AFGHANISTAN, terrorismo. Talebani e “Islamic state” fanno strage a Kabul

Nella capitale afghana autobomba degli “studenti islamici” contro un convoglio militare Usa: quattro morti tra i civili afghani. Poi a entrare in azione sono stati gli orfani del “califfato” di al-Baghdadi, che hanno ucciso altre sei persone. Gli attacchi sono stati compiuti mentre una delegazione talebana si trovava a Mosca a negoziare con gli esponenti del governo di Kabul

La capitale dell’Afghanistan è stata nuovamente sconvolta dal terrorismo stragista. Due gli attentati, la cui paternità è per uno di Islamic state e per l’altro, invece, dei talebani.

Venerdì mattina un’autobomba è stata lanciata contro un convoglio militare americano provocando il ferimento di quattro soldati e la morte di almeno quattro civili afghani, la rivendicazione dell’attacco è stata dei talebani.

Sempre ieri, in un altro attentato rivendicato stavolta dallo “Stato islamico”, hanno invece perso la vita almeno sei persone. Dopo la perdita delle posizioni in Iraq e Siria, gli jihadisti dello Stato Islamico del Khorasan (questa la denominazione del ramo locale dell’organizzazione) cercano una nuova presenza nella regione.

Il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha dichiarato che l’azione era diretta contro un convoglio di «alti consulenti stranieri» e che «ha provocato dieci vittime». Tutto questo è accaduto in una fase nella quale vengono profusi intensi sforzi sul piano diplomatico al fine di avviare un processo di pace per porre così termine al lunghissimo conflitto che ha completamente dilaniato il Paese.

Non è quindi casuale (solitamente il timing del terrorismo non lo è mai) che le stragi di Kabul siano state compiute proprio mentre una delegazione talebana si trovava a Mosca per negoziare con gli esponenti del governo afghano.
Ma qual è la situazione nel Paese?

Attualmente, né i talebani né il governo di Kabul sono in grado da soli di assumere un pieno controllo del territorio afghano, quindi per giungere a una qualche forma di pacificazione del paese le parti dovrebbero necessariamente pervenire a un’intesa.

D’altro canto, le forze Nato sono presenti in Afghanistan da diciotto anni e fino ad ora non sono riuscite mai ad avere definitivamente ragione della guerriglia e del terrorismo islamista, dunque non si comprende come potrebbero farlo ora con un dispositivo militare sul terreno di quindicimila uomini.

Ma se i talebani non potranno venire estirpati le alternative possibili saranno soltanto due: mantenere la situazione così com’è ora (o magari aspettarsi che si deteriori ulteriormente) oppure proseguire nei negoziati.

Nel paese centrasiatico sono ancora presenti sia i militari Usa che quelli della missione Nato “Resolute Support”, uno schieramento che è stato mantenuto seppure con una sensibile contrazione degli organici rispetto al passato, dato che ai tempi della presidenza Obama sul terreno c’erano 150.000 uomini, mentre oggi ce ne sono rimasti soltanto poco più di diecimila.

Se i talebani controllano in vario modo quasi la metà del territorio afghano, il governo di Kabul non ne controlla neppure la metà rimanente, poiché ha informato la sua strategia al principio del concentramento delle forze laddove i luoghi sono maggiormente difendibili, quindi ritirandole dalle zone periferiche per rischierarle nei centri urbani, coI risultato di abbandonare nelle mani del nemico ampie porzioni del Paese.

Dal canto loro, gli «studenti islamici» (che mantengono un loro ufficio di rappresentanza in Qatar), oltre a esprimere relative capacità militari sul campo di battaglia, negli ultimi anni hanno iniziato a giocare con disinvoltura su diversi tavoli negoziali.

Dapprima con Stati Uniti, Pakistan ed esponenti del governo di Kabul, poi, separatamente, anche con Russia e Cina, cioè i diretti competitor di Washington non soltanto nella regione ma (almeno per quanto concerne Pechino) su scala globale.

In questo senso la decisione annunciata dal presidente americano Trump alla fine del dicembre scorso di ritirare le proprie truppe dal Paese asiatico ha sparigliato in parte le carte, ingenerando al contempo timori sia a Kabul che tra gli alleati della Nato.

Gli alleati occidentali di Washington furono colti di sorpresa dalla decisione della Casa Bianca di ridurre il proprio dispositivo militare, anche perché la Nato non era stata minimamente resa partecipe del processo decisionale americano, e dunque si muoveva sulla scorta dell’impegno al sostegno del governo afghano confermato pochi mesi prima al vertice alleato di Bruxelles del giugno 2017.

Una mossa, quella del presidente repubblicano, che era per altro in contraddizione con l’orientamento nel senso di un potenziamento del dispositivo in Afghanistan assunto un anno prima su consiglio dei militari del Pentagono.

In assenza di un concreto accordo quadro con i talebani non è dunque pensabile l’applicazione – ammesso che sia stata realmente stabilita – di una time line relativa al ritiro delle forze.

Una intesa dovrebbe prevedere alcuni punti fondamentali, in primo luogo che i talebani non utilizzino più il territorio afghano come piattaforma per il terrorismo all’estero, poi anche la previsione (magari esclusivamente formale) del rispetto dei diritti umani nel Paese.

Gli attentati terroristici dimostrano l’assenza di coesione interna al campo talebano e tra questo e l’universo dei warlords locali dediti a traffici di varia natura, a cominciare da quelli dell’oppio e dai suoi derivati, stupefacente del quale l’Afghanistan è il primo produttore al mondo e che in quelle terre aspre è possibile coltivare con estrema facilità.

Un ritiro di Washington in poco tempo trascinerebbe con sé anche quello di numerosi altri contingenti militari di altri paesi Nato attualmente parte del dispositivo multinazionale, che si troverebbero privati dell’indispensabile supporto americano nei settori dell’intelligence (si pensi soltanto all’importanza dei satelliti ai fini dell’osservazione) e del trasporto aereo strategico.

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