«Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una milizia regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare delle armi non potrà essere infranto».
Questo recita il Secondo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America in materia di possesso e impiego di armi da fuoco.
Un diritto inviolabile dei cittadini dunque, sancito dalla Carta fondamentale dell’Unione e sul quale si è anche pronunciata la Corte Suprema mantenendolo in vigore.
Una interpretazione «statica» è stato affermato da molti, non più aderente ai tempi, in quanto la statuizione che è parte del Bill of Right – cioè i dieci Emendamenti della Costituzione che statuiscono i fondamentali principi di diritto in favore dei cittadini americani e degli Stati dell’Unione rispetto allo Stato federale -, venne scritta quando, si era alla fine del XVIII Secolo, lo Stato federale (allora le iniziali tredici colonie affacciate sull’Oceano Atlantico) non possedeva ancora n esercito e neppure era stata varata una legge che imponeva la coscrizione obbligatoria, quindi per la propria sicurezza doveva fare necessariamente affidamento alle milizie volontarie formate dai cittadini, che però disponevano di armi proprie.
L’ordine esecutivo emesso nel 2016 dal presidente Barack Hussein Obama relativo a un maggior controllo della vendita delle armi da fuoco rappresentò un tentativo di regolamentarne la circolazione in un paese, gli Usa, dove circolavano più di trecento milioni tra pistole, fucili e mitra.
Tuttavia, questo ordine esecutivo presidenziale non avrebbe trovato interpretazione e applicazione da parte dello Stato federale e dal Federal Bureau of Investigation, bensì dai singoli Stati dell’Unione, ognuno a modo proprio.
Un’impresa, quella del controllo delle armi, che viene resa inoltre molto difficile dal mito della “terra di frontiera” diffuso tra gli americani, nonché dalla forte resistenza opposta dalla lobby dei produttori e dei commercianti di armi.
La cultura degli americani è profondamente permeata dal mito del lungo passato di “terra di frontiera” del loro Paese.
Dall’epopea dei primi Stati dell’Est che si sono espansi verso Ovest per tutto il corso dell’Ottocento alla ricerca di terre da colonizzare e di uno sbocco sull’Oceano Pacifico.
Terre che a volte venivano comprate, altre volte strappate ai «nativi» (i pellirosse), altre ancora – come nel caso della conquista della California ai messicani – ottenute facendo la guerra ad altri stati.
Mano a mano che gli yankee si insediavano sul territorio edificavano villaggi e città, dove in assenza di un’autorità costituita (a eccezione dell’esercito laddove questo era stanziato) le funzioni della sicurezza e della giustizia venivano garantite dalle stesse comunità di cittadini, che facevano sostanzialmente da loro.
Ci si difende da soli. Questo principio divenuto nel tempo sentire comune, è poi rimasto nella cultura degli americani.
Un popolo di individualisti, almeno per quanto riguarda buona parte dei white american anglosaxon protestant di sesso maschile, tra i quali attecchisce spesso un sentimento profondo di scarsa fiducia nella pubblica autorità e nello Stato, soprattutto se federale.
Quello Stato federale che non ha competenze riguardo alla commercializzazione, possesso e impiego di armi da fuoco, poiché essa è una materia della quale i singoli stati dell’Unione si sono da sempre gelosamente occupati.
Essi, in diversa maniera da stato a stato, sulle armi hanno legiferato (come per altro anche in materia di pena capitale) senza che Washington potesse assolutamente ingerirsi.
Si pensi a una delle ultime stragi, quella perpetrata dal suprematista bianco Santino William Legan al Gilroy Garlic Festival, che introdusse il suo fucile d’assalto in California da un altro stato, poiché lì, a differenza di altrove, il possesso ne era vietato.
Troppe armi in giro, ed ecco che oggi gli Usa devono piangere ancora delle morti innocenti. Quella di Dayton, Ohio, è la terza strage in pochi giorni.
Ma attenzione, negli Usa i decessi causati dall’uso di armi da fuoco non sono soltanto quelli eclatanti che “bucano” gli schermi televisivi sotto forma di breaking news, poiché le statistiche parlano chiaro: oltre alle stragi compiute dai folli o dai suprematisti e agli attentati terroristici c’è sempre – sottotraccia ma non per questo meno grave – lo stillicidio quotidiano degli omicidi e degli incidenti registrato nell’intero territorio degli Stati Uniti d’America.
Un duplice attacco a distanza di poche ore, prima a El Paso, in Texas, poi a Dayton nell’Ohio.
L’assalto al centro commerciale Walmart della città al confine col Messico ha visto protagonista negativo Patrick Crusius, un uomo originario di Allen, presso Dallas.
Ha agito da solo, sparando per un’ora in maniera indiscriminata con un fucile d’assalto AK.
La polizia locale e gli agenti del Fbi giunti sul luogo sono riusciti a renderlo inoffensivo soltanto a mezzogiorno.
Il presidente degli Usa Donald Trump definisce il crimine perpetrato a El Paso come «un atto vigliacco», le sue parole le affida a un tweet, tuttavia, lo stragista potrebbe addirittura essere un suo elettore.
Il killer è un “suprematista bianco”, autore di un manifesto postato sul web nel 2017, nel quale affermava di odiare gli ispanici, molti di quei cittadini che ha trucidato. Il suo post inviato in rete poco prima della sparatoria motivava la sua azione: «È una risposta all’invasione ispanica del Texas».
Lo stato del Texas chiederà la pena di morte per Cruisis, lo ha annunciato il procuratore distrettuale, questo mentre gli inquirenti classificano l’attacco come un caso di “terrorismo interno”.
Ma non finisce qui. Infatti dopo alcune ore l’incubo si ripete a Dayton, nel Midwest, dove all’una di notte (ora locale) un individuo spara all’impazzata contro un bar del distretto di Oregon, il quartiere dei ristoranti e dei locali notturni della città. In pochi minuti uccide nove persone, tra le vittime anche sua sorella.
La polizia interviene e lo abbatte. Si tratta di Connor Betts, ventiquattro anni e senza precedenti penali. Dalla sua pagina Linkedin risulta che fosse uno studente di psicologia iscritto al Sinclair Community College. Secondo la polizia non avrebbe agito da solo, infatti viene ricercato un secondo uomo che avrebbe lasciato la zona a bordo di una jeep scura, è sospettato di essere coinvolto nella strage.
Quella di Dayton è la terza strage compiuta in pochi giorni negli Usa.
Una settimana fa era stato un diciannovenne di origini italo-iraniane e simpatie suprematiste ad aprire il fuoco sulla folla a Gilroy, in California, uccidendo tre persone, tra cui un bambino di sei anni e un’adolescente di tredici.
In seguito, il presidente Trump ha affermato che «negli Usa non c’è posto per l’odio», aggiungendo che il problema è la «malattia mentale».
Un’ottima diagnosi.