ROMANZO D’APPENDICE, storie brevi. «Naftalene nel Veneto bianco»

Nel Nordest dei primi anni Settanta le esistenze di alcuni ragazzi si intrecciano in un destino drammatico: diversità, bisogni, passioni, tutto in una fase di mutamenti antropologici nel quale sfondo si profilano i primi germi della lotta armata. Ma non basta l’amore a cambiare le persone. Infatti gli esseri umani restano ciò che sono per natura: egoisti e fallibili.

di Gianluca Scagnetti – Il naftalene, comunemente definito «naftalina», è il derivato per estrazione distillata del catrame di carbonfossile.

Una sostanza che deve la sua vasta notorietà grazie all’utilizzo quale antiparassitario domestico. Esso riveste importanza anche nell’industria, poiché trova impiego come intermedio nella preparazione di numerosi coloranti sintetici e come materia prima nella produzione di decalina e tetralina. In alcuni paesi dell’Europa orientale le strutture poliziesche segrete lo utilizzavano persino come sostituto a buon mercato del pentotal, con effetti devastanti sulle persone nelle quali veniva iniettato.

Chissà perché, in quel nebbioso mattino d’autunno, mentre in piedi e al freddo aspettava il treno per Mestre alla stazione di Piove di Sacco, Generoso Marson non riusciva a toglierselo dalla mente il naftalene.

Sì, certamente era pur sempre il prodotto chimico che gli aveva radicalmente cambiato l’esistenza, malgrado fin da bambino non avesse mai potuto sopportarne l’intenso e fastidioso odore. Infatti, sua madre Dosolina con quelle scagliette candide usava riempire a manciate i cassetti. Lo faceva per repellere gli insetti xilofagi, evitando così che si mangiassero la lana dei pochi indumenti invernali posseduti dalla famiglia.

Che mondo diverso dalla laguna era Marghera, rifletté mentre il treno locale lo trasportava a Mestre. Già, perché lui era nato a Caorle e da dove poi era emigrato per andare a lavorare al petrolchimico, un posto fisso.

Quel mattino, però, si era verificata una cosa molto strana. Emilia, la sua fidanzata, non si era presentata al consueto appuntamento alla stazione. Lo ritenne strano, poiché lei lo incontrava lì tutte le mattine delle giornate lavorative. Percorrevano insieme una parte del viaggio, era un’occasione per stare abbracciati un po’. Scambiarsi un bacio, pronunciarsi reciprocamente frasi dolci tra un buon proposito per il futuro da passare in comune e i progetti sulla casa che avrebbero preso in affitto una volta sposati.

Perché quella mattina non era venuta? Si era forse sentita male? Cosa mai poteva esserle successo? Lo sferragliare sui binari bagnati delle ruote del convoglio in arrivo accompagnò i mesti pensieri dell’uomo.

Il breve viaggio del giovane pendolare iniziò dunque senza di lei. Piove di Sacco, Mestre, Marghera: attraverso il finestrino imperlato di pioggia a una a una sfilavano le stazioni che precedevano il gigantesco complesso industriale di Marghera.

A causa di un grottesco paradosso era stato assegnato proprio alla linea di produzione del detestato naftalene. Suo malgrado aveva accettato egualmente quell’impiego senza eccepire nulla. Del resto non avrebbe potuto fare altrimenti, dato che era il terzo dei cinque figli nati dall’unione di Simeone Marson e Dosolina Civin, si era sempre dovuto accontentare di quel poco che la vita gli aveva dato.

Nato e cresciuto tra i borghi della campagna a ridosso della laguna, quattro casali sperduti presso la strada che sale su fino alla statale per Trieste, non aveva mai vissuto in grandi centri urbani neppure per brevi periodi, ed era rimasto sempre in quel lembo di terra dove suo padre per tutta la vita si era guadagnato il pane riparando i fondi delle barche dei pescatori. Solo una volta si era recato a Pordenone per partecipare al funerale di un cognato. Là si era trasferita sua sorella Nerina, che aveva trovato lavoro come operaia in manifattura, presso le industrie di elettrodomestici di Porcìa.

I Marson erano una famiglia molto unita e praticante. Ogni domenica Simeone metteva su il vestito buono e insieme agli altri si recava in chiesa per la funzione. Il prete li aveva anche aiutati, interponendo i suoi buoni uffici col segretario della locale sezione del partito di maggioranza relativa. Fu in quel modo che Generoso ottenne un posto al petrolchimico. In precedenza aveva lavorato in laguna aiutando il padre, che a differenza del nonno contadino si era messo fin da ragazzino a riparare le barche.

