La globalizzazione ha generato degli squilibri e, allo stato attuale, non esiste una governance mondiale in grado di imporre delle regole all’economia o di regolare realmente i mercati.
In poco più di un decennio nel mondo è stato registrato un dimezzamento del numero dei poveri, tuttavia il fenomeno permane di dimensioni gigantesche ed è destinato, in assenza di mutamenti di scenario, a provocare egualmente effetti destabilizzanti.
Nel frattempo, nei paesi occidentali, quelli a più elevati livelli di sviluppo, si è verificato un profondo processo di deindustrializzazione, con un conseguente decremento occupazionale nei settori manifatturieri a maggiore densità di forza lavoro e basso contenuto tecnologico.
Alle perdite di lavoro non ha però corrisposto una contestuale azione in grado di compensare (o almeno mitigare) l’aumento della disoccupazione. La globalizzazione ha accentuato a dismisura il processo di divaricazione dei redditi. Si pongono dunque con urgenza le problematiche relative ai costi sociali sostenuti a causa di tali sviluppi.
I fenomeni epocali in atto assumono contorni apocalittici: mutamenti climatici, migrazioni di massa, automazione dei processi produttivi e conseguente disoccupazione. Le disuguaglianze si accentuano sempre di più.
Le paure spingono quindi gli individui verso rimedi ritenuti apparentemente semplici ed efficaci. Tuttavia questi – prospettati loro da altri – spesso non conducono alla soluzione dei problemi, al contrario mutano in maniera sostanziale la natura del sistema nel quale si trovano ad agire peggiorandone le condizioni. Ad esempio trasformando un sistema democratico in autoritario, o uno relativamente funzionale in caotico.
Esistono alcune macrocategorie comprendenti alcune tematiche ritenute maggiormente catastrofiche per l’umanità, esse sono state enucleate ed elencate dal World Economic Forum, consesso nell’ambito del quale sono state anche discusse. Si tratta della totalità dei temi attinenti al degrado ambientale, quelli della pressione migratoria dal sud del mondo e quelli occupazionali.
Queste serie problematiche sono giunte all’attenzione delle élite capitalistiche – oltreché della politica, seppure i governi nazionali non siano in grado da soli di affrontare queste problematiche –, poiché potenzialmente in grado di ridurre il volume di “affari” da esse normalmente posto in essere. Il fatto che la grande finanza, preoccupata, inizi a occuparsi di sviluppo sostenibile costituisce un segnale oltremodo allarmante.
Gli esponenti più lucidi e lungimiranti di essa hanno evidentemente compreso che l’universo mondo, sempre più instabile, si sta (forse) inesorabilmente avviando verso il punto di rottura. La frequenza sempre maggiore e ravvicinata delle fasi di crisi è indice dell’instabilità del sistema.
Dall’ordine globale si è passati al disordine mondiale, ma quali sono le incognite all’orizzonte?
L’esplosione demografica è una delle più inquietanti: si prevede che nel 2030 sul pianeta terra vivranno otto miliardi di persone, una cifra insostenibile che porterà al collasso;
I mutamenti climatici sempre più marcati incideranno sensibilmente sulle condizioni di vita degli esseri umani, ponendoli di fronte a sfide estremamente difficili. Il surriscaldamento del pianeta beneficerà le regioni settentrionali d’Europa, in questo senso coloro i quali si attrezzeranno per prevenire i cambiamenti onde trovarsi pronti al momento in cui si verificheranno;
la ricchezza insufficiente: il tasso annuo di crescita del prodotto interno lordo nei paesi sviluppati (stime Osce) nella migliore delle ipotesi nei prossimi quindici anni si attesterà all’1,7%, una media che non sarà in grado di riassorbire gli oltre 113 milioni di persone in stato di povertà o a rischio povertà che attualmente esistono in Europa. Non solo, disponibilità economiche del genere non saranno neppure sufficienti al finanziamento di adeguati investimenti in opere infrastrutturali né a coprire le spese relative agli interventi in campo sociale che si renderanno necessari;
squilibrata distribuzione della ricchezza: in assenza di cambiamenti radicali, le tendenze oggi in atto indicano per il futuro un peggioramento degli squilibri nella distribuzione del reddito, che significherà un ampliamento delle disuguaglianze con i relativi effetti sul piano sociale;
tecnologizzazione della produzione: le macchine sostituiranno sempre di più l’uomo, soprattutto nelle mansioni lavorative meno qualificate. I lavori dovranno quindi essere “ridisegnati”, pena la non sopravvivenza.
Uno scenario inquietante, non c’è dubbio, la cui realizzazione alcuni tentano di evitare intervenendo in via preventiva. La cosiddetta Agenda 2030, alla cui realizzazione partecipano 193 paesi, rappresenta uno di questi interventi.
Essa si articola in diciassette obiettivi principali (o goal) – primo dei quali è la sconfitta della povertà –, più altri 169, di cui la realizzazione è stata fissata al 2020, quindi a breve.
Tra i più rilevanti si ricordano l’impegno a garantire a tutti delle pari opportunità e la riduzione delle disuguaglianze oggi in essere, la drastica riduzione del numero di giovani che non studiano né lavorano (in Italia nel 2018 erano circa due milioni), la dotazione delle aree urbanizzate di piani di contrasto dei cambiamenti climatici e dei disastri ambientali e, naturalmente, gli investimenti essenziali all’educazione e alla formazione delle persone, oltre all’introduzione di nuovi parametri, come gli indicatori di benessere equo e sostenibile.
“Europa campionessa dello sviluppo sostenibile”, questo il titolo del convegno col quale avrà inizio questa mattina all’Auditorium del Parco della Musica di Roma il “Festival dello sviluppo sostenibile”.
Infatti, il Vecchio continente è il luogo più sostenibile del mondo sotto i punti di vista economico, sociale e ambientale, seppure su alcuni fronti si trovi indietro e presenti una marcata eterogeneità dei risultati conseguiti, disuguaglianze che ne mettono a rischio la coesione politica e sociale.
Negli ultimi mesi l’Unione europea, attraverso i suoi vari organismi, ha espresso l’intenzione di utilizzare l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile quale quadro di riferimento per tutte le politiche future, compreso l’orientamento del bilancio per i prossimi sette anni. Tuttavia, queste dichiarazioni di principio dovranno poi essere tradotte in pratica al fine di dare concretezza a questo processo.