ROMANZO D’APPENDICE. Alto Adige Südtirol e Friuli Venezia Giulia: il passato. Accadde al confine, storie di Giovanni Postal e Udo Grobar. Gli eventi che sconvolsero le tranquille quotidianità di uomini dai destini più grandi di loro (5)

   Quelli eran giorni sì… Dirigendosi a piedi verso la Casa Rossa notò che il grande piazzale che si attraversa prima del posto di controllo al confine quel mattino era stranamente deserto.

A dire il vero, quel luogo non era mai stato eccessivamente animato, a eccezione di quei giorni in cui le colonne di veicoli si arrestavano prima del confine in attesa dei controlli dei poliziotti e dei finanzieri.

Stranamente, quella mattina la vasta distesa d’asfalto al limite della città gli sembrò più cupa del solito. In giro non c’era quasi nessuno, neppure i conducenti dei grandi autoarticolati parcheggiati in attesa di attraversare il confine, che solitamente aspettavano bevendo un caffè o una birra nel vicino posto di ristoro.

Nulla. Udo lo attribuì al fatto che il giorno precedente in Slovenia c’era stata la “battaglia dei cippi e delle bandiere”, una schermaglia simbolica combattuta dalle forze di Lubiana e dall’Armata federale. Gli indipendentisti avevano sostituito i vessilli jugoslavi che dal 1945 garrivano sui pennoni del confine col nuovo tricolore recante il Triglav, simbolo nazionale sloveno.

Un’operazione dal preciso significato: il confine esterno non era più quello della Federazione jugoslava, ma della neo costituita Repubblica indipendente di Slovenia.

Con l’arrivo in forze dei militari jugoslavi le bandiere slovene erano state poi rimosse, tuttavia la tensione restava alta. Da Belgrado, per intimorire i secessionisti, il comando supremo dell’esercito aveva inviato alcune unità della 253.a Brigada, che mossero immediatamente dalle loro cassrme di Ajdovščina e Vipava.

Il ventotto di giugno due compagnie di fanteria appoggiate da un plotone carri presero posizione nel settore di Rožna dolina, disponendosi a ridosso del valico di frontiera. Uno spiegamento di forze perfettamente visibile anche dall’Italia.

Udo si rese conto della gravità della situazione. Giunto in prossimità del posto di controllo italiano, si avvicinò a un agente della Polizia di Frontiera per chiedergli notizie sulla situazione.

«Mi scusi, ma che succede? Si passa di là? Io devo raggiungere mio nipote poco oltre il confine, laggiù… vede!?! È vicino alla pompa di benzina, però ci sono dei carri armati, lei ha idea di cosa stia succedendo?»

Il poliziotto lo guardò incredulo.

«Proprio oggi deve andare di là? – replicò – Guardi che stanotte c’è stata baruffa. Da questo lato il confine è aperto, si passa, però io glielo sconsiglio, di là ci sono i soldati jugoslavi…»

«Perché? – gli chiese allora Udo con una forte dose di ingenuità – Hanno sparato? Voglio dire …c’è pericolo che sparino?»

In quella situazione critica, seccato da tutte quelle domande il poliziotto rispose un’ultima volta, ma bruscamente.

«Guardi, oggi può succedere di tutto. Se vuole passare vada pure, sappia però che lo fa a suo rischio e pericolo, buongiorno».

Udo prese a incamminarsi verso il territorio jugoslavo. Quando fu nella terra di nessuno, proprio prima di passare sotto al cavalcavia ferroviario, udì alla sua sinistra il vociare affannato di alcune persone che si stavano muovendo nella sua stessa direzione. Lo avevano quasi superato, con la coda dell’occhio notò che uno di loro si portava dietro una pesante videocamera. Erano i reporter di qualche emittente privata del Nordest.

Sono giornalisti! – pensò – se mi accodo a loro forse riuscirò a passare senza difficoltà anche il controllo dei ”graniciari”.

L’idea era buona, dunque allungò il passo, anche se gli costò fatica farlo. Affannato, riuscì comunque a stargli appresso fino alla sbarra di confine dove erano alcuni militari jugoslavi.

Una di essi puntò immediatamente il fucile contro il gruppetto intimando l’alt con durezza.

«Stoj!»

Udo ebbe paura. Si voltò verso uno dei giornalisti e soltanto allora riconobbe un volto noto dei teleschermi della regione, Gigi Di Meo, il direttore di TelePordenone.

Insieme a un suo operatore stava cercando di entrare in Jugoslavia per effettuare un servizio sulla crisi in atto in quella piccola repubblica, la Slovenia, che confinava direttamente con il Friuli.

«Press! Press! “Novinari”!!! Siamo giornalisti italiani… – esclamò Di Meo rivolto al graničar di guardia – siamo di TelePordenone. Ecco i nostri passaporti, è tutto in regola guardi… lui è il mio operatore».

Udo ne approfittò per confondersi col gruppetto. I giornalisti non si curarono assolutamente della sua presenza e lui rimase in silenzio mentre il graničar controllava attentamente il suo documento per l’espatrio.

Quei secondi gli parvero interminabili. La guardia lo scrutò con severità. Udo gli aveva esibito una prepústnica, il lasciapassare transfrontaliero concesso in Italia.

Poco dopo si avvicinò un ufficiale. Anche lui controllò sbrigativamente volti e fotografie sui documenti di tutti e tre gli italiani.

Udo abbozzò un sorriso complice a Di Meo, cercando un a chissà quale forma d’intesa col giornalista. A un certo punto l’ufficiale corrucciò il volto. A Udo il cuore batté ancora più forte. Tuttavia, il tenente jugoslavo non fece domande a nessuno e autorizzò il passaggio con un cenno della mano.

E’ fatta – pensò il vecchio sganciandosi dai reporter pordenonesi una decina di metri più avanti. Adesso doveva cercare Joško.