Quella dello stabilimento di Marghera era stata una occasione da non lasciarsi assolutamente sfuggire, e allora lui aveva mollato tutto e senza indugio si era trasferito a Mestre. «Cussì la funsiona – gli diceva sempre suo padre -, de picinin no te vidi l’ora de ndà, poi a sinquantani te vol tornà».

Il treno procedeva nel suo lento moto sulla linea ferroviaria a binario unico, arrestandosi frequentemente per consentire la salita e la discesa dei passeggeri alle tante stazioncine lungo il percorso. Più andava avanti e più si interrogava preoccupato sull’assenza di Emilia. L’inquietudine iniziò ad pervaderlo.

Cosa mai potrà esserle accaduto? Perché non è venuta? Sarà malata per davvero oppure non gli interesso più?

Mentre dal finestrino osservava i campi coltivati e le file parallele di canali per l’irrigazione pensò alle differenze tra quei luoghi e quelli natii. A quella tranquilla laguna che stava soltanto pochi chilometri più a nord.

Adesso i contadini erano diventati operai e, tutt’intorno, nel Veneto si vedevano soltanto fabbriche e fumi scuri che fuoriuscivano dalle ciminiere. Il contrasto tra lavoro e degrado ambientale si era fissato nella sua mente fin dal primo momento in cui arrivò a Mestre. Si rendeva conto del mutamento dell’ecosistema, della piena occupazione e dello sfruttamento sistematico del territorio due fattori in stridente contrasto tra loro.

A sensibilizzarlo ulteriormente era stata Emilia, la ragazza che frequentava da qualche tempo. Un amore nato di sabato pomeriggio nelle vie del centro della città industriale. Il destino, cinico e baro col naftalene, si era invece dimostrato benevolo coi sentimenti. Entrambi risiedevano nello stesso paese, Piove di Sacco. Era carina Emilia, aveva il fisico minuto e una forte personalità. La ragazza aveva da subito dominato il giovane operaio emigrato dalla campagna, però senza mai prevaricarlo. Lo vedeva che Generoso dentro era rimasto un fanciullo, e nel loro gioco di coppia, quando lei lo permetteva, fingendo di desiderarlo, lui giocava a proteggerla, con l’istinto ancestrale proprio del maschio. Come suo padre e suo nonno e prima di loro gli altri uomini di quella famiglia contadina. Patriarchi di pietra e dal cuore buono, compagni di vita e padri, nati e vissuti in un mondo che adesso stava scomparendo.

Era stata Emilia a introdurlo negli ambienti della politica. La studentessa-lavoratrice, attivista infaticabile nelle fila del sindacato massimalista della fabbrica di saponi e detersivi. Una donna forte e in buona fede, sempre pronta a battersi totalmente nella lotta. A volte Generoso non riusciva proprio a comprenderla, non si capacitava della profondità dei suoi sentimenti e neppure di quella passione che la ragazza aveva per il prossimo, che lui riteneva eccessiva. Ne subiva fortemente il fascino e per questo motivo la seguiva ovunque.

Il treno continuava ad andare avanti mangiandosi i chilometri. Generoso si arrovellava sempre di più e gli  interrogativi erano sempre gli stessi: cosa mai potrà esserle accaduto? Perché non è venuta? Sarà malata davvero oppure non gli interesso più?

Ma, la conosceva veramente a fondo la sua Emilia? E già, perché il loro non era mica un rapporto paritario, magari, piuttosto un “rapporto spezzato”. Messe da parte a forza le incertezze sulla fedeltà della compagna, si era andato aggrappando a lei, tentando ostinatamente di sgomberare il proprio animo dai dubbi. Questi, negli ultimi tempi si erano fatti sempre più inquietanti.

Infatti, l’esistenza quotidiana di Emilia veniva oscurata da alcune zone grigie. Dove si recava quando scompariva per giorni interi senza farsi sentire? Perché andava continuamente a Padova? Laggiù aveva un amante o cos’altro faceva? Mentre era seduto nel vagone, sentì l’angoscia attanagliargli la gola. E pensava, pensava.

Lui da qualche tempo aveva iniziato a frequentare i compagni di Emilia, attivisti politici che protestavano contro le ingiustizie sociali. Aveva anche partecipato ad alcune manifestazioni di piazza, più per inerzia, trascinatovi da lei, che per reale convinzione. Non aveva piena consapevolezza di ciò che stesse realmente facendo. Lui era soltanto un ragazzone burbero, un sempliciotto che coi ragionamenti non andava più in là della superficie.

