Trenta morti e centinaia di feriti e il provvisorio bilancio della sanguinosa repressione militare della protesta dall’opposizione a Khartoum dopo la deposizione del presidente Omar al-Bashir, che era al potere dal 30 giugno 1989.
I soldati sudanesi hanno assaltato i cittadini che da mesi avevano organizzato un sit-in di fronte al comando supremo dell’esercito che ha sede nella capitale, per chiedere il rapido passaggio dei poteri dalle mani delle forze armate dopo che erano stati sospesi negoziati con i vertici del Consiglio militare transitorio (Tmc), la “giunta di salute pubblica” capeggiata dal generale Abdel Fattah al-Burhan.
L’opposizione raccoltasi nelle Forze per la dichiarazione della libertà e del cambiamento (Dfcf) hanno lanciato un appello alla popolazione sudanese affinché prenda parte in massa allo sciopero generale e alle altre azioni di disobbedienza civile che verranno poste in essere, questo allo scopo di indurre la comunità internazionale a non riconoscere quello che l’opposizione definisce un vero e proprio colpo di stato.
Essa chiedeva inoltre che i militari rivestano un peso minore all’interno dell’organo di rappresentanza che dovrebbe essere (se non si assisterà a ulteriori derive autoritarie) il nuovo governo che guiderà il Paese.
In giornata – per bocca del presidente della sua Commissione Moussa Faki Mahamat – è giunta la condanna dell’Unione africana, associata all’invito alla moderazione rivolto ai militari sudanesi, che «devono proteggere i civili da ulteriori sofferenze», nonché a procedere a «un’indagine immediata e trasparente sulle notizie di uccisioni e ferimenti».
Negli ultimi mesi nel Paese è andato sviluppando un clima di crescente tensione, generato dalla difficile trattativa, poi fallita, che era stata intavolata dai militari e dall’opposizioni allo scopo di addivenire alla formazione di un governo provvisorio che possa portare il Sudan fuori dallo stallo politico ed economico seguito alla deposizione di al-Bashir.
Dal 22 febbraio vige lo stato di emergenza in tutto il Paese, che conferisce maggiori poteri alle autorità militari e alle forze di sicurezza nel controllo e nel mantenimento dell’ordine pubblico, quindi anche della repressione più brutale.
È una situazione oggettivamente critica, che ha conosciuto un peggioramento alla metà del mese scorso, quando il giorno 13 maggio, a seguito di un tentativo delle forze di sicurezza di disperdere con la forza l’assembramento di fronte al quartier generale, si erano verificati gravi incidenti e i manifestanti avevano eretto barricate nelle strade della capitale.
La giunta militare negò ogni responsabilità in ordine alla morte di sei dimostranti avvenute nel corso dei tumulti di piazza. L’esercito aveva tentato di discolparsi, accusando degli spari ad altezza d’uomo alcuni presunti «infiltrati vicini al passato regime», soggetti contrari al processo di transizione in atto.
Tuttavia, numerose testimonianze oculari riferirono delle responsabilità dei militari delle Rapid support forces (Rsf), unità speciale comandata dal vicepresidente della giunta militare che è diretta evoluzione dei famigerati janjaweed, che nel passato su ordine di al-Bashir terrorizzarono il Darfur.
Quali possono essere dunque le prospettive future? Esiste il fondato rischio che i militari, esasperando gli animi e della popolazione, mirino a un’escalation della tensione che porti a una situazione insostenibile sul pino dell’ordine pubblico a causa dei disordini di piazza, una situazione ottimale per coloro i quali vorrebbero optare per una “normalizzazione” forzata del Paese.
Va infatti ricordato che nella nel Darfur, sui monti Nuba , nella regione del Nilo Blu e nel South Kordofan sono ancora attivi dei movimenti armati, oltre alla maggiore formazione armata di opposizione, il Movimento di Liberazione Popolare del Sudan del Nord (SPLM-N) impegnato nella guerriglia contro il governo di Khartoum.
