Le indagini condotte per il nuovo processo celebrato in Corte di Assise hanno condotto al riesame dei materiali (macerie, detriti e oggetti) depositati nel settembre del 1980 all’interno di quella che allora era la caserma San Felice ai Prati di Caprara, un luogo poco distante dalla stazione ferroviaria di Bologna dove avvenne l’esplosione che uccise 85 persone e ne ferì duecento.
Sulla strage del 2 agosto esiste una verità giudiziaria, sentenze passate in giudicato ascrivono le responsabilità dell’orrendo massacro agli ex terroristi neofascisti nei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, che tuttavia hanno sempre negato con forza questa pesante colpa.
Attualmente, a trentanove anni dai fatti, presso la Corte di Assise di Bologna è in corso un altro processo a carico di un neofascista, Gilberto Cavallini, anche lui ex Nar, seppure a differenza degli altri suoi tre camerati condannati per la strage, risultato in passato legato ad ambienti ordinovisti veneti.
Nel corso di quest’ultimo dibattimento i giudici hanno disposto nuove perizie, le cui risultanze hanno rialimentato ipotesi in ordine alla strage difformi dalla verità ufficiale cristallizzata nelle sentenze emesse in passato dalla magistratura bolognese. Due in particolare: quella palestinese e quella libica. Inoltre ripropone la possibile esplosione accidentale dell’ordigno esplosivo.
Infatti, dagli esami effettuati sui materiali depositati ai Prati di Caprara dal geominerario esplosivista Danilo Coppe e dal team del Ris dei Carabinieri di Roma diretto dal tenente colonnello Adolfo Gregori, sono emersi elementi di particolare interesse.
Si tratta della quarta perizia del genere disposta sulla strage di Bologna. Effettuata mediante il ricorso a tecnologie e strumenti che in passato non erano disponibili, consta di 160 pagine esclusi gli allegati.
L’interruttore della bomba. Tra i materiali rinvenuti vi sono i resti di un oggetto che potrebbe aver funto da interruttore per l’attivazione del detonatore dell’ordigno che provocò la strage. Un interruttore «di sicurezza» per il trasporto della valigia contenente la bomba.
Un interruttore elettrico tipo on-off diverso da tutti quelli che si trovavano all’interno della sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna dove venne posizionato l’ordigno e anche con altri materiali in uso in quel particolare luogo in quel periodo, materiali che l’allora Azienda Autonoma Ferrovie dello Stato censiva meticolosamente.
Un interruttore commerciale, simile a quelli dei tergicristalli che nel 1980 venivano installati sulle autovetture, che era posizionato su una staffa metallica piegata da un lato, lunga all’incirca dieci centimetri e alta tre.
Un oggetto rinvenuto la scorsa estate dal dottor Coppe tra i materiali ammassati un mese dopo la strage all’interno della caserma San Felice ai Prati di Caprara, una volta sgomberata la stazione dalle macerie e dai detriti prodotti dall’esplosione.
I periti lo ritengono compatibile con un congegno di sicurezza costruito artigianalmente e utilizzato allo scopo di evitare esplosioni accidentali durante il trasporto dell’ordigno, tuttavia, per questa ragione probabilmente anche difettoso.
Torna dunque l’ipotesi dell’incidente, dell’esplosione accidentale alla quale l’8 agosto 2008 fece sibillinamente riferimento il Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che però in quella drammatica estate – il 27 giugno 1980 precipitò a Ustica il DC-9 dell’Itavia e il 2 agosto esplose la bomba a Bologna – ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei ministri.
Cossiga – che svolse un ruolo di primo piano nel radicale mutamento della linea di politica estera italiana nel quadro del diverso scenario venutosi a creare in Europa a seguito di un rinnovato interesse americano -, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera dichiarò che «la strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della resistenza palestinese che, autorizzata dal “lodo Moro” a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, fece saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo».
Secondo questa ricostruzione si sarebbe trattato dunque di un transito per la stazione di una persona che recava al seguito un bagaglio assai pericoloso, un transito finito poi in tragedia.
Cossiga parlò di «amici della resistenza palestinese» e di lodo Moro, aspetti molto importanti che inducono a una profonda riflessione sulle persone che il giorno della strage alla stazione si trovavano alla stazione ferroviaria di Bologna.
