Secondo l’inchiesta giornalistica di Hagar Shezaf pubblicata dal quotidiano progressista israeliano “Haaretz”, dall’inizio dell’ultimo decennio alcuni dipendenti del Dipartimento Malmab del ministero della Difesa avrebbero effettuato accurate ricerche negli archivi allo scopo di rimuoverne successivamente, occultandoli, i documenti storici in grado di provare la cosiddetta «Nakba», termine che in lingua araba è possibile tradurre in «catastrofe» e che dal 1948-49 viene utilizzato dai palestinesi per indicare la perdita della loro terra.
Si tratta di informazioni delle quali era già stata decisa la declassificazione di segretezza da parte della censura di Stato.
La versione ufficiale sul conflitto che nel 1948-49 portò all’indipendenza Israele iniziò a essere messa in discussione a partire dai primi anni Ottanta dalla nuova generazione di storici definiti «nuovi storici» oppure «revisionisti», che annoverava studiosi come Avi Shlaim, Benny Morris e Ilan Pappe.
Nei documenti storici, che alcuni evidentemente ritengono essere insidiosi, potrebbero portare a un parziale messa in discussione della versione che vede lo Stato ebraico nascere non soltanto sulla base di una vittoriosa guerra difensiva e sulla cessione di terre dietro il pagamento di un corrispettivo in denaro, bensì grazie alla fuga dei Palestinesi indotta dagli ebrei mediante ostilità dirette nei loro confronti.
Risultanze dei documenti che nell’inchiesta di Shezaf si asserisce qualcuno voglia far sparire perché scomodi alla vulgata corrente, che non contempla lo spopolamento in sei mesi di 500 villaggi palestinesi per complessive 750.000 persone.
In realtà, la pubblicistica mondiale negli anni a seguire ha avuto modo di attingere queste informazioni da altre fonti non israeliane, resta il fatto che un operazione del genere – l’occultamento di documenti storici – resta in ogni caso preoccupante.
Lo “scoop” originerebbe dal ritrovamento avvenuto quattro anni or sono a opera dello storico ebreo Tamar Novick di un documento risalente al 1948 rinvenuto nel fascicolo relativo a Yosef Vashitz, custodito nell’Archivio Yad Yaari a Givat Haviva.
Vashitz in passato aveva lavorato in veste di funzionario presso il Dipartimento Arabo del partito politico israeliano Mapam.
Nel documento in questione si descrive dettagliatamente un’operazione che oggi non si avrebbe difficoltà nel definirla di «pulizia etnica». Esso tratta dell’eccidio di Safsaf, un villaggio palestinese nei pressi di Safed che oggi non esiste più, dove «52 uomini sono stati catturati e legati l’uno all’altro, è stata scavata una fossa e gli si è sparato».
Poi prosegue con le donne che imploravano pietà: «Trovati i corpi di sei uomini anziani. C’erano sei corpi. Tre casi di stupro, uno a est di Safed, una ragazza di quattordici (…) quattro uomini uccisi, uno hanno tagliato il dito con il coltello per prendergli l’anello».
Nelle medesime carte vengono quindi descritti altri massacri, saccheggi e abusi a danno dei palestinesi, come il grande raid di Sasa, in Galilea, dove il Palmach fece esplodere venti abitazioni di palestinesi a scopi esclusivamente intimidatori.
Altre testimonianze occultate parlano dell’espulsione violenta dei beduini dell’area di Mohila cacciati dai militari israeliani nel 1956.
La denuncia lanciata dal quotidiano progressista di Tel Aviv è quella della progressiva inaccessibilità degli archivi storici israeliani, finalizzata alla messa in discussione della Nakba così come è davvero stata, anche per eventualmente negare quel “diritto al ritorno” dei profughi e dei loro discendenti ai quali i Palestinesi fanno da sempre riferimento, anche nel tentativo di inserirlo nelle agende negoziali quando queste riescono essere discusse.
Un diritto al ritorno che però metterebbe demograficamente in discussione l’esistenza stessa di Israele.