«La nostra pazienza si è esaurita. Siamo sul punto di esplodere. Se questo assedio non viene annullato, esploderemo di fronte ai nostri nemici, con il permesso e la gloria di Dio. L’esplosione non sarà solo a Gaza, ma anche nel West Bank e all’estero. Dobbiamo attaccare tutti gli ebrei del mondo attraverso il massacro e l’omicidio».
Queste sono le sconcertanti parole pronunciate da Fathi Hammad, uno dei leader di Hamas nella Striscia di Gaza, lo scorso venerdì nel corso di una protesta inscenata dai palestinesi al confine con lo Stato ebraico.
Arringando la folla, Hammad ha rivolto un appello ai palestinesi della Cisgiordania affinché «pugnalino gli israeliani» e ha quindi affermato che la sua organizzazione avrebbe realizzato una fabbrica per produrre cinghie esplosive.
E fin qui, in effetti, non ci sarebbe nulla di nuovo nelle posizioni oltranziste di quello schieramento palestinese, poiché lo statuto di Hamas – che è stato redatto negli anni Ottanta e da allora non è mai stato cambiato – auspica la distruzione di Israele, questo seppure l’organizzazione islamista palestinese nel 2017 abbia comunque emesso ufficialmente un documento politico nel quale si specifica che «il conflitto con il progetto sionista non è un conflitto contro gli ebrei a causa della loro religione».
Tuttavia, tre giorni dopo lo stesso Fathi Hammad aveva postato sul sito web dell’organizzazione fondamentalista di appartenenza una dichiarazione nella quale sosteneva «la coerente politica adottata da Hamas, di limitare la propria resistenza all’occupazione sionista che usurpa la terra della Palestina e profana i suoi luoghi sacri», anche se – aveva poi aggiunto nel breve comunicato affidato a Internet – «…la nostra resistenza a questa entità usurpatrice continuerà in tutte le sue forme, sia che si tratti di lotta pacifica armata o popolare».
Un evidente passo indietro quindi, in qualche modo avvalorato anche da un comunicato ufficiale di Hamas dove veniva assolutamente negato un legame tra le prime dure dichiarazioni rese da Hammad con la politica ufficiale del movimento islamista palestinese.
Cos’era dunque accaduto nel frattempo?
I timori di un’ulteriore isolamento dell’organizzazione conseguenti alle possibili reazioni provenienti dall’esterno anno allarmato i vertici del movimento. Il messaggio lanciato da Fathi Hammad era risultato eccessivo, quindi si rendeva necessario correre ai ripari l più presto almeno sul piano della comunicazione.
Ed ecco che – sicuramente in buona fede – un altro altro leader di Hamas, mantenendo l’anonimato, ha in seguito dichiarato alla testata giornalistica “The Times of Israel” che quelle di Hammad altro non erano se non «affermazioni personali che non rappresentano Hamas. Non sono altro che commenti emotivi – aveva poi aggiunto l’anonimo personaggio – che potrebbe aver formulato a causa dell’uccisione di uno dei nostri membri (…) perché il nostro problema non è verso gli ebrei, ma verso l’occupazione e il movimento sionista che occupa la Palestina».
Anche un certo numero di palestinesi di Gaza che frequentano i social media hanno stigmatizzato le frasi di Hammad, chiarendo che «il nemico dei Palestinesi è l’occupazione israeliana e non gli ebrei in quanto tali».
Saeb Erekat, segretario generale del Comitato esecutivo dell’Olp, non ha esitato a condannare le dichiarazioni di Hammad, affermando che: «I giusti valori della causa palestinese includono l’amore per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza. La ripugnante dichiarazione sugli ebrei del leader di Hamas Fathi Hammad non rappresenta alcuno di questi valori (…) la religione non dovrebbe essere usata per scopi politici».
Dal canto suo, Omar Shakir, direttore del tavolo su Israele e Palestina per la Ong Human Rights Watch, ha definito come «assolutamente vili» i commenti di Hammad e ha twittato che «le richieste di uccidere le persone motivate dalla religione non trovano spazio in un movimento per la libertà e dovrebbero essere relegate nella spazzatura della storia».
Infine l’Onu, che per bocca di Nickolay Mladenov, coordinatore speciale delle per il processo di pace in Medio Oriente, si è riferito alle parole di Hammad come a «una dichiarazione pericolosa, ripugnante e incitante che deve essere chiaramente condannata da tutti, poiché non può esserci compiacimento per tale retorica».