Tuttavia, ultimamente aveva deciso di allentare il legame con quel gruppo di Padova, temendo che qualcuno di Caorle lo potesse vedere e poi raccontare tutto al suo paese. Che vergogna sarebbe stata per i suoi genitori apprendere di avere un figlio estremista, uno che, raccomandato al petrolchimico dal prete, invece di pensare a lavorare faceva baruffa per la strada. Quale reazione avrebbero avuto i Marson, una famiglia di poveracci nella quale mai nessuno si era occupato di politica e neppure si era iscritto a un sindacato. «Basta – avrebbe voluto dire a Emilia quel mattino – io li mollo tutti, ma resto con te».

Generoso aveva un rivale in amore, uno degli attivisti più estremisti del gruppo politico, uno dei “capetti”. Si chiamava Miro Deffenek ed era uno studente belloccio e di ottima estrazione sociale, figlio di uno dei più noti avvocati di Padova. Era venuto al corrente del precedente rapporto sentimentale con Emilia soltanto dopo essersi messo con lei. Certo, si era trattato esclusivamente di un flirt, un amorazzo per altro cessato ormai da tempo, in ogni caso percepiva in Miro una latente ostilità nei suoi confronti, che si manifestava ogniqualvolta se ne presentava l’occasione.

Il giovane rampollo della famiglia Deffenek arringava il gruppo con i suoi infuocati discorsi sulla rivoluzione e la lotta del proletariato contro il capitalismo. Intransigente fino alla morte nei confronti dell’odiato nemico di classe, in realtà era borghese fin dentro il midollo. In cuor suo disprezzava il «compagno Generoso» per la tiepidità con la quale aveva abbracciato la causa e per il suo scarso impegno militante. Tuttavia, la cosa che proprio non riusciva a tollerare era che un contadino ignorante divenuto operaio potesse ricevere l’amore da una donna come Emilia. La sua Emilia. Sua e di nessun’altro, anche se non se la scopava più da un anno. Emilia, la donna contesa. Emilia, operaia e pendolare come lui, che ogni giorno prendeva lo stesso treno locale per Mestre e scendeva alla stazione di Mira Buse, dove lavorava nei vicini stabilimenti industriali. Dove poteva essere in quel momento?

Chiuso all’interno di quella carrozza di seconda classe Generoso era assillato da questo pensiero. Prigioniero, in un’ambiente sigillato nel quale non era in condizioni di comunicare con l’esterno, completamente divorato dall’ansia ricominciò a farsi le stesse domande: avrà avuto guai con la polizia? L’avranno fermata ieri a Padova durante un volantinaggio? Ma no, rifletté a un certo punto, probabilmente si sarà addormentata in treno senza accorgersi di essere arrivata alla sua stazione.

Purtroppo anche questa tiepida speranza svanì a Oriago sul Brenta. Anche lì di Emilia nessuna traccia. Il groppo in gola impediva a Generoso di parlare, era disperato. Improvvisamente, però, la sua attenzione andò alle immagini pubblicate in prima pagina dal “Gazzettino di Venezia”, quotidiano che un viaggiatore di mezza età seduto di fronte a lui stava sfogliando distrattamente. Erano le riproduzioni di due fototessera del tipo di quelle che si applicano ai documenti d’identità, una raffigurava una ragazza bionda, l’altra un ragazzo. Generoso riconobbe immediatamente il volto di Emilia e il suo. Il cuore cominciò a battergli forte, ma si sforzò di mantenere la calma. Si rivolse quindi all’uomo che aveva di fronte.

«Mi scusi signore, potrei leggere soltanto un attimo il suo giornale? La prego, è davvero una cosa importante».

Questi, un poco meravigliato dall’insolita domanda, gli porse il quotidiano dalle pagine ormai stropicciate dopo una prima lettura. In un attimo Generoso si rese conto che la sua vita era irrimediabilmente cambiata.

   Arrestata a Padova una terrorista. La locale cellula preparava un attentato al Petrolchimico. La polizia ricerca gli altri membri del gruppo sovversivo.

Il titolo l’avevano pubblicato a caratteri cubitali, mentre più in basso l’articolo riportava la notizia per intero.

