AFRICA, Mali. Conflitti etnici, strage di dogon nella regione di Sangha

Un tragico regolamento di conti sarebbe alla base dell’eccidio perpetrato da elementi del gruppo seminomade dei fulani, tuttavia, le modalità dell’azione criminale assumerebbe i contorni della pulizia etnica. Cause dell’instabilità del Paese africano

Un sanguinoso attacco tribale è stato perpetrato nella notte nel Mali centrale da elementi dell’etnia fulani (note anche come peul), il bilancio è di un centinaio di morti e il villaggio è stato raso al suolo.

Luogo della strage Sobane-Kou, piccolo centro non lontano dalla città di Sangha, zona popolata dall’etnia dogon, rivale atavica della fulani. La causa di questo assalto – che si configura nelle forme di una vera e propria azione di pulizia etnica – sarebbe da ricondurre a un regolamento di conti tra i due gruppi, poiché in precedenza un villaggio della regione centrale del Mopti, abitata da fulani, aveva subito a sua volta un attacco per mano dogon.

 

Contrasti etnici. Il 23 marzo scorso nei villaggi di Ogossagou e Welingara un gruppo di uomini armati aveva trucidato oltre centosessanta persone, tutte di etnia fulani. In seguito le autorità locali attribuirono le responsabilità della strage ai cacciatori tradizionali dozo della milizia di autodifesa Dan na ambassagou, costituita nel 2016 quale espressione dell’etnia dogon.

La formazione paramilitare era stata precedentemente armata dall’esercito maliano, che a partire dal 2012 supportava nell’azione di contrasto dei gruppi jihadisti e dei separatisti tuareg.

Secondo Bamako anche quella carneficina  andava considerata come una rappresaglia per un altro attacco, che era stato sferrato una settimana prima contro una base dell’esercito nel villaggio di Dioura da alcuni militanti di etnia fulani appartenenti al Gruppo per il sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) – “maglia” dell’attuale rete saheliana di al-Qaeda -, azione che aveva provocato la morte di ventitré militari.

Si era trattato dell’episodio più grave registrato nel corso delle ripetute violenze che avevano piagato il Paese africano, spesso alimentate dai gruppi jihadisti al fine di espandere la loro influenza nell’Africa occidentale.

Per contenere la reazione rabbiosa dei fulani il presidente Ibrahim Boubacar Keita rimosse il capo di stato maggiore dell’esercito, generale M’Bemba Moussa, e il parigrado Abdenahmane Baby, disponendo inoltre lo scioglimento della milizia Dan na ambassagou, provvedimenti che, tuttavia, non hanno posto fine alle violenze.

I fulani sono una comunità seminomade i cui membri vivono principalmente di caccia e pastorizia, quindi nelle loro lunghe transumanze contendono i terreni dove far pascolare le loro greggi e l’acqua potabile ai dogon, che invece sono stanziali e dediti all’agricoltura.

Un’altra fonte di contrasti deriva poi dal reclutamento di alcuni appartenenti all’etnia fulani da parte di alcuni gruppi jihadisti attivi nella regione, aspetto che alimentato la tensione non soltanto con i tradizionali nemici dogon, ma anche con altre minoranze, quali i bambara, che ha organizzato delle milizie di autodifesa.

La regione centrale del Mopti era una regione agricola prospera, nei primi anni dell’indipendenza del Mali (ottenuta nel 1960) era considerata il cuore economico del paese, poiché attraverso la vendita all’estero dei suoi prodotti Bamako ricavava ben oltre il 30% dei proventi complessivi derivanti dall’esportazione.

Ma le ondate di siccità che afflissero il Paese negli anni Settanta colpirono duramente l’economia locale, al punto da farla classificare (siamo alla metà degli anni Ottanta)  «zona a elevato livello di insicurezza alimentare», con gli annessi pericoli dell’insorgere di ribellioni in assenza di interventi delle pubbliche autorità.

Questo non si verificò, al contrario, le politiche di sviluppo dell’agricoltura sedentaria decise a Bamako stravolsero i già fragili equilibri tra gli allevatori (per lo più fulani o tuareg), gli agricoltori e i cacciatori (bambara o dogon) e i pescatori (Bozo). Alla metà degli anni Novanta, la regione del Mopti era la più povera del Paese, quindici anni dopo permaneva la meno elettrificata e meno scolarizzata. Con il divampare del conflitto al nord, poi, è stata ulteriormente abbandonata a sé stessa.

Se i contrasti che oppongono i dogon ai fulani sono risalenti nel tempo, oggi hanno però trovato un recente alimento nella frustrazione e nel risentimento dei secondi per l’atteggiamento del governo centrale di Bamako, che ignora le loro rivendicazioni.

A questo punto, i gruppi jihadisti attivi in Mali hanno abilmente sfruttato il malcontento e le incessanti violenze inserendosi nella contesa per strumentalizzarla a loro favore, promettendo giustizia e protezione alle deboli comunità fulani, attraendole così verso il radicalismo islamista.

Gli attacchi armati contro i civili sono ormai all’ordine del giorno, dall’inizio del 2019 le vittime si contano a centinaia. Da qualche anno nel Paese alle ostilità tra fazioni tribali si è aggiunta l’attività dei gruppi armati jihadisti, che combattono il governo di Bamako, che vorrebbero rovesciare.

 

L’escalation della violenza e la criminalità. Al pari del confinante Burkina Faso e di altri Paesi africani della regione, anche il Mali è impegnato da tempo in una missione di contrasto del terrorismo islamista, missione che è ben lungi dall’essere terminata.

Tuttavia, questi stati sono tra i più poveri del mondo e non sono assolutamente in grado di conseguire il difficile obiettivo, pervenendo alla sconfitta definitiva dei gruppi armati legati ad al-Qaeda e al sedicente Stato islamico che sono attivi nella regione.

