Ieri nella città di Vladivostok, ha avuto luogo l’incontro tra il presidente russo Vladimir Putin e il leader nordcoreano Kim Jong Un.
Ufficialmente, i due capi di stato hanno assunto reciproci impegni allo scopo di approfondire le relazioni bilaterali e incrementare il livello di cooperazione tra i due paesi nei settori del commercio, dell’economia, della scienza e della tecnologia.
Ma, ovviamente, all’interno del campus universitario situato sull’isola di Russkij che ha ospitato il vertice si è parlato anche (o forse principalmente) di altro. In discussione, infine, anche la questione degli immigrati nordcoreani in Russia, che – teoricamente – dovrebbero venire a breve rimpatriati.
Il summit in Russia. Sceso dal treno blindato di colore giallo-verde, il capo comunista di Pyongyang, così diverso nei comportamenti pubblici da suo padre (Kim Jong Il) e da suo nonno (il mitologico Kim Il Sung), gioca ogni volta in maniera spregiudicata la carta mediatica, presentandosi all’opinione pubblica internazionale e al popolo nordcoreano nelle vesti di un leader al passo con i tempi.
Tuttavia, con l’ex colonnello del Kgb di stanza a Dresda, egli di nucleare e missili non può non averci parlato.
Di ufficiale c’è che Putin ha rinnovato a Kim la proposta di affrontare lo specifico dossier nell’ambito di un contesto multilaterale, il ritorno al tavolo a sei, al quale nel recente passato hanno seduto e due Coree, la Cina, la Russia e gli Usa.
Tutto apparentemente un po’ sottotraccia, al termine dell’incontro i due leader non hanno rilasciato dichiarazioni congiunte e neppure firmato documenti comuni. Il summit viene tuttavia considerato un evento storico, poiché era da tempo che i capi dei due paesi non discuteva su come addivenire a una normalizzazione della situazione.
Mosca, come del resto la stessa Pyongyang, e Seul sono contrarie a “strappi”, e in tale ottica inquadrano anche il problema delle sanzioni economiche internazionali. Una politica impostata alla gradualità, che conduca alla rinuncia (secondo varie modalità) al programma nucleare nordcoreano attraverso una serie di concessioni nel tempo.
Non si dovrebbe tirare eccessivamente la corda, dunque, evitando politiche eccessivamente assertive e avventuriste che, invece, stanno caratterizzando quest’ultima amministrazione repubblicana alla Casa Bianca.
Si tratta di un modo per cercare di garantire al regime comunista una qualche garanzia sulla propria sopravvivenza, aspetto al momento che riveste la maggiore importanza nei pensieri del capo supremo e della schiera di nomenklaturisti (sia militari che del partito) che formano assieme a lui la piramide del potere di Pyongynag.
Da parte russa, dopo la conclusione del vertice, sono stati sottolineati gli aspetti relativi alla cooperazione in campo energetico tra i due Paesi, come quelli delle comunicazioni, in primo luogo il collegamento della linea ferroviaria transiberiana con la rete nordcoreana.
Se davvero realizzate, nel futuro due condotte (un gasdotto e un oleodotto) alimenterebbero con le materie prime energetiche russe due paesi industrializzati particolarmente energivori, la Corea del Sud e il Giappone (cioè la quarta e la seconda economia del continente asiatico).
Conclusosi il vertice a Vladivostok, Putin è partito alla volta di Pechino, dove in mattinata, nel corso del secondo forum sull’iniziativa della Nuova Via della Seta, ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping.
Dinastia e nomenklatura. Le componenti del potere. Esiste una corposa nomenklatura che vive attorno alla dinastia Kim, unitamente all’estesa e capillare organizzazione militare che, per certi aspetti risulta coessenziale alla linea del vertice politico (è la teoria cosiddetta dell’esercito al centro), seppure costituisca una massa critica dirimente nelle scelte strategiche fondamentali per la vita del regime.
Ma qual è l’equilibrio di potere a Pyongyang? All’inizio il nuovo leader, Kim Jong Un, era strettamente controllato all’interno di una cornice che racchiudeva il cerchio magico dei nomenklaturisti vicini alla “dinastia” i vertici delle forze armate e il Partito del Lavoro. Dunque, tutte le aperture riscontrate in quel periodo erano espressione della preponderanza o della condivisione delle scelte dei gruppi di potere in essere in quella specifica fase storica.
All’estero della Corea del Nord si conosce molto poco. È un paese isolato, dall’interno non filtrano notizie, ma anche ciò che gli perviene dall’esterno viene filtrato dagli organi della censura e della propaganda del regime.