Per arrivare al luogo d’incontro col figlio della cugina fu costretto a passare tra alcuni carri armati lungo la strada che conduceva alla stazione di servizio. I soldati scherzavano tra loro e ogni tanto facevano il segno della “vittoria” con le dita ai pochi giornalisti stranieri presenti.

La gente che si era assiepata all’incrocio subito dopo il confine gridava ai soldati jugoslavi di andarsene via con le buone, di tornarsene nelle caserme, altrimenti alla sera li avrebbero mandati via con le cattive quelli della Difesa territoriale.

Finalmente riuscì a raggiungere il luogo stabilito per l’appuntamento. Erano già le dieci e trenta, ma di Joško, solitamente estremamente puntuale e preciso negli impegni, non c’era traccia.

Allora provò a cercarne la macchina tra quelle ferme nel vicino parcheggio, ma anche lì della sua Zastava nessuna traccia.

In compenso, però, si accorse che dietro l’edificio del cambiavalute stazionavano una dozzina di autocarri dell’Armata federale, aspetto che lo indusse a ritenere che le cose non si mettevano bene.

Attese invano in piedi per circa venti minuti, poi decise che era il caso di telefonare a casa di Vesna e chiedere notizie di Joško.

Per farlo dovette ritornare indietro e raggiungere il bar dove c’era il telefono pubblico, il Bistrò Rožna dolina, quello vicino ai gabbiotti di controllo dei graničarji e dei miličniki.

All’interno del locale l’atmosfera era surreale. Il bar era quasi vuoto e a pochi metri dalle sue vetrine, fermo col potente motore diesel acceso, c’era un grosso carro armato.

Nella sala ristorazione la musica veniva diffusa dagli altoparlanti appesi alle pareti, l’apparecchio stereofonico era sintonizzato sulle frequenze della radio di stato, che in quel momento stava trasmettendo un intermezzo di musica leggera.

L’esecuzione di un rilassante brano musicale sfumò, era la rivisitazione di una nota canzone di Marty Robbins, My love is blu. Dopo una breve pausa e si udirono le note del successivo brano in scaletta, un vecchio successo di Dalidà Quelli eran giorni. La melodia strideva con il contesto circostante.

Il personale del bistrò si trovava in cucina ad armeggiare col grosso frigorifero contenente carne macellata e insaccati, mentre nella sala c’erano pochi avventori: un accaldato sottufficiale della guardia di frontiera sorseggiava una birra fresca appoggiato al bancone del bar, due camionisti croati seduti a un tavolino fumavano sigarette e parlavano con un loro collega turco rimasto bloccato col suo autoarticolato in Jugoslavia a causa della guerra; in disparte, uno dei benzinai della vicina stazione di servizio Petrol discuteva a bassissima voce col cuoco.

Udo gli si avvicinò e interruppe la loro conversazione con una supplica:

«Scusatemi, devo assolutamente telefonare in questo stesso distretto, potreste passarmi una linea che la cabina di fuori non funziona?»

I due, che non si erano accorti della sua presenza si voltarono. I volti erano tesi, da essi traspariva con evidenza la loro preoccupazione.

«Non abbiamo il telefono qui – rispose seccato il cameriere – c’è solo un apparecchio di servizio ma non posso farglielo usare».

«La prego! – insistette Udo – Sono rimasto bloccato qui ma devo assolutamente raggiungere i miei parenti a Solkan, mi aiuti, io non so più cosa fare…»

Nel replicare, il cuoco stavolta fu oltremodo scostante. «Insomma! Ci lasci in pace, non lo vede che cosa sta succedendo! Cosa c’è venuto a fare oggi in Slovenia? E poi, anche volendo, tutte le linee telefoniche o sono sovraccariche oppure vengono disturbate elettronicamente dai federali».

Udo era stanco e fortemente provato dall’emozione e quella risposta sgarbata del cuoco contribuì ad annichilirlo. Per un momento perse le forze e si accasciò su una sedia.

Racchiuse la testa tra le braccia appoggiandola al piano in formica del tavolino, come volesse proteggersi. Istintivamente. Come avrebbe fatto un bambino. Avrebbe voluto sottrarsi a quella brutta situazione.

Ebbe consapevolezza che Joško ormai non si sarebbe più presentato all’appuntamento e, adesso, non aveva più alcuna idea su cosa fare. Il vecchio visse il suo piccolo grande dramma: maturò la convinzione che la sua macchina sarebbe andata perduta.

Non era solo il pensiero della perdita della Fiat 131 ad affliggerlo, quanto tutto l’insieme di cose nel quale era improvvisamente sprofondato quella mattina.

La Jugoslavia si stava rapidamente dissolvendo a poche centinaia di metri da casa sua. Pur senza farsene una ragione, riuscì comunque a percepire che stava assistendo a un mutamento epocale.

In una terra che in qualche modo era anche la sua terra, egli era caduto vittima di circostanze perverse: una apparentemente priva di sostanziale importanza (il recupero della sua vecchia autovettura), l’altra invece molto più grande di lui, i primi fuochi della sanguinosa guerra che avrebbe dilaniato la Jugoslavia.

Era stato risucchiato dalla sua tranquilla esistenza nel vortice del dramma che si andava consumando a cinquecento metri da dove era nato e cresciuto.

Seduto a quel tavolino del bistrò si sentì come un cencio bagnato gettato sul pavimento, inerte e che assume una forma a seconda di come cade per terra.

Inaspettatamente, la voce gentile di un uomo di mezza età gli sussurrò all’orecchio nella lingua madre qualcosa.

«Signore… guardi, se vuole posso accompagnarla io a Solkan. Ho terminato il mio turno di lavoro alla pompa e adesso vado a casa. Lei deve raggiungere Solkan vero!?! Non è così che ha detto prima? Almeno così mi parve di aver capito quando ci ha interrotti».