I movimenti di opposizione armata hanno formato una coalizione, il Sudan revolutionary front (Srf), che aderisce alla rete Sudan Call, a sua volta firmataria del manifesto delle Dfcf.
Una situazione resa ancor più complessa dalla molteplicità dei gruppi etnici presenti sul territorio, il più numeroso dei quali è quello arabo (circa il 70% del totale della popolazione) seguito da altri gruppi come i baggara, i fur, i nuba e i fallata.
Sul piano delle religioni i musulmani sunniti sono il 96% del totale, mentre i cattolici il solo il 3%, in massima parte sudsudanesi emigrati. Da trentasei anni nel Paese vige la legge islamica, con la Fratellanza musulmana che si è vista promotrice di una campagna di arabizzazione della popolazione. Le minoranze, con le loro diversità culturali e linguistiche, non vivono una condizione di pluralità, poiché il regime di Khartoum ha imposto l’omologazione.
La libertà di espressione è limitata dall’esistenza di una legislazione che ne garantisce l’esercizio solo entro determinati limiti. Si registrano inoltre episodi di censura della stampa.
L’economia, che già versava in condizioni critiche negli ultimi mesi del regime di al-Bashir, ha risentito notevolmente dello stallo nella transizione del potere. Il valore della sterlina sudanese è sceso nei confronti del dollaro e i beni di prima necessità scarseggiano. Inoltre, la secessione del Sud Sudan ha privato Khartoum dei precedenti proventi petroliferi. Le condizioni di estrema precarietà depongono quindi a sfavore della giunta militare.
Alla luce di questa difficile situazione si cerca dunque di pervenire una diversificazione strategica dell’economia, basandola sulla produzione aurea, l’allevamento del bestiame e la produzione della gomma arabica, della quale il Paese africano è primo produttore mondiale.
Esistono però delle carenze difficilmente colmabili, come la mancanza di know how che affligge i processi di trasformazione, oltre a una limitata capacità di sviluppo dell’indotto legato ai citati settori produttivi che dovrebbero configurarsi come trainanti nel processo di diversificazione.
Ma – si ritiene – fino a quando diversificazione economica, incentivazione del settore manifatturiero e del terziario non si ripercuoteranno sulla crescita, il sistema Paese continuerà a non essere economicamente sostenibile.
Le sanzioni che erano state imposte dagli Usa sono state temporaneamente sospese nell’ottobre 2017, nel quadro di una più ampia negoziazione a livello bilaterale tra Washington e Khartoum. Ma il Sudan resta ancora incluso nella lista nera dei paesi che supportano il terrorismo, fatto che lo esclude da non pochi benefici finanziari a livello internazionale.
In questa complessa fase, Khartoum cerca allora di mantenere solidi rapporti con i paesi vicini, contribuendo in questo modo al mantenimento della precaria stabilità regionale.
Le relazioni con i Paesi del Golfo, in particolare con la monarchia saudita, permangono salde, sono fondamentali per il Sudan sia sotto il profilo economico-commerciale sia sotto quello politico-militare, anche perché per i suoi partner del Golfo il Sudan rappresenta una base per lo sviluppo di relazioni commerciali e investimenti nel continente africano.
Significativa inoltre la presenza economica in Sudan dei paesi asiatici, soprattutto della Cina Popolare, con i loro investimenti nei settori infrastrutturali, agricolo e agro-alimentare.
Ma l’economia fatica a stabilizzarsi dopo la secessione del Sud Sudan avvenuta nel 2011, in seguito alla quale è venuta meno la maggior parte dei proventi derivanti dalle esportazioni di petrolio (75%) e oltre la metà delle entrate fiscali, mentre dal 2018 il Paese si è avvitato in una fase inflattiva, dove è volatile il tasso di cambio e c’è crisi di liquidità.