   In seguito all’arresto di Fanton Emilia, militante di un gruppo estremista attivo nel Triveneto – arresto effettuato nella giornata di ieri a Padova dagli uomini dell’Ufficio politico della Questura diretti dal commissario capo Gennaro Musiello -, e grazie alle preziose rivelazioni rese agli inquirenti dalla stessa Fanton, attiva in precedenza nella fabbrica di saponi di Mira, è stato possibile smembrare la cellula terroristica capeggiata da Deffenek Miro, studente universitario, figlio di uno dei più affermati penalisti della città. Gli stessi investigatori sono ora sulle tracce di altri pericolosi elementi componenti il gruppo. Tra questi figura Marson Generoso, ventisei anni, nativo di Caorle, operaio, che aveva in progetto una serie di attentati contro il tessuto industriale della nostra regione. In particolare, il Marson avrebbe dovuto collocare un ordigno esplosivo negli stabilimenti del petrolchimico di Marghera dove lavorava, questo al fine di sabotare la linea di distillazione frazionata del catrame di carbon fossile dalla quale si ricava il naftalene. Al momento l’uomo si è reso irreperibile.

Nel frattempo il treno aveva fatto ingresso nella stazione di Mestre. Generoso, terrorizzato, si interrogò su tutto e tutti senza riuscire a darsi risposte. Dove sei amore mio? Cosa faremo adesso? Cosa potrà capitarci?

Scese con atteggiamento circospetto dalla carrozza guardandosi intorno. Tutto tranquillo, c’erano solo tanta gente e nebbia. Nebbia fitta.

Adesso entro nel sottopassaggio ed esco dalla stazione, pensò.  Vado alla fermata delle corriere, ne prendo una e scappo a Caorle. Lì qualcosa farò, qualcuno potrà certamente aiutarmi. Ma non ebbe il tempo di fare alcunché che dalla folla di astanti sul marciapiede del quinto binario spuntarono una moltitudine di uomini in uniforme grigioverde.

«Polizia! Fermo Marson, sei in arresto! Non opporre resistenza!»

Gli agenti lo bloccarono senza difficoltà. Era completamente disorientato, inebetito, e comunque uno come lui non avrebbe mai reagito alla Forza pubblica. Uno dei poliziotti in abiti borghesi lo colpì alla schiena con un pugno. Poi gli infilarono le manette, strette ai polsi, e lo trascinarono fuori dalla stazione facendolo salire a forza su una Giulia Super con un’antenna fissata sulla capote.

«Via, via: subito in Questura a Padova… e vedete di darvi una mossa!»

Fu l’ordine impartito dal funzionario di Pubblica Sicurezza all’agente che era alla guida dell’autoveicolo. La vettura sgommò sull’asfalto bagnato e partì  a sirene spiegate per il breve viaggio. Quando entrò nel cortile dell’edificio della Questura, attraverso i finestrini Generoso ebbe modo di vedere i componenti del gruppo che nel frattempo erano stati tutti arrestati. In piedi, ammanettati sotto la leggera pioggia battente che cadeva incessantemente, sorvegliati a vista da guardie armate di mitra. Ai lati del cortile erano parcheggiati alcuni furgoni color verde felce della Polizia coi quali essi erano stati tradotti. Alcuni di loro avevano il viso tumefatto, forse erano stato picchiati o invece erano “caduti accidentalmente”. Tra i tanti volti tristi allineati cercò quello di Emilia. Avrebbe voluto guardarla negli occhi, gridarle da lontano che l’aveva già perdonata e che l’amava ancora tanto. Che nonostante tutto aveva bisogno di lei. Li aveva riconosciuti tutti i suoi compagni, però l’unica che non c’era era proprio lei.

In seguito tutto si consumò in fretta. Venne condotto in una stanza del sotterraneo, fatto inginocchiare con le spalle aderenti a un vecchio termosifone di ghisa riverniciato più volte e male e a esso ammanettato. Poi gli fecero ingurgitare una disgustosa miscela di acqua e sale.

«Avanti parla! – gli gridò in faccia il vicecommissario che lo interrogava – Guardatelo lì il santarello, la persona per bene venuta dal paesello che invece di lavorare voleva fare il bombarolo».

   Le parole del funzionario colpirono Generoso con la forza di un pugno assestato al ventre da un boxeur professionista.

«Ma …io, io non so nulla, ve lo giuro!»

Annichilito provò a replicare, così provocando, però, l’animosa reazione del capo dell’Ufficio politico, che con tono perentorio e tracotante aggiunse:

«Ma che ti credi… noi sappiamo tutto di te: chi sei e che cosa dovevi fare alla linea del naftalene del petrolchimico. Ce lo ha detto la tua amichetta. Emilia, la capetta del gruppetto. Marson, sappi: tu adesso ti trovi nei guai fino al collo! O confessi subito e non ci fai perdere tempo, e noi ti aiuteremo a uscire da questo casino, oppure saranno cazzi tuoi…»

   Completamente basito dagli eventi, Generoso non fu in grado di organizzare una difesa e rispose meccanicamente alle domande che gli posero i poliziotti. Agli occhi degli investigatori apparve come un finto tonto, più “finto” che “tonto”, ma soprattutto, e questo depose a suo sfavore, un vero irriducibile.