In questo senso, l’annunciata contrazione della presenza militare statunitense nel Sahel è destinata a incrementare la minaccia alla sicurezza e alla stabilità in una fase di espansione del radicalismo salafita in Africa occidentale. Trump ha infatti deciso una riduzione del dispositivo schierato dal Pentagono, 7.200 militari americani schierati soprattutto in Somalia, Niger, Nigeria, Camerun e Libia.

Si assiste a un’estensione dei focolai di violenza oltre le (per altro impercettibili) frontiere maliane, con l’accendersi di focolai di crisi nel vicino Burkina Faso, dove i gruppi jihadisti hanno contribuito a provocare un’emergenza umanitaria che rischia di espandersi al Ghana, Benin e Togo.

Un altro fenomeno registrato in costante aumento è il traffico di droga, in particolare cocaina, dei cui proventi beneficiano i gruppi jihadisti, coi conseguenti rischi di una massiccia espansione del salafismo nell’Africa occidentale.

L’Africa Occidentale dall’inizio degli anni Novanta ha conosciuto un aumento esponenziale dei traffici di stupefacenti, dinamiche che hanno stravolto il quadro generale dei rapporti nella maggior parte degli stati direttamente o indirettamente interessati da esse.

La transnazionalizzazione spinta, frutto del processo di globalizzazione, unitamente ad altre cause, ha favorito i passaggi attraverso il continente africano di tonnellate di stupefacenti. L’eroina proveniente dal maggiore produttore mondiale di oppio, l’Afghanistan, arrivava soprattutto attraverso il Kenya e la cocaina dai Paesi latinoamericani (soprattutto Perù, Colombia e Bolivia). Un trampolino verso i mercati europei utilizzato oggi anche per il traffico di esseri umani.

Ingenti carichi di cocaina colombiana venivano scaricate sulle coste atlantiche della Guinea e della Guinea Bissau, per poi, attraverso il Sahel, raggiungere le coste mediterranee e quindi l’Europa e i mercati orientali.

I giganteschi proventi derivati dal traffico di cocaina hanno modificato le strutture criminali locali mettendo in discussione gli equilibri preesistenti, un fenomeno che non ha mancato di includere i clan e le tribù.

L’attacco militare occidentale (anglo-francese) alla Libia di Gheddafi ha poi compromesso definitivamente i precari equilibri in quel momento ancora in essere, con effetti che si sono riflessi immediatamente sul vicino Sahel.

Ed ecco il sorgere e l’affermarsi di tutta una serie di attori in parte già presenti nella regione, in parte nata o sopraggiunta a seguito del “buco nero” venutosi a creare:  Tuareg e Tobu, ribelli di varia natura, confederazioni tribali, milizie di ogni genere e risma, jihadisti dell’AQMI (al-Qaeda nel Maghreb islamico) e, infine, Islamic State con le sue mortifere emanazioni.

Nell’autunno del 2015 la capitale maliana viene colpita da una serie di attentati terroristici, poi alcuni mesi dopo, il 15 gennaio 2016, è la volta di Ouagadougou, in Burkina Faso, dove a essere attaccato dagli jihadisti di AQMI è l’Hotel Splendid.

La strategia è chiara: destabilizzare i governi locali allo scopo di porsi successivamente come interlocutori redistribuzione delle quote di influenza e di potere.

AQMI – evoluzione del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (GSPC), formazione resasi protagonista nel corso della sanguinosa guerra civile algerina –, servendosi del messaggio jihadista, mira alla regionalizzazione del conflitto allo scopo di indebolire e poi abbattere gli stati della regione, sostituendosi quindi a essi e ottenendo in questo modo l’accesso alle risorse oggi gestite da questi ultimi.

 

L’interventismo francese. Guidata dalla sua strategia finalizzata al controllo delle materie prime energetiche e del ciclo completo dell’uranio, la Francia è intervenuta pervasivamente anche servendosi del suo strumento militare sia in Africa centrale che in parte del Maghreb.

La decisione di inviare un contingente di truppe nel Mali viene presa dal presidente Françoise Holland nel gennaio 2013. La missione (denominata “Serval”) – si auspica – avrà una natura esclusivamente militare e una durata relativamente breve, il suo scopo sarà quello dell’annientamento dei gruppi armati qualificati come «jihadisti» e della distruzione delle loro basi logistiche.

Dopo alcuni mesi a Parigi ci si rende conto che le cose non vanno così come era stato previsto, dunque – e siamo nell’agosto 2014 – si sostituisce la preesistente missione con una nuova, l’operazione “Barkhane”, che, a fronte di risorse non del tutto adeguate allo scopo, viene comunque conferito mandato e competenze di respiro regionale.

I francesi si sovraespongono sul piano militare e il loro strumento bellico inizia a incontrare crescenti difficoltà. Gli impegni sono eccessivi, è quindi giocoforza il ricorso obbligato alla condivisione degli sforzi militari di altri paesi.

Viene costituita una forza regionale, il G5 Sahel, alla quale contribuiscono Mauritani, Ciad, Niger, Burkina Faso e Mali.

Ma nonostante alcuni risultati ottenuti sul campo, l’azione internazionale non porta al conseguimento di significativi risultati nel Mali.

I negoziati intavolati dalle varie fazioni armate e il governo di Bamako subiscono degli alti e bassi, fino agli Accordi di pace siglati ad Algeri nel 2015, nei quali si previde la concessione di una crescente autonomia alle province a maggioranza tuaregh del nordest che, tuttavia, Bamako non avrebbe mai implementato.

Terrorismo e guerriglia sarebbero proseguiti, con essi gli scontri etnico-tribali.

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