Come la terrorista tedesca Christa Margot Frolich del gruppo facente capo a Carlos, che alloggiò al Jolly Hotel di Bologna la notte tra il 1 e il 2 agosto 1980 e che, due anni dopo, verrà arrestata all’aeroporto di Fiumicino poiché trovata in possesso di una valigia contenente tre chilogrammi e mezzo di miccia gommata verde (di pentrite prodotta nei Paesi dell’Est comunista), un timer, una sveglia a batteria marca Emes dalla quale fuoriuscivano due fili elettrici, due detonatori elettrici in alluminio e una staffa semicurva con installato un interruttore molto simile a quello rinvenuto a Prati di Caprara, un interruttore artigianale.
Strane coincidenze. Anche a Fiumicino la Frolich trasportò un ordigno esplosivo per conto di qualcuno?
Riguardo alla natura del detonatore, oggi i periti escludono che quello che ha innescato l’ordigno alla stazione di Bologna possa essere stato un congegno chimico, diversamente da quanto invece era stato sostenuto in precedenza dato il mancato rinvenimento sul luogo dell’esplosione di tracce di cavi elettrici, essi si dicono però convinti del fatto che ad azionarlo sia stato un congegno a funzionamento elettrico.
L’esplosivo. Riguardo all’esplosivo dell’ordigno esploso nella sala d’attesa della stazione di Bologna le risultanze delle perizie forniscono dati diversi rispetto al passato, infatti la quantità di materiale risulta inferiore di circa la metà di quanto ritenuto in precedenza, non venti-venticinque chilogrammi ma undici.
Quantità in grado di indirizzare verso una rilettura degli effetti provocati il 2 agosto sulle vittime e sugli edifici, e questo potrebbe voler significare anche la messa in discussione della verità giudiziaria sulla strage.
Si tratterebbe di un composto di T4 e tritolo con residui di gelatina, sostanze ricavate da cariche da lancio di munizionamento risalente alla Seconda guerra mondiale.
Ma, anche la composizione chimico-merceologica cambia rispetto alla perizia più recente (la cosiddetta «Spampinato», effettuata nel 1990), le cui risultanze parlavano della presenza di di rilevanti quantità di gelatinato, diciotto chilogrammi di nitroglicerina a uso civile, e cinque di Compound B, una miscela di tritolo e T4.
La relazione del 2019 – quella del dottor Coppe e della Sezione chimica del Racis dei Carabinieri – riferisce invece soltanto di tracce residuali di gelatina, materiale ricavato dalla carica da lancio di vecchio munizionamento militare.
Chi condusse gli esami ventinove anni fa potrebbe essere stato indotto in errore dal rinvenimento di solfato di bario (che la nuova perizia di oggi non conferma), tipico composto stabilizzante della gelatina rinvenuto sul treno Taranto-Milano il 13 gennaio 1981, quindi a pochi mesi dalla strage di Bologna, quando i servizi segreti (permeati da massoni appartenenti alla loggia massonica P2 di Licio Gelli) cercarono di depistare le indagini verso l’eversione di destra.
Al pari di molti altri verificatisi nella storia della Repubblica, anche quello del rapido Taranto-Milano è un episodio che presenta aspetti inquietanti e allo stesso tempo di fondamentale importanza ai fini della comprensione del contesto nel quale si è consumata la strage.
I periti di oggi hanno posto poi in relazione la strage di Bologna a due attentati compiuti dal gruppo di Carlos in Francia, in particolare quello di Saint Charles del 31 dicembre 1983.
Nuove perizie e vecchi dubbi. Le sentenze emesse nelle varie fasi del giudizio sono inequivocabili: organizzatori ed esecutori materiali della strage furono i neofascisti, mandante Licio Gelli e la sua loggia massonica Propaganda 2, o più semplicemente P2.
Destabilizzare il Paese, questo secondo la tesi dell’accusa sarebbe stato l’obiettivo prefissosi da coloro i quali avrebbero concepito l’azione criminale, sulla falsariga di quanto avvenuto negli anni precedenti, almeno fino al 1974. Perché poi la situazione internazionale e interna era comunque cambiata.
Le dinamiche internazionali e i loro riflessi sulla situazione e la stabilità italiana sono fondamentali anche all’approccio al fenomeno terroristico, anche alla strage di Bologna, poiché ne permettono la collocazione in un ben definito contesto facilitandone in parte la comprensione.
Infatti, il 1980 arriva molto dopo i tentativi – esperiti a vario titolo e da vari soggetti – di imprimere una svolta autoritaria al Paese mediante forme di terrorismo “dall’alto”.