Udo sollevò lentamente la testa dal tavolino e vide in volto il baffuto benzinaio della Petrol che in precedenza aveva discusso col cuoco. Quell’uomo avrebbe potuto risolvere il suo problema.

«Davvero può portarmi a Solkan? Se lo facesse mi sarebbe veramente di grande aiuto sa…»

Il benzinaio sorrise e annuì col capo.

«Ma certo, stia tranquillo: dieci minuti e ci saremo».

Uscirono dal locale e si diressero al parcheggio dove l’uomo aveva lasciato la sua piccola utilitaria. Aprì con la chiave la portiera dal lato del conducente e salì a bordo, poi alzò la sicura dello sportello destro e anche Udo poté quindi accomodarsi nell’angusto abitacolo.

Partirono alla volta di Solkan e, una volta attraversato il centro di Nova Gorica, in pochi minuti furono a casa di Vesna. Udo si accomiatò ringraziando ripetutamente quella persona così cortese. Ora si sentiva più sereno, anche perché, con sollievo, constatò che la sua macchina si trovava ancora integra parcheggiata là dove l’aveva lasciata.

Suonò il campanello dei Mihalek e dopo pochi istanti la porta dell’abitazione venne aperta da Joško. Alla sua vista rimase sorpreso, una lieve smorfia di disappunto gli segnò il volto.

«Joško! Ma che fai qui? Perché non sei venuto all’appuntamento a Rožna dolina? Tu non sai cosa ho dovuto fare per raggiungere casa vostra…»

Il giovane era visibilmente imbarazzato. Cercò di abbozzare una scusa di circostanza per giustificarsi.

«Ti prego scusarmi, lo vedi tu stesso cosa sta accadendo in Slovenia, in particolare qui al confine. Oggi siamo stati tutto il tempo con le orecchie incollate alla radio: non si capisce più niente. Non si sa più neppure chi comanda veramente a Belgrado, se il governo federale oppure i militari …io ho ritenuto più opportuno rimanere vicino alla mamma, a Jana e a Zdravko, perdonami, davvero».

Udo comprese la situazione e, in fondo, i Mihalek erano sempre stati disponibili nei suoi confronti, dunque non era il caso di farne una questione.

Joško lo fece accomodare in casa, dove, nel piccolo soggiorno, ebbe modo di salutare anche gli altri componenti della famiglia. Erano tutti seduti sul divano a guardare la televisione che trasmetteva le immagini degli scontri armati dei giorni precedenti, quando i carri armati dell’armata federale avevano schiacciato con i cingoli le autovetture delle barricate che la popolazione aveva eretto per bloccare la loro marcia.

Ai lati delle strade, quella stessa gente insultava i militari. Era iniziata la lenta agonia che avrebbe condotto la Jugoslavia alla morte.

In quel soggiorno la più emozionata di tutti era Vesna, che con le lacrime agli occhi si rivolse al cugino.

«Udo, Udo… tu non te ne puoi rendere conto. Tu vivi di là e qui è tutto così triste. Tito è morto da dieci anni e guarda che sta succedendo… oggi gli aeroplani hanno bombardato Šentilj, al confine con l’Austria, e hanno ucciso un poliziotto e dei camionisti turchi che non c’entravano nulla. È una tragedia!»

Dalla credenza Jana prese la bottiglia di rakja e un bicchierino di cristallo, li poggiò sul banchetto di fronte al divano e quindi offrì la grappa a Udo.

Il vecchio si immerse completamente nella pesante atmosfera regnante in quel momento, magneticamente attratto dalle immagini trasmesse dalla televisione e colpito dalla drammatica reazione della cugina.

Non badò a Jana e realizzò che c’era della grappa solo dopo alcuni secondi di apnea mentale.

«Come?!? Ah, sì …sì, la rakja. Cioè voglio dire …no, no. No, non posso bere perché devo guidare. Sono venuto a riprendermi la macchina».

Il piccolo Zdravko, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, si rivolse a Udo con un tono tra l’ironico e l’intimativo.

«Stai scherzando vero? Davvero pensi di andartene in giro oggi con quella macchina? Quando sei passato per Nova Gorica li hai visti i soldati dell’Armata federale coi carri armati?»

Il vecchio rimase interdetto per un istante. Avrebbe voluto insistere e riportarsi indietro la macchina in Italia, ma le parole del ragazzino lo inchiodarono al divano.

«Ma come?!? – cercò di argomentare, ma senza eccessiva convinzione – Io ho attraversato tranquillamente il confine senza problemi e qui mi sembra tutto tranquillo. Che volete che mi facciano… eppoi, in fin dei conti devo percorrere in auto soltanto poche centinaia di metri all’interno della città».

Vesna gli prese con dolcezza le mani e lo esortò ripetutamente a non fare stupidaggini. Lo invitò a restare in casa assieme a loro fino a quando fuori la situazione non si fosse normalizzata.

Joško, al contrario, si mostrò stranamente perentorio, un atteggiamento che non aveva assolutamente mai assunto nei suoi confronti.

«Beh, allora ascoltami bene: tu fai pure come ti pare, però sappi che oggi io non potrò venirti a recuperare da nessuna parte qui in Slovenia, né con la macchina e né a piedi. Quindi pensaci bene prima di muoverti da casa di tua cugina!»

Comprese che si sarebbe dovuto comportare come dicevano loro, i Mihalek non gli avrebbero permesso di andarsene via in macchina e lui quasi si convinse della validità dei consigli che, un po’ a brutto muso, gli avevano dispensato.

Chiese di posteggiare la macchina nella rimessa coperta dietro il prefabbricato, lì dentro sarebbe stata più al sicuro.

Gli dissero che era possibile, allora uscì subito con Joško ed entrò nella 131 parcheggiata di fronte.

Infilò la chiave nel blocco dell’avviamento facendola girare per far partire il motore. Nulla. Il motorino non rispondeva al comando.