Dalla sua fondazione, quindi dalla liberazione dall’occupazione militare giapponese alla fine della Seconda guerra mondiale, alla guida dello stato si è insediato un gruppo di potere che ha fatto (e tuttora fa) capo a una dinastia, i Kim appunto, che rinviene in Kim Il Sung il suo capostipite.
L’ultima “successione” sul trono comunista di Pyongyang è stata quella che ha comportato per il sistema maggiori difficoltà, poiché i figli dell’ultimo leader (Kim Il Jong, deceduto per un cancro) erano tre, dunque si posero problemi di successione, dunque, i decisori del momento sono dovuti pervenire a una selezione.
Prevalse il terzogenito, il giovane Kim Jong Un, quale risultato di una dialettica tutta interna alle segretissime stanze dei palazzi di potere della capitale. In ogni caso, la transizione per via dinastica (cosa, per altro, che non si era verificata nella Cina di Mao Zedong) si è perpetuata.
Tuttavia si è trattato di una transizione del tutto anomala, poiché quando il padre fondatore della Corea del Nord, Kim Il Sung, lasciò la guida del paese a suo figlio Kim Jong Il, questo avvenne dopo un periodo di affiancamento di quindici anni, con la conseguenza che la popolazione era stata resa perfettamente consapevole che sarebbe stato lui (il figlio) il successore del Grande Leader, un “rampollo” che, in ogni caso, aveva avuto modo di formarsi a fianco di suo padre.
Ma tutto questo non si è ripetuto nella successione seguente, non ostante da anni fosse stata fatta trapelare la notizia che Kim Jong Il fosse gravemente malato nessuno mai fece riferimento, neanche indirettamente, a una successione.
I figli dell’Amato Leader erano tre e il vero successore, fino a qualche tempo prima dell’investitura, si riteneva avrebbe dovuto essere il primogenito, che poi espatriò.
Da quel momento divampò una guerra dinastica tra i due, duramente combattuta sia sotterraneamente che in superficie, sui media internazionali, con accuse di incapacità e colpi estremamente bassi, col secondogenito che assumeva una posizione estremamente defilata.
La popolazione nordcoreana si è quindi trovata di fronte una nuova guida per la cui accettazione non aveva ricevuto adeguata preparazione, con, però, un altro pretendente al “trono” che si trovava all’estero e lottava duramente per acquisire la preminenza nel paese.
Tutto questo ha comportato che al momento del suo insediamento il giovane Kim Jong Un, si è quindi trovato costretto a dover dimostrare ai coreani non solo di avere il focus sulle priorità del paese e di essere un erede legittimo di suo padre, ma anche di essere forte.
Non è un caso che nel suo primo discorso pubblico da leader abbia coniato lo slogan «verso la vittoria finale», che alle orecchie dei nordcoreani assunse il significato della volontà di lottare per la riunificazione con il Sud, proponendosi così come la guida del popolo che avrebbe conseguito l’obiettivo mancato sia da suo padre che da suo nonno. Voleva convincere tutti di essere veramente all’altezza di realizzare questo sogno.
È da qui che si ingenerarono le incertezze, soprattutto in Occidente, sui reali obiettivi del nuovo corso di Pyongyang, malgrado si trattasse di una fase di consolidamento di potere tutta interna al regime.
I militari. Dietro di lui agirono i suoi due potenti zii, elementi apicali della nomenklatura con saldi legami con Pechino, e anche i militari.
A questo specifico riguardo va ricordato che Kim Jong Un ha ricevuto in maniera fulminea la nomina a generale di armata – per la precisione indicato come «il rispettabile Maresciallo» – pur non avendo neppure percorso la carriera fittizia di suo padre, né tantomeno quella di suo nonno, Kim Il Sung, che combatté contro gli occupanti giapponesi.
Ovviamente si rese impellente conferirgli un casato adeguato e sufficiente al ruolo.
Un paese chiuso in sé stesso. La Corea si è chiusa in sé stessa rifiutando qualsiasi contatto con l’esterno. Ha ricreato sugli schemi orientali una società che rifiuta il contatto con l’Occidente, sacralizzando la propria tradizione e, inevitabilmente, le figure dei “padri della Patria”. Ma questo grazie all’arma atomica.
La capitale. Pyongyang, il maggiore centro urbano della Corea del Nord, la sede di tutto. Quello che offre le maggiori opportunità a chi è, in diverso modo e misura, nelle grazie dell’apparato.
Il resto del paese è estremamente omogeneo: campagne, fattorie collettive, vita semplice, scarsità di beni.
