare i flussi della comunicazione, dunque anche l’opinione pubblica.
L’orientamento di quest’ultima mediante la disseminazione di messaggi in rete, in seguito moltiplicati in maniera tecnologica al fine di generare fenomeni di “isteria” collettiva.
Una conferma di questo pericolo è stata fornita dallo scandalo Cambridge Analitica, con il profiling di migliaia di utenti di Internet.
Ma la nuova frontiera è un’altra: attraverso la disseminazione di messaggi è possibile creare delle vere e proprie «bolle di realtà» tendenti a non comunicare tra loro, nelle quali vivono immersi gli individui.
Bolle tribali digitali, micro-macrocosmi ognuno dei quali avente una propria caratterizzazione: i sovranisti, i cattolici, i tifosi del Manchester United, gli islamisti, eccetera.
L’individuo riceve dalla rete esattamente quello che vuole ricevere e quello gli conferma sempre di più la convinzione di essere nel giusto.
È un comportamento riscontrato anche in passato, tuttavia la differenza è che oggi, rispetto al passato, la propagazione dei processi è divenuta istantanea. Una condizione che se fusa a forti emozionalità è in grado di indurre gli individui (e le loro aggregazioni) a comportamenti irrazionali.
Per farsi un’idea dei possibili effetti di dinamiche del genere basterà riflettere sul fenomeno suburban, che non riguarda soltanto i centri urbani americani, dove è stato studiato scientificamente.
L’introduzione delle rotonde stradali ha contribuito a mettere in crisi la socialità delle città di provincia. Le rotonde hanno sì velocizzato il traffico riducendo contestualmente i rischi di incidenti, tuttavia hanno anche distrutto la possibilità di spostamento da un luogo a un altro dentro una piccola città, poiché imponendo la rotonda la gente non può più circolare su quella strada a piedi, ed è così costretta a prendere la macchina.
Gli americani hanno definito questo fenomeno «suburban», che – apparentemente può sembrare incredibile – comporta i suoi pericoli, in quanto è risultato che quasi tutti i neojihadisti americani non di origine araba provenivano da quelle zone di provincia.
Zone e quartieri nei quali sono le strade a comandare, l’automobile comanda. In quei luoghi, piccole aree suburbane appunto, è cessata la creazione di “aggregazione cittadina”, poiché l’uno dei pochi punti di aggregazione sociale è il centro commerciale o la chiesa (magari una megachurch) che adesso raggiungibile esclusivamente in macchina e non più a piedi, oppure è la chiesa – magari una megachurch. E i ragazzi restano da soli in casa. ma dove trascorrono il loro tempo? Davanti al monitor di un computer. E cosa viene da quel monitor? Di tutto, anche messaggi devianti.
Cosa è successo dunque? Siamo davvero alla fine del «discorso pubblico», come profetizzato da Mark Thompson?
Si riducono gli spazi entro i quali è possibile ragionare sopra un argomento, discuterne, confutare le tesi altrui. Insomma, il vecchio mito illuminista del confronto tra idee diverse oggi è sotto attacco.
Al contrario, l’informazione tribalizzata, quella che diffonde messaggi del genere «io sono nel giusto e tu sei in errore» è oggi prevalente. Ed è già di per sé un pericolo.
Ma non è il solo, poiché esiste anche quello, non meno inquietante, del tentativo di delegittimazione delle istituzioni democratiche, della scomparsa dei corpi intermedi, che potrebbero invece essere utilmente superate dalla partecipazione al processo decisionale attraverso la rete.
Bot e troll sono diventati strumenti di influenza, anche nella lotta politica. La moltiplicazione degli algoritmi porta a una perdita di ancoraggio alla realtà delle persone e col rischio della “virtualizzazione” delle istituzioni.
Il tema della comunicazione associato alla politica è stato approfondito da insidertrend.it grazie al prezioso contributo di un esperto della materia, il professor ALBERTO CASTELVECCHI, che nel corso di una lunga intervista ha avuto modo di affrontare i numerosi aspetti dello scibile. Di seguito è possibile ascoltarne l’audio integrale à