Attraverso il finestrino fissò Joško come per riceverne una risposta. Poi fece mente locale e finalmente si rese conto del perché la macchina non andava: due giorni prima, parcheggiandola, non si era reso conto di avere lasciato le lampadine di cortesia interne all’abitacolo accese e adesso la batteria era andata giù, completamente scarica.

Quella macchina sarebbe rimasta ancora parcheggiata lì e questo lo fece ripiombare nuovamente nello sconforto. I Mihalek lo rincuorarono, rassicurandolo che la sera stessa, non appena rientrato dal lavoro, Joško avrebbe trainato la macchina all’interno della rimessa col trattore della cooperativa.

Verso mezzogiorno Joško si allontanò per recarsi al lavoro. Vesna gli strinse le braccia al collo con un trasporto che a Udo parve fuori dal normale. La donna pianse e baciò ripetutamente il figlio.

Joško avrebbe fatto ritorno a casa soltanto in tarda serata e Udo, che era intenzionato a rientrare in Italia nel primo pomeriggio, salutò il giovane. Si avvicinarono anche Jana e Zdravko, anche loro visibilmente emozionati.

Cosa starà mai accadendo, pensò il vecchio. Un’ora dopo i Mihalek consumarono il pranzo e Udo mangiò con loro. Per tutto il tempo rimasero tutti in silenzio, con gli occhi fissi sullo schermo della televisione e le orecchie attaccate alla radio a transistor per apprendere degli eventuali sviluppi della situazione.

Le emittenti locali erano costrette a effettuare dei repentini salti di frequenza per sfuggire alle continue scariche di disturbo lanciate dalle unità di guerra elettronica federali per impedirne le trasmissioni.

Zdravko inseguiva il segnale radio eludendo l’azione di jamming: agiva continuamente sul pomello della sintonia e al contempo, a seconda della necessità, aumentava o riduceva il volume dell’audio regolandolo col potenziometro dell’apparecchio.

Alle quindici il notiziario annunciò che a Belgrado il governo federale presieduto da Ante Marković aveva dichiarato un cessate il fuoco unilaterale, ma da Lubiana fino a quel momento non erano state date risposte. Non si erano pronunciati né il presidente Milan Kučan né il ministro della difesa Janez Janša.

Nella piccola repubblica alpina i combattimenti erano proseguiti e c’erano stati altri morti. Poi gli speaker rilanciarono gli appelli alla popolazione affinché si recasse a donare sangue negli ospedali.

Intanto le ore trascorrevano e si fece pomeriggio. Udo fremeva per tornarsene in Italia a piedi. I Mihalek cercarono in tutti i modi di dissuaderlo facendolo restare da loro, ma Udo, testardamente, declinò l’invito, assolutamente deciso a tornare a Gorizia prima di sera.

Alle diciassette la radio trasmise il consueto bollettino:

La Difesa Territoriale mantiene il controllo della metà dei valichi di frontiera con l’estero. Nella tarda mattinata velivoli dell’aviazione militare jugoslava hanno attaccato l’aeroporto di Brnik bombardandolo. Ingente il bilancio delle vittime civili e dei danni provocati all’infrastruttura. Negli scontri verificatisi fuori dall’aeroporto due giornalisti di nazionalità austriaca sono stati uccisi dal fuoco di un carro armato federale, mentre nella zona interessata dagli scontri i soldati jugoslavi non lasciano avvicinare le ambulanze giunte per prestare soccorso ai feriti. Bombardata anche la città di Dravograd e la strada tra Novo Mesto e Lubiana. Della regione del Prekmurje è giunta la notizia che formazioni di aerei federali hanno attaccato alcune posizioni della Difesa Territoriale slovena nei pressi di Murska Sobota, inoltre vengono segnalati incidenti anche nella vicina Croazia, nella capitale Zagabria e nella città di Osijek, dove la folla ha assaltato i carri armati dell’esercito di Belgrado. Sempre dalla Croazia giunge la notizia che quindicimila turisti stranieri sono stati costretti ad abbandonare i luoghi di villeggiatura e sono stati rimpatriati d’urgenza…

 

 

   «Zdenko: opizdi!» «Devo andare via da qui prima che faccia buio» esclamò improvvisamente, e con uno scatto reso goffo dall’età e dagli acciacchi si diresse velocemente verso la porta.

Ma Joško stavolta non era lì pronto ad accompagnarlo in macchina a Štandrež e lui, da solo, non sarebbe stato in grado di arrivare a piedi il confine prima del tramonto. In condizioni normali in poco più di un’ora di cammino, ce l’avrebbe fatta e da Solkan avrebbe raggiunto la Casa Rossa.

In passato qualche volta gli era capitato di farlo, ma oggi proprio no. Oggi avvertiva la sensazione che il suo fisico non avrebbe retto poiché si sentiva completamente privo di vigore. Era troppo vecchio e spossato dalle forti emozioni di quella brutta giornata, inoltre si era pure appesantito mangiando e bevendo a casa di Vesna. Per lui il valico confinario di Rožna dolina era decisamente troppo lontano da Solkan e raggiungerlo a piedi sarebbe stata un’impresa eccessiva.

Alla fine una soluzione la trovò Jana, che alle cinque e mezzo del pomeriggio si rivolse a un vicino di casa. L’uomo in cambio di cinque marchi tedeschi si disse disponibile ad accompagnare il vecchio a Rožna dolina con la sua macchina.

Era fatta dunque. Udo salutò velocemente tutti e prese posto nella Volkswagen Passat giallo senape del vicino di casa di Vesna, questi mise in moto la vettura e partirono.

Rispetto al mattino attraversarono una Nova Gorica diversa, semideserta. Nella zona del trgovsko središče, il centro commerciale, nonostante l’ora c’era pochissima gente e la maggior parte dei negozi erano chiusi.

