L’allarme lavoro nero in agricoltura è stato lanciato oggi dal presidente dell’Inps Pasquale Tridico, che ha proposto l’istituzione di una task force di ispettori da impiegare in collaborazione con le forze dell’ordine e la magistratura nel contrasto del fenomeno.
Questa verrebbe dotata di una dotazione di strumenti tecnologici come i droni (velivoli senza pilota) allo scopo di effettuare meglio i controlli sugli appezzamenti di terreno coltivati e sulla loro redditività.
Tridico si è espresso in questo senso nel corso di una sua audizione alla Camera dei Deputati, dove ha inoltre specificato che «la situazione è drammatica» e che «il caporalato è un problema di criminalità organizzata, non solo di lavoro irregolare».
Egli ha infine sottolineato che tra il 2016 e il 2018 l’ente che presiede ha accertato 93.700 rapporti di lavoro fittizi nel settore primario, «si tratta di numeri impressionanti – ha poi commentato -, che si concentrano al sud ma non solo, poiché dal 2011 c’è un aumento del fenomeno molto forte anche al centro e al nord, ma soprattutto una forte correlazione tra tasso di criminalità e caporalato».
Intanto, in Trentino la Guardia di Finanza ha stroncato una rete di sfruttamento del lavoro in alcune regioni settentrionali. Si tratta dell’operazione «oro verde», condotta dalle Fiamme gialle di Riva del Garda e dai funzionari della vigilanza Inps di Brescia.
Le indagini: operazione «oro verde». Le indagini sono iniziate nel settembre 2017 a seguito di una normale attività di controllo del territorio effettuato dalla polizia comunale di Alto Garda e Ledro risalente al settembre del 2017, durante il quale vennero identificati dei cittadini stranieri, indiani e africani, fermati per la strada dopo che avevano lavorato in un terreno agricolo coltivato a ulivi presso l’abitato di Tenno.
Gli extracomunitari, venticinque persone malvestite, denutrite e in precarie condizioni igieniche e di salute, si trovavano letteralmente stipati a bordo di due furgoni dei loro “caporali”.
I vigili urbani del posto avevano immediatamente chiesto il supporto della locale tenenza della Guardia di Finanza, che a sua volta ha interessato anche l’ispettorato dell’Inps.
Dopo aver identificato i venticinque stranieri, le Fiamme gialle di Riva del Garda hanno quindi proseguito le attività investigative interessando anche gli uffici ispettivi Inps di Brescia, coordinati dalla Direzione regionale Lombardia dell’ente previdenziale.
La competenza degli uffici lombardi – nonché delle Procure della Repubblica di Rovereto e Brescia, che ha successivamente assunto la direzione delle indagini – è derivata dalle dichiarazioni rese nell’immediatezza del fermo dagli extracomunitari, che hanno affermato di provenire dal Bresciano.
Le indagini, durate meno di due anni, hanno portato alla denuncia di tre persone per il reato di sfruttamento aggravato della manodopera e alla scoperta di oltre duecento lavoratori irregolari e in nero.
Gli accertamenti in materia di diritto del lavoro e previdenziale hanno evidenziato che soltanto sei dei venticinque lavoratori risultavano (formalmente) impiegati regolarmente, mentre dei restanti diciannove non era stato effettuato l’invio telematico al Ministero del Lavoro della preventiva comunicazione obbligatoria di instaurazione del rapporto di lavoro, il cosiddetto “Modello Unilav”.
Tutte queste persone venivano impiegate in attività agricole in assenza di tutele previdenziali e contributive. Uno di essi, peraltro, era privo del permesso di soggiorno, nonché destinatario di un provvedimento di espulsione dal territorio dello Stato italiano, in quanto irregolarmente presente. Gli investigatori sono risaliti ai presunti responsabili dell’attività di caporalato, individuati in tre persone, tutte incensurate quindi insospettabili. Si tratta di un cittadino indiano di ventinove anni residente nella provincia di Brescia (titolare di un’impresa di copertura formalmente attiva nel settore del supporto alle aziende e della pubblicità), del suo consulente del lavoro, di un bresciano di sessantasette e dell’utente finale della manodopera agricola a buon mercato, un trentino di trentasei anni proprietario dei terreni nella zona di Riva del Garda.
Gli uffici ispettivi lombardi dell’Inps avevano già “attenzionato” il consulente del lavoro nell’ambito di autonome attività ispettive a causa di numerose anomalie di natura contributiva, quindi, grazie allo scambio informativo intercorso, i militari della Tenenza di Riva del Garda sono stati in grado di ricostruire il modus operandi dell’intermediario, non solo con l’agricoltore rivano, ma anche con numerose aziende agricole di Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte.
Il meccanismo del caporalato in Trentino. Lo schema applicato non è lo stesso delle regioni dove è forte la presenza della criminalità organizzata, che si appoggia a “caporali” locali per rifornire i proprietari di terreni agricoli che hanno bisogno di una massa di manodopera concentrata nel breve periodo della raccolta dei prodotti, infatti, in Trentino è minima la presenza di soggetti locali che svolgono intermediazione illecita di manodopera.
