Già nel 1996, Samuel Huntington descriveva il continente asiatico come una delle aree più sensibili di un possibile “scontro delle civiltà”. L’analista geo-politico sosteneva che questo quadrante del mondo era attraversato dalla faglia forse più pericolosa del XX secolo, anche quando la cosiddetta guerra dei dazi era molto in là dal venire.
Fino ad oggi, scriveva, “il commercio in questa parte del mondo ha prodotto profitti, ma non è detto che domani non possa produrre conflitti”.
Per alcuni motivi: nel continente asiatico è in vigore un modello di relazioni internazionali più complicato che nel resto del mondo. Un mosaico fatto di democrazie di recente formazione e/o instabili, di alcuni sistemi governati da monopartiti e regimi dittatoriali personali o militari, ma anche diversi e squilibrati livelli di sviluppo economico e una manifesta egemonia continentale esercitata dalla Cina.
Un mix di instabilità e di incertezza che per alcuni aspetti ricorda l’Europa della prima metà del XX secolo. Un crogiolo di culture e di civiltà in un continente multipolare.
LA TEORIA DI TUCIDITE
Presentando i rischi degli scenari di maggior attrito tra le “civiltà”, Huntington riprendeva la teoria espressa dal grande storico greco Tucidite.
Secondo Tucidite, la guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta, fu causata dalla crescita della potenza ateniese e dalla paura che tale crescita generò nei rivali spartani, che gli contendevano il dominio del mondo greco.
Secondo Huntington, esattamente come nel V secolo avanti Cristo, anche nel mondo contemporaneo i rapporti internazionali sono giochi a somma zero: se una potenza dominante ma in declino si trova a dover fare i conti con una potenza emergente, inevitabilmente – proprio come successe a Sparta – avrà paura e ciò aumenta i rischi di un vero conflitto per il potere.
La guerra, per ora solo commerciale, in corso tra Stati Uniti e Cina rischia, dunque, di far cadere le due super potenze nella “trappola di Tucidide” e creare le condizioni per un conflitto di faglia nel continente asiatico.
USA E CINA SU SPONDE OPPOSTE
Risulta evidente come Usa e Cina occupino oggi posizioni diametrali e opposte. La Cina di Xi Jinping è impegnata a cambiare l’ordine geo-politico mondiale e per farlo ha bisogno di mantenere l’attuale ordine economico. L’amministrazione di Trump vuole invece preservare il ruolo di prima potenza mondiale degli Usa e per farlo ha bisogno di riequilibrare l’assetto dell’economia globalizzata che è stato il carburante della crescita del ruolo cinese.
Si tratta di due potenze allo specchio: gli Usa sono per il mantenimento dello status quo in geopolitica e revisionisti in politica economica, mentre la Cina è revisionista in geopolitica e per lo status quo in politica economica.
Concordano solamente sulla globalizzazione: entrambe ritengono che il sistema attuale funzioni meglio per la Cina che per gli Usa.
Negli Stati Uniti il confronto con i cinesi ha un consenso che va al di là del partito repubblicano e anche Chuck Schumer, il leader dei democratici al Senato ha twittato il suo sostegno alle politiche dell’amministrazione Trump sul commercio con la Cina.
LA “ARMI” CINESI
Mentre Pechino si dice immune ai dazi Usa, per diversi analisti economici la guerra commerciale potrebbe aver già bruciato un punto del Pil nazionale.
La guerra commerciale è già una guerra economica, nella quale la Cina sta già utilizzando un’arma: è il primo creditore degli Usa e sa che i suoi denari servono a finanziare le politiche economiche in deficit, attuate dall’amministrazione Trump.
Nei 12 mesi che vanno dal febbraio 2018 al febbraio 2019, i cinesi hanno ridotto da 1.176 miliardi a 1.130 miliardi di dollari il loro portafoglio di T-Bond americani. Mentre la Casa Bianca alza l’asticella dello scontro commerciale, il governo cinese, senza troppi proclami, toglie denaro dal banco per mettere in difficoltà l’economia americana
Di più: la moneta cinese renmimbi è ancorata al dollaro e l’arma nelle mani di Pechino è la svalutazione monetaria. La prima serie di dazi imposti sulle merci cinesi ebbe effetti assai limitati, proprio grazie al deprezzamento del remmimbi.
IL FATTORE ECONOMICO INTERNO
Il protezionismo aggressivo di Trump è parte di una strategia difensiva volta a cercare di far cambiare pelle all’aggressivo dragone cinese.
Ognuna delle parti in causa sa che i buoni affari si fanno soltanto quando all’orizzonte non ci sono guerre commerciali. Trovare un’intesa è dunque urgente ed ineludibile per entrambe le parti. Vale per la Cina che sa perfettamente che la sua politica di sviluppo è perlopiù figlia delle grandi capacità di esportare nel mondo merci a buon mercato. Vale per gli Stati Uniti, dove le politiche di Trump hanno portato il rapporto tra deficit e Pil al record del 4,5% e finanziare il debito a basso costo è per Washington un imperativo assoluto.
Una chiusura positiva del negoziato è imperativa soprattutto per Trump, che ad un anno e mezzo da un possibile secondo mandato presidenziale, ha bisogno di mantenere in buona salute i fondamentali dell’economia interna.