Un’altra stranezza la colse lungo la via, poiché tutti i semafori incontrati lampeggiavano giallo, come se si volesse rendere libera e senza impedimenti la strada a chi avesse avuto fretta di passare per andare da qualche parte.

All’angolo di un incrocio, parcheggiata per metà sul marciapiede c’era un’autopattuglia della Milica. La Yugo 511 celeste scuro e bianca, i colori d’istituto della polizia, aveva le portiere anteriori aperte e i lampeggianti spenti.

Uno dei miličniki se ne stava appoggiato con le braccia sulla capote, comunicando via radio con la centrale operativa da quella comoda posizione. Gli altri due, armati di fucile d’assalto, si erano invece appostati dietro la vettura per controllare i movimenti nell’area circostante.

Alla loro vista il vicino di Vesna rallentò. Innestò la marcia più bassa e superò a mezzo gas l’incrocio, riprendendo gradualmente velocità soltanto dopo averlo attraversato.

Non era un posto di blocco vero e proprio, tuttavia in quella particolare situazione conveniva sempre rallentare.

Si erano fatte quasi le sei, Udo se ne rese conto osservando l’orologio al quarzo applicato al cruscotto della macchina.

Si voltò col capo verso destra e, guardando distrattamente fuori dal finestrino, vide un piccolo monumento di granito eretto in memoria dei partigiani della Seconda guerra mondiale. Ai piedi di esso erano state deposte due corone di fiori avvolte dal drappo rosso stellato della Jugoslavia socialista.

Ancora alcune centinaia di metri e ci saremo, pensò nel momento in cui la Passat superava la zona di Grčna, poco prima dell’incrocio sottostante la collina di Panovec. In quel tratto la strada si sarebbe inerpicata su per l’altura che termina a Rožna dolina.

Ma improvvisamente il vicino di Vesna imprecò qualcosa e spaventato si rivolse a Udo.

«I federali! Lo sapevo io che li avremmo incontrati… lo avevano detto anche alla radio che c’erano i soldati nella selva di Trnovo».

Udo volse meccanicamente lo sguardo in quella direzione, verso il Trnovski Gozd e scorse distintamente una piccola colonna di autocarri militari jugoslavi preceduti da una ruspa. Lentamente si avvicinavano nella loro direzione.

«Quelli vanno a rinforzare il presidio al valico – gli disse il vicino di Vesna –, allora ascoltami: adesso io non posso più proseguire oltre, se vuoi ti riporto indietro a Solkan, altrimenti …non so cosa dirti, vedi un po’ tu cosa vuoi fare. Rožna dolina è dietro la collina, puoi provare a raggiungerla a piedi, però devi stare molto attento perché qui oggi forse si sparerà».

Ormai a un passo dal confine con l’Italia, Udo non ci pensò su due volte. Scese dalla macchina e si incamminò su per la strada che risaliva la collina. Soltanto dopo pochi passi, duecento metri al massimo, si sarebbe trovato sul piazzale del confine e da lì avrebbe potuto attraversarlo e tornarsene finalmente a casa. Questo era il suo auspicio.

Passo dopo passo, affaticato dall’età e dal fisico in sovrappeso, in un bagno di sudore e col cuore che batteva forte per la paura, si lasciò alle spalle il monastero di Kostanjevica. Ora alla sua destra poteva vedere la bassa collinetta di Rafut, proprio sotto la città di Gorizia. Era stremato.

Quando il sole non era ancora calato, giunse nei pressi dell’abitato sorto alle pendici della collinetta. Aveva superato i cantieri delle ultime file di palazzine in costruzione a ridosso del grande incrocio di Rožna dolina.

Tutto sembrava tranquillo. Anche se, per la verità, lungo la strada che aveva appena percorso a piedi non aveva incontrato anima viva. Strano segno, pensò.

Udo risentì dello sforzo, tuttavia resistette e proseguì nel suo lento cammino in direzione del confine. A un certo punto, però, dovette rallentare ulteriormente il passo di quella sua marcia forzata.

Lungo quell’ultimo breve segmento di strada rivide la ruspa dell’esercito jugoslavo che mezz’ora prima si trovava in testa all’autocolonna. Dietro il bulldozer c’erano alcuni soldati che parlavano tra loro fumando sigarette.

Più avanti, all’angolo dell’incrocio, sul lato della stazione di servizio, vide alcune persone e qualche automobile in sosta accanto al marciapiede. Girò a destra per raggiungere il posto di confine evitando di passare vicino al boschetto che lo separava dal Bistrò Rožna dolina, poiché lì dentro aveva intravisto alcuni militari appostati tra gli alberi e i cespugli. Non avevano un atteggiamento ostile, al contrario, continuavano a sorridere verso gli obiettivi delle videocamere dei reporter delle televisioni estere facendo sempre il segno di vittoria con le dita.

«Siamo qui perché gli italiani vogliono invadere la Jugoslavia e dobbiamo difendere i confini nazionali».

Sentì affermare ad alta voce ma senza troppa convinzione da uno di questi, un graduato che rispondeva alla domanda di un giornalista inglese sulle ragioni della loro presenza in quel luogo.

Malgrado i numerosi mezzi corazzati schierati a ridosso della frontiera, questa immagine non lo impressionò. Udo mantenne la calma anche quando passò davanti all’agenzia viaggi Kompas Jugoslavija. A due metri da essa c’era un carro armato col cannone puntato verso l’abitato di Nova Gorica.

Superò l’agenzia viaggi e giunse al Duty Free Shop. Adesso sì che aveva quasi un piede in Italia. Il fatto che il confine fosse aperto lo rasserenò. Gli restavano da percorrere meno di trenta metri e sarebbe arrivato al gabbiotto dove avrebbe mostrato il suo lasciapassare alla guardia.

Controllò che ora fosse sul quadrante del suo vecchio cronografo da polso dal cinturino in pelle: le lancette segnavano le sei e mezza.