A differenza del meridione, qui a fornire braccianti al nero sono soprattutto società con sede nelle vicine province di Brescia, Verona e Vicenza, che servono il basso Trentino (tradizionale zona di coltivazione di olive, vite e mele), appoggiandosi a singoli immigrati regolari o a organizzazioni di migranti, spesso veri e propri racket “etnici”, che sfruttano i propri connazionali immigrati in Italia.
Un sistema collaudato al quale i “committenti” del Settentrione fanno ricorso con estrema frequenza anche perché risulta molto conveniente, infatti, nel settore agricolo un operaio retribuito regolarmente costa al suo datore di lavoro dai venti ai venticinque euro all’ora (circa dodici sono la paga netta), mentre i braccianti fermati dalla polizia comunale a Tenno ricevevano al nero, «netti alla mano», cinque euro all’ora.
Questo si verificava quando venivano impiegati soltanto una parte della giornata, poiché se prestavano la loro opera per l’intera giornata lavorativa della durata di dodici ore, ricevevano invece soltanto venti euro, quindi all’incirca un euro e settanta centesimi all’ora.
Nello specifico caso a reclutare i braccianti era un indiano, che attingeva nel bacino di disperati costituito da altri immigrati dal subcontinente indiano, ma anche africani, col metodo del passa parola.
Grazie a una fitta rete di conoscenze tra i propri connazionali nonché nell’ambito della comunità pakistana, il cittadino indiano avvicinava i richiedenti protezione internazionale ospitati nei centri di accoglienza del bresciano e, approfittando del loro stato di bisogno, li induceva a lavorare a basso costo.
Gli stranieri, avviati al lavoro in condizioni degradanti, hanno dichiarato di aver percepito una retribuzione variante dai cinque euro all’ora ai venti per un’intera giornata, salari conferiti in nero in ogni caso inferiori del 60% rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo del lavoro del comparto agricolo per gli operai a tempo determinato, che è invece pari a circa dodici euro.
Successivamente, a seguito di alcune perquisizioni eseguite presso il domicilio e l’ufficio del consulente dell’indiano, le Fiamme gialle hanno acquisito una notevole mole di documentazione contabile ed extracontabile, comprensiva delle agende dove venivano annotate le retribuzioni e le ore effettivamente lavorate dagli stranieri sfruttati.
Dal loro esame è emersa la somministrazione di manodopera a vantaggio di altre ventitré imprese di Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte, mediante l’impiego di circa duecento lavoratori irregolari ai quali erano state corrisposte bassissime retribuzioni e in totale assenza del versamento di contributi previdenziali.
I contratti di appalto venivano predisposti da un professionista del settore che veniva poi lautamente retribuito come collaboratore.
Il sistema organizzativo realizzato dai soggetti coinvolti sfruttava appieno le caratteristiche tipiche dell’attività agricola, un settore nel quale è cogente la necessità di disporre della manovalanza in un determinato arco temporale (di solito coincidente con il periodo primaverile ed estivo), cui si abbina un bisogno di velocizzazione dei processi di raccolta, questo ai fini di evitare il rischio di deperimento dei prodotti e di sostenere un costo economico adeguato agli altri costi di gestione.
Con l’intento di trarre illecito vantaggio è stata così creata un’organizzazione che offriva sul mercato una serie di prestazioni sottocosto, omettendo però di versare agli enti previdenziali e all’erario i contributi e le ritenute previdenziali dovute.
Al riguardo, va anche sottolineata la particolarità della situazione nelle due Province autonome di Trento e di Bolzano e nella Regione autonoma siciliana, dove l’Ispettorato nazionale del lavoro non ha competenze, poiché, proprio in virtù del particolare grado di autonomia goduto, sono stati istituiti degli uffici ispettivi del lavoro autonomi, inoltre in Trentino Alto Adige Südtirol non sono presenti nuclei dell’Arma dei Carabinieri aggregati all’Ispettorato del lavoro.
Recentemente, il Commissario del Governo di Trento (prefetto), sulla scorta di esperienze maturate in altri contesti provinciali, al fine di creare una sinergia ha costituito un sorta di gruppo di contrasto degli illeciti sul lavoro del quale fanno parte le Forze dell’ordine, la Procura della Repubblica, il Servizio provinciale del lavoro, gli uffici Inps e l’Inail.
Denunciati a piede libero. All’esito dell’attività amministrativa condotta dai militari del Corpo e dall’Inps in parallelo all’inchiesta della magistratura, è stato accertato che l’imprenditore indiano, oltre allo sfruttamento dei venticinque lavoratori in Trentino, aveva
registrato sul Libro Unico del Lavoro giornate ed ore di lavoro inferiori a quelle effettivamente prestate da circa duecento lavoratori, utilizzato indebitamente un codice di contratto di lavoro riferito ad “assunzione di lavoratori extracomunitari dalle liste di mobilità” che non corrispondeva al vero e che gli ha permesso di tariffare i contributi in maniera agevolata, infine, omesso di denunciare all’Inps i lavoratori già denunciati al Centro dell’impiego per i quali aveva elaborato il LUL (Libro unico del lavoro).
Il totale degli importi delle omissioni contributive ammonta a oltre 600.000 euro, ai quali si aggiungono 200.000 euro di sanzioni civili, importi che, se non pagati dai principali responsabili, verranno addebitati «in solido» alle imprese agricole committenti che si sono avvalse della manodopera irregolare.
I presunti responsabili del reato sono stati denunciati a piede libero.