Secondo il sito specializzato in materie prime energetiche “Energia Oltre”, l’Iraq si porrebbe in linea con gli obiettivi di aumento della produzione di greggio a 6,2 milioni di barili al giorno entro la fine del 2020 oltreché al target di 9 milioni di barili giornalieri entro la fine del 2023.
Dunque una produzione in crescita rispetto agli attuali 4,6 milioni, praticamente il medesimo livello di quella del gigante mondiale del settore, l’Arabia Saudita.
Al riguardo Baghdad avrebbe lanciato un chiaro messaggio sia ai produttori che ai consumatori riguardo alla necessità di aumentare (o rivedere) i contratti per lo sfruttamento dei propri campi di estrazione.
Ma i vincoli infrastrutturali incidono negativamente sulle aspettative nutrite a Baghdad, poiché essi potrebbero continuare a ostacolare la realizzazione dei progetti nei tempi previsti.
I dati recentemente pubblicati dal ministero del petrolio di Baghdad emerge che nel 2018 la produzione dei campi di Rumaila – che insieme a Kirkuk costituisce attualmente l’80% di quella complessiva dell’Iraq – è stata di 1.467 milioni di barili al giorno, cioè il tasso più alto registrato negli ultimi trenta anni.
Nell’articolo pubblicato da Alessandro Sperandio viene sottolineato che questa cifra risulta superiore al target di produzione iniziale di 1.173 milioni (quello concordato con la British Petroleum nel contratto originale del 2008), purtuttavia ancora ben al di sotto dell’obiettivo prefisso, pari a 2.850 milioni di barili al giorno, seppure il target rinegoziato sia di 2,1 milioni di barili.
Nonostante il campo sia operativo da molti anni, le stime effettuate dall’Agenzia Internazionale dell’energia (AIE) indicano che i siti in oggetto disporrebbero ancora di un 55% di risorse recuperabili, una quantità che sarebbe pari a 35 miliardi di barili.
Tre sarebbero i siti estrattivi divenuti oggetto di particolari attenzioni: Rumaila, West Qurna 1 e Gharraf. Gli analisti e i vertici del ministro del petrolio non escludono comunque un ampliamento dello spettro delle possibilità, includendo tra di esse anche futuri nuovi siti.
In ogni caso, al pari del resto della maggior parte dei giacimenti petroliferi iracheni, il costo di produzione del greggio permane tra i minori al mondo, praticamente equivalente a quello estratto nella confinante Arabia Saudita.
L’aumento della produttività dei siti estrattivi ottenuta negli ultimi anni sarebbe frutto dell’intervento di operatori esteri, soprattutto BP e China National Petroleum Corporation (CNPC) attraverso PetroChina, che si sarebbero impegnati in una serie di investimenti nel Paese arabo.
Soltanto nel 2018 sono stati perforati trentuno nuovi pozzi, mentre gli interventi sulle componenti idriche (come il trattamento e la iniezione per l’aumento della pressione nei serbatoi) hanno contribuito sensibilmente ai risultati.