Sapeva bene, però, che non si trattava dell’ora esatta, infatti, l’orologio andava un po’ avanti, o meglio, in realtà andava indietro, dato che perdeva quasi quindici minuti nell’arco di un giornata. Per questa ragione ogni mattina quando lo caricava, spostava le lancette un quarto d’ora più avanti.

Rifletté che all’incirca si erano dovute fare le sei e venti. Diede un ultimo sguardo ai militari jugoslavi che presidiavano la sbarra di confine. Era davvero fatta.

Invece no. Poiché improvvisamente una voce dura e determinata amplificata da un megafono riecheggiò tutt’intorno.

«Sono il maggiore Srečko Lisjak della Difesa territoriale slovena: arrendetevi altrimenti inizieremo ad attaccarvi!»

Udo restò impietrito. Si voltò nella direzione dalla quale era provenuta quella voce e vide le persone che erano all’angolo della strada fuggire verso il distributore di benzina. Alcuni poliziotti sloveni in abiti civili esibirono i loro tesserini identificativi alla gente e ai giornalisti stranieri esortando tutti ad allontanarsi rapidamente e a mettersi ai ripari.

I militari federali non si aspettavano un attacco, quindi all’intimazione degli sloveni tentarono di prendere posizione assumendo rapidamente un assetto tattico.

I piloti dei carri armati si infilarono nei loro mezzi chiudendo subito dopo i portelloni d’acciaio. Avviarono i motori diesel, che sbuffarono calde e maleodoranti nuvole nere di gasolio dagli scarichi.

Udo era rimasto allo scoperto proprio accanto a uno di quei mezzi corazzati. Cercò allora un rifugio che fosse il meno distante possibile da dove si trovava.

Poteva essere l’agenzia viaggi. Sì, l’agenzia viaggi.

La raggiunse e si gettò di peso sulla porta a vetri. Picchiò forte coi pugni per farsi aprire dagli impiegati che erano dentro. Da sotto il bancone spuntò una signorina bianca in volto per la paura, avrà avuto al massimo venticinque anni.

«Apra la prego!» supplicò Udo. In un primo momento la ragazza indugiò, poi però si avvicinò alla porta per aprirla. Udo ebbe un lieve mancamento, ma si sforzò di restare in piedi almeno per entrare e ripararsi dietro al bancone assieme agli altri.

I secondi gli parvero un’eternità. Finalmente la ragazza aprì la porta. Nel preciso istante in cui Udo varcò la soglia dell’agenzia viaggi gli uomini della Difesa Territoriale lanciarono il primo razzo contro i militari dell’Armata federale.

«Zdenko: opizdi!»

Zdenko: sbattiglielo dentro! Una volgare ma efficace espressione castrense dagli espliciti riferimenti sessuali, quella utilizzata in quel drammatico frangente da Srečko Lisjak, l’ufficiale alla guida del commando della Teritorijalna Obramba, per impartire l’ordine al caporale che era al suo fianco di sparare il micidiale Armbrust-300 contro uno dei T-55 jugoslavi che bloccavano l’accesso al confine con l’Italia.

E in quel tardo pomeriggio d’estate Zdenko, dalla sua posizione protetta al primo piano dell’edificio in costruzione alle pendici della collinetta, eseguì l’ordine azionando il lanciarazzi di produzione tedesca che aveva tra le mani.

Con una piccola vampa il razzo da ottanta millimetri lasciò il tubo di lancio per seguire la breve e tesa traiettoria che lo avrebbe portato a impattare contro l’acciaio del carro armato nemico. Lo colpì in uno dei suoi punti più vulnerabili: lo scafo, al di sotto del cingolo.

Udo si trovava lì vicino e avvertì distintamente il fragoroso boato. Il forte spostamento d’aria generato dall’esplosione investì sia lui che tutti quelli che avevano trovato rifugio all’interno dell’agenzia viaggi, che vennero sbalzati in terra.

Udo non conosceva gli effetti dell’esplosione di una carica cava. Immagini del genere non ne aveva mai viste. Per l’equipaggio a bordo del carro armato colpito fu l’inferno. Infatti, quando una carica cava perfora la corazza, il più delle volte non c’è scampo per nessuno. Il jet incandescente che la perfora, all’interno del mezzo crea una zona di distruzione bruciando tutto ciò che c’è. Attorno al suo percorso mortale si genera poi un’onda d’urto e una luminosità che acceca i membri dell’equipaggio eventualmente sopravvissuti all’esplosione.

Ma non basta, poiché i frammenti incandescenti di metallo che inevitabilmente si distaccano dalla parte interna della corazza del mezzo vengono proiettati contro gli uomini che stanno dentro.

Mentre il carro armato iniziò a bruciare Udo si appiattì in terra dietro al bancone. Dopo poco, l’esplosione della riservetta delle munizioni del primo mezzo corazzato colpito trasmise i suoi effetti all’altro carro armato fermo davanti all’agenzia viaggi e anche questo iniziò lentamente a bruciare.

Sul piazzale proseguirono i combattimenti. Gli sloveni lanciarono altri razzi, uno colpì in pieno il vomere della ruspa dietro la quale avevano cercato di ripararsi dal fuoco nemico alcuni militari jugoslavi. Uno di essi stramazzò a terra morto, gli altri rimasero feriti.

La maggior parte degli jugoslavi non riuscì a individuare le posizioni degli attaccanti, molti soldati spararono quindi alla cieca. Tra questi, il comandante del carro armato davanti alla stazione di servizio, che fece fuoco all’impazzata con la mitragliatrice pesante installata in torretta.

Sia lui che gli uomini del suo equipaggio caddero in preda al panico e brandeggiarono la torretta del loro carro nella direzione opposta a quella del valico di confine, mitragliando il viale che conduceva alla zona residenziale e il palazzo della società Primex.

