A partire dal prossimo mese di settembre la provincia canadese dell’Alberta sarà in grado di collocare sul mercato delle materie prime energetiche 3,76 milioni di barili di greggio al giorno ricavato dalle oil sands.
Si tratterà di una quota maggiore di 25.000 rispetto ad agosto e dei 200.000 rispetto a gennaio, cioè al momento in cui erano entrati in vigore i tetti di estrazione, una misura simile a quelle adottate dall’Organizzazione degli esportatori di greggio (Opec), alla quale però lo Stato nordamericano il Canada non aderisce.
Dunque, se a Vienna si continua a tagliare la produzione a Edmonton si segue un indirizzo opposto.
I tagli decisi dall’Opec erano finalizzati al sostegno del prezzo del barile, tuttavia, in Canada il focus non sarebbe stato concentrato tanto sulle piazze di negoziazione di Brent e Wti, né al livello globale delle scorte (fonte di preoccupazione dei Paesi Opec), quanto invece alle valutazioni del Wcs (Western Canadian Select), cioè il greggio bituminoso locale, che infatti sono migliorate.
Questa decisione rifletterà comunque i suoi effetti sulle quotazioni internazionali, poiché la sovrapproduzione dell’Alberta non potrà non incidere sull’offerta mondiale, contribuendo a perpetuarne il surplus, un trend che l’Opec, al contrario, cerca di invertire da anni dato che determina il ribasso del prezzo del greggio al barile.
Ed ecco che la completa revoca dei tagli canadesi si materializza nelle forme di un ulteriore fattore ribassista per una materia prima energetica che già risente degli andamenti della domanda legati alle guerre commerciali.
In ogni caso, il Canada registra alcuni handicap dal punto di vista energetico, poiché sconta l’inadeguatezza della sua rete di oleodotti che ne rende poco performante il collegamento con il resto del mercato mondiale e che costringe al trasferimento di una parte non indifferente della produzione nazionale a mezzo ferrovia, un vettore particolarmente costoso.
È stato anche a causa di questo che nel 2018 il greggio prodotto nel Paese aveva conosciuto una svalutazione dei prezzi, con il Wcs che in ottobre costava cinquanta dollari meno del Wti.
Attualmente, ma grazie anche ai tagli produttivi, lo sconto rispetto al riferimento statunitense si è riportato su livelli più accettabili, tra i nove e i tredici dollari.
Il nuovo governo dell’Alberta insediatosi nello scorso aprile ha eliminato gradualmente i precedenti limiti favorendo così le esportazioni e il contestuale smaltimento delle scorte petrolifere.