Il regime si tiene in piedi grazie al combinato composto di fedeltà quasi messianica nei confronti dei propri leader – il «Grande Leader», «l’Amato Leader» e così via, che per effetto congiunto di cultura orientale e propaganda vengono incarnati nelle figure di “semi-divinità” – e per il terrore, ormai da generazione metabolico, nei confronti della certa repressione e punizione di chi si oppone, o peggio fugge all’estero. Infatti pochi tentano la fuga.
Ma quei pochi che lo fanno, i cosiddetti «disertori» espongono alla ritorsione le loro famiglie, che dal momento della defezione del loro parente non vivranno più quella quotidianità che aveva caratterizzato le loro esistenze nel passato.
Il nucleare. Per il regime di Pyongyang il nucleare è un elemento di fondamentale valenza sia esterna che interna, poiché il potenziale nucleare (reale o presunto che possa essere stato) ha rappresentato la migliore garanzia per la stabilità dell’articolato gruppo di potere, di risulta al potere politico è direttamente legato. Si potrebbe affermare che a Pyongyang – nonostante i desiderata di alcune amministrazioni Usa – non si è verificato un regime change proprio perché lì hanno l’atomica.
Non solo: la potenza nucleare compatta anche il consenso interno, poiché essere uno “stato nucleare” rinsalda lo spirito patriottico di un’etnia – e questo non deve essere dimenticato – che è la stessa dei giapponesi, in buona parte culturalmente, in toto sul piano della determinazione. Un valore (quasi) puramente psicologico.
Tutto questo in parte spiega perché la Corea del Nord sia l’unico stato ad aver effettuato esperimenti nucleari dopo il 1998.
Per la Corea del Nord il nucleare è essenziale purché ci sia, non occorre che vengano raggiunti livelli capacitivi eccessivi, poiché per sopravvivere gli basta molto meno.
I test effettuati, infatti, hanno raggiunto picchi di potenza inferiori agli ordigni americani che hanno raso al suolo Hiroshima e Nagasaki, quando (chissà) non si trattava addirittura di quantità spropositate di tritolo fatte esplodere in galleria in modo da far poi rilevare l’evento dai sismografi e dalle altre apparecchiature delle intelligence degli altri paesi.
Una garanzia nei confronti dei potenziali aggressori. Non tanto delle armate Usa schierate al 38º parallelo dalla fine della guerra del 1950, quanto dei tentativi di destabilizzazione finalizzati a “golpe di palazzo” che porterebbero a una diversa dirigenza alla guida del paese.
Questo mentre i progressi in campo missilistico (sempre partendo dall’originaria matrice dell’evoluzione sovietica della tedesca della V2, lo SCUD) costituiscono l’altra gamba della struttura: testata nucleare e vettore che la recapita sul bersaglio.
Un paese povero come quello ha da sempre investito notevolmente sul nucleare. Più che sull’energia elettrica, come dimostrano le immagini notturne satellitari della penisola, con una Seul e una Corea del Sud flamboyant e, a settentrione, oltre la linea di frontiera, il buio, eccezion fatta per il “lumicino” acceso della capitale.
Nel 2017 gli scienziati cinesi fornirono ai loro colleghi americani (al tempo era ancora presidente Barack Obama) dei dati inquietanti sul potenziale nucleare nordcoreano: Pyongyang – a detta loro – in quel momento non avrebbe posseduto soltanto cinque testate belliche, bensì venti con, però una capacità di raddoppiarne il numero in un anno.
I test effettuati dalle forze armate nordcoreane, anche con testate all’idrogeno, per quanto imprecisi hanno confermato le capacità acquisite nel settore. I tecnici di Pyongyang – e questo è confermato da fonti ufficiali Usa – hanno acquisito la capacità di miniaturizzare le testate nucleari e, dunque, di inserirle all’interno delle ogive dei loro vettori missilistici balistici con gittata di medio-lungo raggio.
Il dialogo possibile e quello che non c’è: all’inizio c’era la «Sunshine Policy». Le iniziative sulla quale si articolò la cosiddetta Sunshine Policy furono tre, tutte e tre legate a settori chiave dei rapporti tra le due Coree:
il primo di natura economico-commerciale, con l’apertura di una zona economica esclusiva, in seguito rimasta in fase di stallo, comunque molto importante sui piani simbolico ed economico. Questo perché istituita nella zona dove un tempo era la capitale del Regno di Corea, sul territorio della Corea del Nord (quindi un punto segnato da Pyongyang, che alla firma dell’armistizio di Panmunjeom del 1953 riuscì a mantenere il controllo sulla vecchia capitale) e poi perché rappresentò un buon punto di partenza per rilanciare il dialogo tra i due paesi.