Fini in galera. Trascorso un mese di isolamento nel carcere di Padova, una volta interrogato dal giudice istruttore venne trasferito a Trani. Una decisione presa per ragioni di sicurezza, poiché quella cellula terroristica andava smembrata e l’Autorità giudiziaria pensò bene di separare i suoi appartenenti smistandoli dove poteva, trovando quindi posto nei sovraffollati istituti di detenzione dell’intera penisola. Anche lì il destino si beffò di lui, infatti in carcere incontrò nuovamente Miro. Da questi, in passato suo rivale in amore, ricevette la notizia del suo nuovo incarico, indesiderato per la verità. Miro glielo comunicò a bassa voce durante l’ora d’aria. Quello che era stato il capetto della cellula adesso era divenuto un paranoico farneticante che sospettava di tutti.

«Bisogna stare attenti ai delatori – gli bisbigliò all’orecchio -, i delatori, sì! Quelle carogne servi del sistema! Sai cosa disse Saint Just alla Convenzione: li uccideremo tutti! Maa, siii… adesso sì che saremo di nuovo insieme compagno! Generoso di nome e di fatto! Bravo! non hai parlato. Meno male che c’è ancora gente come te, tu sì che sei stato in gamba con quei bastardi dell’Ufficio politico: non hai parlato, non hai denunciato nessuno… bravo! Non come quella infame di Emilia. Ah, le donne… altro che emancipazione femminile, altro che affrancamento economico dalla condizione domestica! Lo so io… iooo, che cosa dovrebbero fare! Ma, adesso parliamo di cose importanti. Ora tu sei divenuto indispensabile al direttivo della cellula combattente, abbiamo assolutamente bisogno di te. Non puoi tirarti indietro proprio adesso, sono certo che ne sei consapevole. Le masse necessitano di figure-guida che incarnino la rivoluzione, miti ai quali l’uomo medio può aggrapparsi. Noi gli daremo te! Tu sei un uomo del popolo, uno vero, non un borghesetto politicizzatosi alle scuole superiori. Ti farai carico della guida dell’organizzazione, o almeno questo sarà ciò che apparirà esternamente. È evidente. Tu leggerai pubblicamente i comunicati di lotta durante i processi dalle gabbie dei tribunali, condannerai i compagni che parlano e farai tutto quello che ti verrà ordinato. Capisci Generoso? È importante che in questa società della comunicazione vengano alimentati dei miti. I miti contano più dei fatti, quindi tu dovrai apparire, punto e basta. Dobbiamo dare fiducia agli altri. La lotta ha bisogno di figure come te per continuare l’assalto al potere imperialista. Avanti Generoso, dimentica i luoghi comuni e le acredini del passato e guarda avanti al radioso futuro!»

L’ora d’aria terminò presto. Dopo l’incontro con Miro la sua mente, non certo fine, venne ancora più confusa di prima. I compagni lo avevano “promosso” leader o era solo per finta? Non capiva più nulla. Non solo, perché ormai non pensava più nemmeno a Emilia. Non lo faceva più da giorni. In quel momento era completamente concentrato su altri pensieri: la quotidianità della detenzione. Infatti, una volta rientrato al braccio ci sarebbe stata la conta.

Si distrasse un attimo e involontariamente deviò dal resto dei detenuti che in fila stavano abbandonando il cortile. Con gli occhi aveva iniziato a fissare un punto qualsiasi sul muro dall’intonaco scrostato dove avevano attecchito delle muffe giallognole e verdi. Ripensò alla laguna e a Caorle, quei colori gli avevano riportato i pensieri ai suoi luoghi di origine. Una fuga immaginaria dalla realtà che venne presto interrotta dalla voce di un agente di custodia.

«Dove cazzo vai tu? Rimettiti in fila e sbrigati!»

«Mi scusi superiore – si giustificò Generoso –, non l’ho fatto apposta. Ero soprappensiero».

Per ritornare in riga con gli altri dovette necessariamente passare accanto alla guardia che lo aveva rimproverato. Sentì, però, che la sua uniforme emanava quel forte odore caratteristico dei magazzini delle caserme, laddove vengono conservati indumenti e coperte.

Lo riconobbe immediatamente quell’odore. Era inconfondibile. Era naftalene.

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