Nel frattempo a Ramallah si pensa in grande: sostituire con una criptovaluta come il bitcoin lo shekel, che è la moneta avente attualmente corso legale nel territorio dello Stato ebraico ma diffusamente utilizzata negli scambi anche nei Territori palestinesi.
Lo ha confermato recentemente il primo ministro dell’Anp (Autorità nazionale palestinese) Mohammad Shtayyeh, che ha motivato la scelta con la necessità di superare gli ostacoli posti dagli israeliani all’economia palestinese.
Una valuta alternativa per un’economia, quella dell’Anp, avente un volume di denaro circolante di circa venticinque miliardi di shekel (pari a sette miliardi di dollari Usa), che tuttavia permane strettamente legata a quella dello Stato ebraico.
I 170.000 palestinesi che lavorano in Israele vengono retribuiti in shekel, inoltre l’80% degli scambi commerciali bilaterali avviene mediante la medesima valuta. Lo Stato ebraico non accetterebbe mai, quindi, di trattare con un’altra valuta e si manterrebbe comunque il surplus di shekel nei territori palestinesi.
Non è chiaro quanto questo agognato svincolamento dallo shekel sarà concretamente fattibile, poiché al riguardo sussisterebbero non pochi dubbi.
Il Protocollo agli Accordi di Oslo siglato nell’aprile 1994 a Parigi dallo Stato di Israele e dall’Olp prevedeva il conferimento alla nascente Anp una propria autorità monetaria (Pma), avente le prerogative di una banca centrale esclusa quella, fondamentale, di emettere moneta.
Nello stesso documento si disponeva che lo shekel – assieme al dollaro Usa e al dinaro giordano – fosse una delle principali valute circolanti nei territori dell’Anp, con la divisa israeliana utilizzabile come mezzo di pagamento a tutti gli effetti, comprese le transazioni ufficiali.
Adesso – in realtà l’idea è del 2017 – la Pma ha rispolverato il progetto di sviluppare una criptovaluta digitale sovrana entro cinque anni.
Tuttavia, gli ostacoli alla prosperità dell’economia palestinese con ogni probabilità non verrebbero rimossi da un mero affrancamento dallo shekel, poiché essi sono di natura diversa da quella monetaria, almeno nella loro parte prevalente.
Al riguardo i dubbi sollevati non sono certamente pochi.
Infatti, la dipendenza da Israele non verrebbe certo eliminata dall’introduzione di una nuova criptovaluta, poiché – ad esempio – Tel Aviv continuerebbe ad avere la piena facoltà di trattenere i fondi di sdoganamento, di controllare gli attraversamenti delle persone e delle cose (dunque delle importazioni e delle esportazioni) attraverso i confini e, inoltre, anche stipulando accordi commerciali all’estero, i palestinesi non potrebbero fare a meno dei porti israeliani.
La dipendenza economica e politica da Israele è oltremodo complessa e difficile da scalfire. L’adozione di una criptovaluta in queste condizioni assumerebbe soltanto le fattezze di un simulacro di sovranità e di una sfida politica.
Ma non solo: si ha certezza del fatto che i palestinesi riporranno fiducia nella loro nuova criptovaluta? E se le tensioni che si alimenterebbero con Israele a causa di questa scelta portassero all’adozione di provvedimenti di politica economica finalizzati alla svalutazione di essa? È evidente che la fiducia nella moneta palestinese conoscerebbe una crisi, con conseguenze immaginabili.
Inoltre, l’Anp è davvero in grado di esprimere una base economica sufficiente a supportare una propria moneta sovrana oppure resta una economia di consumatori? Senza contare poi l’esposizione ai rischi di cyberattacchi.
Ovviamente, anche gli israeliani ci rimetterebbero da un affrancamento monetario di Ramallah dalla loro florida economia, dato che la banca centrale israeliana vedrebbe perse le attuali entrate derivanti dall’utilizzo della propria valuta nei mercati palestinesi.
A questo punto le affermazioni del primo ministro Shtayyeh dovrebbero considerarsi come una provocazione lanciata agli israeliani su un piano meramente politico e non come un concreto rivoluzionario progetto di natura economico-monetaria.