Riyadh si è vista costretta a rischierare parte delle proprie forze a causa del vuoto venutosi a creare nello Yemen, paese confinante con l’Arabia Saudita dove ormai da anni è in corso un devastante conflitto esploso con le forme della guerra civile, ma che in realtà è una proxi war che coinvolge le maggiori potenze regionali e i loro alleati.
Così come in Siria, Iraq e Libia e così come potrebbe essere in Libano o nel Golfo Persico, dove la tensione è aumentata sensibilmente nelle ultime settimane a causa dell’inasprirsi del confronto tra gli Stati Uniti d’America e l’Iran.
Adesso è tutta la regione estesa a essere a rischio conflitto, con conseguenze imprevedibili. Un pericolo che, visti anche gli ultimi episodi verificatisi nelle acque del Golfo Persico, aleggia sulle teste di tutti, ma in primo luogo della prima fascia di paesi che si affacciano sul quello strategico budello marino, cioè i piccoli sultanati ed emirati.
Sono loro, infatti, che avrebbero più da perdere qualora l’amministrazione Trump decidesse di dar fuoco alle polveri o – sarebbe equivalente – qualcuno degli attori coinvolti nel confronto perdesse il controllo della situazione e facesse una mossa sbagliata.
E allora sceicchi ed emiri scrutano con sempre maggiore preoccupazione quello stretto braccio di mare che li separa dalle coste dell’Iran, da dove tutto potrebbe cominciare, in un modo o nell’altro.
Un braccio di mare stretto, tuttavia trafficato all’inverosimile nonostante tutto da petroliere, gasiere, navi cargo e unità delle varie marine militari che incrociano in quelle acque, sia dei paesi rivieraschi che di altri.
Come la US Navy, che per ordine di Washington ha incrementato il suo dispositivo di proiezione nella regione del MENA (Medio Oriente e Nord Africa).
Eppoi la componente navale dello Sepāh-e pāsdārān-e enghelāb-e eslāmi, i «Guardiani della Rivoluzione», custodi della Repubblica Islamica figlia dell’ayatollah Khomeini, che con i loro ormai noti “barchini” scientemente (mai per caso) compiono le loro azioni di disturbo contro avversari sempre più grandi di loro.
L’ultima volta con la Royal Navy britannica, con la quale sono giunti vicini allo scontro armato.
Ad Abu Dhabi hanno capito che aria tira e hanno cercato di correre ai ripari, richiamando quel dispositivo militare che, stimolati dal nuovo corso politico degli al-Saud, in precedenza avevano spedito nello Yemen a combattere contro i ribelli Houti di credo sciita alleati di Teheran.
Una guerra devastante e senza fine, che ha portato un Paese già povero di suo alla catastrofe umanitaria, con oltre 60.000 morti dal 2016 e la totale distruzione delle già scarse infrastrutture, scuole, ospedali e fabbriche.
Ebbene, gli emiratini, che costituivano una componente “chiave” nell’ambito della coalizione militare costruita dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, hanno sensibilmente ridotto la consistenza del loro dispositivo nello Yemen.
Un processo già avviato sulla base di una pianificazione in atto, si sono affrettati a dichiarare per giustificare il loro disimpegno, aggiungendo di voler sostenere la transizione dal conflitto alle trattative di pace.
In effetti si tratta di un provvedimento annunciato, seppure attraverso voci di corridoio e dichiarazioni ufficiose trapelate da ambienti diplomatici, poiché il ridimensionamento dello sforzo bellico degli EAU nello Yemen è iniziato già più di un mese fa.
Di conseguenza Riyadh si è vista costretta a colmare il vuoto apertosi a causa del ritiro dei suoi alleati e per farlo ha dovuto rischierare parte delle proprie forze armate nella zona del Mar Rosso e nello stretto di Bab el-Mandeb, nell’isola di Perim.
Militari yemeniti e sauditi hanno così preso il comando delle basi nei porti di al-Mokha (346 chilometri a sud della capitale Sana’a) e al-Khokha, che gli emiratini avevano utilizzato nel corso delle loro operazioni nella città costiera di Hudaydah.
Questo avviene mentre il Qatar inaugura (la notizia è di oggi) la sua più grande base navale della Guardia costiera.
Il primo ministro Abdullah bin Nasser bin Khalifa al-Thani e il comandante delle forze navali degli Usa in Medio Oriente, il vice ammiraglio Jim Malloy, hanno partecipato alla cerimonia d’inaugurazione ad al-Daayen, a circa trenta chilometri dalla capitale Doha.
Malloy – comandante della V flotta degli Stati Uniti che attualmente ha sede in Bahrein – ha affermato che la nuova base rappresenta «una meravigliosa opportunità per meglio interfacciarsi con la guardia costiera del Qatar». Il sito – ha twittato un portavoce del ministero dell’interno qatarino -, della grandezza di oltre 600.000 metri quadrati, è stato concepito per «facilitare la messa in sicurezza di tutte le acque territoriali dello Stato».
La base comprende un sofisticato porto marittimo, strutture di formazione e mediche, uffici di difesa civile e sale operative.
Nelle acque del Golfo persico transita circa un terzo del petrolio prodotto al mondo.