A differenza del fuoco estremamente selettivo generato dal commando sloveno, gli jugoslavi, bloccati nelle loro posizioni e privi di campo di tiro, si videro costretti a sparare in modo confuso, convinti che gli attacchi provenissero da tutte le direzioni.

Non durò molto, poiché ben presto i soldati dell’Armata federale si arresero. Il loro comandante, un capitano di etnia croata, venne colpito e non fu più nelle condizioni di guidare la sua unità.

Il valico confinario tornò nuovamente nelle mani delle forze di Lubiana. Avuta certezza della definitiva cessazione dei combattimenti, le persone rifugiatesi nell’agenzia viaggi uscirono all’aperto.

Una volta fuori, Udo vide i militari jugoslavi catturati dagli sloveni che venivano fatti sdraiare in terra con le mani sulla testa.

A sirene spiegate iniziarono ad affluire le ambulanze e i feriti vennero trasportati negli ospedali.

Udo era inebetito: lo spavento, la stanchezza e il caldo lo avevano completamente spossato. Si sentì debole e avrebbe voluto farsi visitare da un medico, tuttavia l’idea di restare ancora un minuto in quell’inferno preferì comunque rientrare al più presto in Italia. Solo cinquanta metri più in là.

Si incamminò barcollando verso la sbarra di confine, ma prima si voltò per un‘ultima volta a guardare il piazzale dov’era avvenuto il combattimento. Tra i carri armati in fiamme notò un miliziano della Territoriale armato di un fucile diverso da quello che avevano gli altri sloveni, un’arma più lunga con un’ottica di precisione fissata alla canna. A prima vista sembrava il fucile di precisione di un cacciatore.

Rimase interdetto alla vista di quel tiratore scelto, perché quel giorno il destino gli aveva riservato un’ultima sorpresa. Stentò a credere a ciò che vedeva: quel cecchino era il “piccolo” Joško, il figlio di Vesna. Il ragazzo faceva parte del commando che aveva teso l’agguato all’unità corazzata jugoslava.

Si trascinò fino a lui. In quella confusione, tra tutta quella gente che si trovava sul piazzale, Joško lo riconobbe egualmente immediatamente. Gli si fece incontro a sua volta.

Udo avrebbe voluto abbracciarlo, anche per scaricare l’enorme tensione accumulata. Dalla persona cara avrebbe voluto ricevere un gesto di affetto, l’implicita conferma che tutto fosse davvero finito.

Ma stavolta il figlio di Vesna non usò mezzi termini e lo rimproverò severamente. A suo avviso Udo aveva veramente passato il limite.

«Ma che cazzo ci fai qui! Diamine, te lo sei proprio bevuto tutto il cervello… tu e quella maledetta macchina che ha centomila anni!!! Guarda Udo, Guarda… lo hai capito che qui c’è la guerra oppure no? Filatene immediatamente di là in Italia e vedi di sbrigarti finché il confine resta aperto, che se i federali tornano e ci bombardano con gli aerei qui succede un casino!»

 

 

   Gorizia/Guriza. Il rimprovero ricevuto da Joško era stato severo, ma non gli fece male. Era certo che presto, col calmarsi della situazione, avrebbe potuto fare ritorno a Solkan dove sarebbe stato riaccolto con lo stesso affetto di sempre. Sapeva che i Mihalek gli volevano bene.

Ora però voleva soltanto passare quel maledetto confine con l’Italia e restarsene in un luogo tranquillo. In un caffè per esempio, dove ci fosse gente a conversare e a ridere, con la televisione accesa che trasmettesse qualcosa che non fosse guerra o ammazzamenti. Insomma, un luogo familiare dove la vita apparisse normale malgrado si stesse combattendo una guerra a cinquecento metri di distanza.

Varcò il confine con la Repubblica italiana aggirando la sbarra abbassata senza che al suo passaggio gli agenti della Guardia di Finanza ritornati alle loro postazioni gli controllassero il passaporto. Soltanto uno di loro diede una rapida occhiata a distanza alla copertina per sincerarsi se quel documento non fosse di un cittadino straniero.

In quel momento gli occhi di poliziotti e finanzieri erano fissi sul versante jugoslavo.

«Sono italiano! Sono italiano!»

Gli gridò Udo, ma la guardia non si curò minimamente di lui, era troppo presa da ciò che stava succedendo trenta metri più avanti.

Alla vista dei primi combattenti della Difesa Territoriale slovena i finanzieri si sbracciarono per salutarli urlandogli: «Amici! Amici!»

Ancora molto spaventato, il vecchio si lasciò finalmente il confine alle spalle. Vagò stralunato nel deserto d’asfalto del grande piazzale della Casa Rossa. Era agitato e cercava un luogo dove riposarsi e prendere fiato. Doveva appagare il suo bisogno di sicurezza trovando ristoro nella gente, immergendosi tra le persone affaccendate nelle normali attività quotidiane.

Il sole era quasi del tutto tramontato. Gli mancarono le forze. Sono vecchio, pensò, e anche se è sera fa ancora molto caldo.

Lo soffriva il caldo dell’estate, in particolare in quel momento, ma volle proseguire egualmente sulla strada che conduceva in centro città. In via Roma, da dove avrebbe raggiunto Piazza della Vittoria, lì avrebbe sicuramente trovato molta gente.

Nelle strade circostanti i vigili urbani del Comune di Gorizia avevano predisposto la cinturazione dell’area per evitare che la gente potesse raggiungere il piazzale del confine, era ancora pericoloso.

Udo ebbe un mancamento e si appoggiò a un muro per sorreggersi. Un vigile lo vide accasciarsi e gli corse incontro per prestargli aiuto.

«Signore che ha… si sente male? Vuole che chiami un’ambulanza?»

Udo fece cenno di no con la mano, poi rassicurò il vigile.

«Non è nulla non si preoccupi, grazie. Sono solo un po’ stanco, sa, sono appena rimasto coinvolto nella battaglia qui oltre il confine».