La stagione della strategia della tensione apparteneva ormai al passato e i nuovi confronti, semmai, imponevano nuove strategie, seppure qualcosa di estremamente ingombrante – il cosiddetto «lodo Moro» – come per inerzia si trascinava ancora sulla scena italiana e mediorientale, questo sì, con tutto il suo carico di destabilizzazione.
La P2 avrebbe dunque complottato per destabilizzare lo Stato democratico. Certamente, Gelli e i suoi accoliti non erano personaggi cristallini, tuttavia non si comprendono le ragioni che avrebbero dovuto ispirare una sanguinosa macchinazione di tale portata.
Coperture e depistaggi a opera di settori dello Stato repubblicano sono addirittura comprensibili in un contesto inquinato e corrotto come quello, ma soltanto se essi trovano una giustificazione sul piano degli interessi, siano stati essi anche esclusivamente di corrente o addirittura di cordata.
Ma la P2 di Gelli in quel momento aveva quasi tutto, perché avrebbe dovuto sovvertire un sistema che in buon parte controllava?
Come ebbe a scrivere su “Il Foglio” del 4 agosto 2018 il compianto Massimo Bordin «il problema politico è che Gelli, i suoi protettori e i suoi accoliti, al contrario della destra degli anni Sessanta, erano tutt’altro che degli emarginati. Erano padroni del Corriere della Sera e del Banco Ambrosiano, i loro uomini erano piazzati ai vertici delle allora molte partecipate di Stato, del Consiglio superiore della magistratura e dei servizi segreti, e il Pci era uscito dall’area di governo. Cosa mai dovevano destabilizzare? Una ipotesi del genere, tanto azzardata, avrebbe avuto bisogno di prove davvero granitiche, che naturalmente i pubblici ministeri non hanno trovato e, assolti tutti, tranne Fioravanti e Mambro rimasti appesi come i caciocavalli di Croce. È logico che condannati e vittime protestino».
Insomma, a differenza del passato la leggibilità dei fatti non è per niente chiara poiché il movente interno appare difficilmente plausibile e la ricostruzione dei fatti dell’accusa è debole, dato che indugia molto sulla destra italiana e molto meno sulle effettive responsabilità dei condannati, inchiodati dalla testimonianza di un personaggio impresentabile come Massimo Sparti.
Al contrario, le piste internazionali risultavano coerenti, poiché dato il contesto internazionale e interno i moventi erano più che ragionevoli. Tuttavia queste ultime vennero sempre rifiutate dagli inquirenti e si seguì a tutti i costi quella neofascista che portò ineluttabilmente alla condanna dei giovani terroristi imputati.
L’impianto accusatorio ha ipotizzato l’esistenza di una maxistruttura eversiva che operava per il tramite di un livello inferiore a lei sottoposta, la banda armata Fioravanti, Mambro e Ciavardini, cioè i Nar, unico gruppo armato di estrema destra attivo in quel momento sulla scena criminale italiana.
Dal giorno della strage ormai sono trascorsi trentanove anni, un lasso di tempo sufficientemente lungo anche per affrontare lucidamente tutti gli aspetti di questa torbida vicenda. Per approfondirli, magari rivedendo l’intero impianto dell’inchiesta, se non sul piano giudiziario almeno su quello della ricostruzione storica.
È possibile ascoltare di seguito l’audio dell’intervista con Valerio Cutonilli
A172 – MISTERI ITALIANI, 39 ANNI FA LA STRAGE DI BOLOGNA: NUOVE PERIZIE E IPOTESI MAI ESPLORATE, a insidertrend.it parla l’avvocato VALERIO CUTONILLI, autore assieme al giudice Rosario Priore del libro “I segreti di Bologna, la verità sull’atto terroristico più grave della storia italiana”.
Le perizie disposte dai giudici di Bologna nell’ultimo processo sulla strage del 2 agosto 1980 – attualmente in corso e che vede imputato il neofascista Gilberto Cavallini – potrebbero portare a risultati in grado di mettere totalmente in discussione le “verità giudiziarie” finora accettate con molti dubbi. Le piste palestinesi (Fplp) e libica verrebbero quindi riconsiderate. Nell’intervista con l’avvocato Cutonilli vengono accuratamente esaminate le incongruenze, le omissioni e i possibili depistaggi di una vicenda che vede protagonisti molti soggetti.