L’agente della municipale insistette, ma alla fine Udo lo convinse che non aveva bisogno di un medico e ce l’avrebbe fatta da solo. Lo ringraziò e riprese a camminare su per la salita.

Più avanti, notò degli anomali e molto discreti movimenti di uomini dell’esercito italiano, qualche camionetta era stata fatta uscire dalle caserme. I militari erano in preallarme, la battaglia di Rožna Dolina aveva elevato il livello di all’erta.

Le difese alla Casa rossa sarebbero state approntate in serata, con l’arrivo da Gradisca d’Isonzo delle squadre di fanteria armate di missili controcarro. Uno schieramento preventivo nell’eventualità che gli jugoslavi sconfinassero di qua con i loro mezzi corazzati.

Si lascò alle spalle anche i soldati italiani. Raggiunse i pressi di Piazza della Vittoria. Lì entrò in un elegante caffè. Gli avventori commentavano ciò che era accaduto poco prima nella vicina Jugoslavia. Alcuni di loro vi avevano assistito in prima persona affacciati dagli spalti del Castello che domina l’area di Rožna Dolina.

Ai goriziani erano giunti nitidi i rumori dei colpi sparati in Slovenia, la guerra aveva lambito la loro città.

Udo si sedette su uno sgabello appoggiandosi al bancone con un braccio. Riprese fiato e quindi si rivolse alla giovane barista.

«Potrei avere una grappa e una fetta di gubana alla slivovica per piacere?»

La ragazza chiese come voleva la grappa.

«La gradisce “prime uve” oppure un’altra?»

Udo sospirò con voce flebile che sarebbe andata bene qualsiasi cosa purché alcolica.

Lasciò lo sgabello per sedersi su una sedia più comoda accanto a uno dei tavolini liberi e lì attese che la cameriera gli portasse il distillato. Si guardò intorno e notò che il bar pasticceria era gremito di persone. C’erano anche un paio di belle signore eleganti intente a consumare gli ultimi aperitivi freschi prima della cena.

In un attimo, allontanata la solitudine, provò un’immensa felicità per il fatto di essere ancora vivo. Sentì salire un groppo su per la gola. Avrebbe voluto piangere e, non riuscendo a trattenere l’emozione, esplose comunque in una terribile risata sardonica. Un riso amaro che si trasformò rapidamente in un singhiozzo.

Gorizia, Gorica, Guriza, pensò, in quanti modi posso chiamarti casa mia.

Sopraggiunse la cameriera e gli portò la grappa. Adesso poteva finalmente bere, affogando così la sua tensione nell’alcole.

Una grappa e poi un’altra. Ordinò anche una fetta di gubana alla slivovica, ma purtroppo in quel caffè al momento non ne avevano. Avevano soltanto la gubana normale, quella che si compera negli scatoloni al supermercato. Andò bene lo stesso e, quando la cameriera gli portò il dolce di cui era ghiotto, lui lo mangiò avidamente.

Non guardò più l’orologio. Il tempo adesso non aveva più importanza per lui, non lo assillava più nulla.

Erano le nove e mezza. Si rilassò completamente. In quella maledetta calda serata d’estate, a casa, giù a Štandrež, non ci voleva proprio tornare. Se avesse potuto, sarebbe rimasto seduto al tavolino del bar tutta la notte. Fino all’alba, al sorgere del sole.

Desiderava che lì, in mezzo alla gente, il tempo si fermasse. Anche se non parlava con loro, l’importante era che attorno a lui ci fossero. In allegria.

Stava per finire di mangiare la sua fetta di dolce quando nel locale calò il silenzio. Era sempre la televisione che si imponeva su tutti, ora stavano per trasmettere il notiziario di mezza sera. Gli avventori tacquero e ascoltarono le ultime notizie sulla guerra.

Buonasera. Mentre nel corso dei combattimenti avvenuti nella giornata di oggi l’esercito jugoslavo avrebbe riconquistato diciassette dei circa trenta valichi di confine presenti in Slovenia, lasciando i restanti nelle mani di Lubiana, poco fa si è appreso che alle ventuno e trenta sarebbe stato diramato ufficialmente l’annuncio del cessate il fuoco.

Si tratterebbe anche del risultato della forte pressione esercitata dalla Comunità economica europea, infatti la “troika” europea, formata dai ministri degli esteri italiano De Michelis, lussemburghese Poos e olandese Van der Broek, nel corso di convulse trattative condotte dapprima nella capitale federale Belgrado e successivamente a Zagabria, ha ribadito alle parti in conflitto la decisione europea di sospendere gli aiuti destinati al governo jugoslavo, avviando in questo modo il meccanismo di crisi previsto della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.

La ferma richiesta di Bruxelles è quella di una moratoria di tre mesi, con il rientro nelle caserme di tutte le forze attualmente in campo…

Dopo che terminò di leggere la notizia di apertura del telegiornale riguardante il conflitto in Slovenia, la voce della giornalista sfumò gradualmente coperta dal crescente brusio degli astanti. Presto tornò a prevalere il normale vociare che c’era nel locale prima che la televisione trasmettesse il notiziario.

Stanco e obnubilato dalla grappa, dei lanci di agenzia letti dalla giornalista Udo era riuscito a recepire soltanto alcune parole.

Sarà pure una buona notizia, pensò, ma la tregua reggerà per davvero?

Dal crocchio di persone che discutevano sedute in fondo della sala si udirono alcune voci più animate delle altre. Udo non ci badò, non comprese neppure di cosa stessero discutendo con quei toni così animati. Ritenne che probabilmente stessero litigando per dei fatti personali.

A un tratto però, una voce sguaiata e resa roca dall’alcole sovrastò le altre:

«Basta! Han rotto i coglioni… che i slavi si accoppassero tutti tra loro e fine!!!»

(5) continua

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