Evidenti i vantaggi commerciali da entrambe le parti: per la Corea del Sud significava l’accesso a manodopera a buon mercato e possibilità di delocalizzare al nord (a ridosso dal confine) le aziende, una pratica molto più conveniente rispetto alle delocalizzazioni in Cina e in Vietnam.
Per il nord rappresentava un tentativo di rilancio del processo di sviluppo economico-industriale con conseguenti introiti in valuta pregiata funzionali sia all’ammortizzamento della povertà che al funzionamento del regime e vantaggi sensibili per i cittadini del nord impiegati in queste aziende, dove le condizioni di lavoro e le retribuzioni erano di molto superiori alla media del loro paese. Questa zona economica esclusiva in seguito è stata chiusa;
la seconda iniziativa sulla quale si articolava la Sunshine Policy era quella relativa al turismo: sempre sottoposti a una stringente serie di limitazioni, anche i coreani del sud poterono, a certe condizioni, visitare il Nord.
Un’iniziativa che ha riscosso un parziale successo. Anche questa iniziativa ha subito un’interruzione a causa di un’incidente verificatosi nel 2008, quando una donna sudcoreana venne uccisa da un militare nordcoreano perché aveva si era introdotta in un orario non consentito in un’area fuori dagli itinerari autorizzati ai turisti;
la terza iniziativa sulla quale si articolava la Sunshine Policy riguardava i ricongiungimenti familiari. In Corea almeno dieci milioni di famiglie sono state divise dagli eventi bellici e dalla conseguente separazione tra le due parti della penisola.
Prima e dopo il conflitto degli anni Cinquanta, però, si sono verificati dei sequestri di persona, di cui sono rimasti vittime in particolare quelli che si trovavano a sud del 38º parallelo. Esiste quindi ancora un capitolo aperto, inoltre molte famiglie sono rimaste separate.
Se fino a poco prima della Sunshine Policy sarebbe stato impensabile far rincontrare queste persone, in seguito è invece stato possibile.
Decine di migliaia di persone hanno registrato le loro generalità in database attraverso i quali poterono successivamente venire rintracciate e contattate per poi incontrarsi con i propri congiunti in un albergo o in un resort o, comunque, in una zona dove i due governi coreani avessero accettato di far avvenire questi contatti dopo tanti anni.
La Sunshine Policy rappresentò un grosso passo in avanti nella distensione tra le due Coree. Essa è stata la prima via di apertura che avrebbe potuto condurre a equilibri diversi nella penisola.
Fine della Sunshine Policy. Finita l’èra della Sunshine Policy degli anni Duemila (per molti sudcoreani sarebbe stata soltanto «un dare e non un ricevere») quali sono le concrete possibilità che la dirigenza di Pyongyang muti la propria linea nel senso di un dialogo maggiore? Come conseguire l’obiettivo principale, quello della de-nuclearizzazione della penisola?
È notevole la capacità di influenza esercitabile da Pechino sul vicino (confinante) nordcoreano. È importante nel tentativo di Dialogo – si legga: pressioni – sulla Corea del Nord, ma fino a un certo punto. Quando nel 2013 Pyongyang effettuò i suoi test nucleari Pechino non nascose la sua irritazione, minacciando velatamente il Paese “fratello”.
Dal 1961 Cina Popolare e Corea del Nord sono legate da un trattato di pace, amicizia e cooperazione. Si tratta di un patto difensivo concepito nell’eventualità uno dei due contraenti venisse attaccato militarmente da un terzo soggetto. Questo, teoricamente, implicherebbe per Pyongyang l’inutilità di una corsa all’arma atomica, poiché essa è in possesso del potente alleato confinante.
Perché dunque, un paese che dipende quasi totalmente dal suo vicino (la Cina, infatti, rappresenta l’unica – meglio: la più consistente – via di transito – per i rifornimenti di ogni genere e per i traffici di contrabbando verso la Corea del Nord) poi riesce a perseguire le sue politiche “di testa sua”?
Forse si è ingenerata un crisi di fiducia tra l’alleato minore e quello maggiore. Il regime nordcoreano, istintivamente, vuole continuare a sopravvivere, quindi agisce sulla base dei suoi punti di forza. Gli esempi che gli si prospettano sono oltremodo evidenti: Iraq, Libia, primavere arabe, Siria. Ecco quindi le alzate di testa di Pyongyang e i pugni battuti sui tavoli internazionali.
Ma, esiste una linea rossa? Oltre a brandire la minaccia in maniera simbolica, Pyongyang sarebbe davvero in grado di utilizzare l’arma atomica? Qui prevale il pragmatismo.
Chiunque possiede l’atomica e sa che essa implica la distruzione totale è destinato a non farne uso. Un principio valido anche per Pyongyang. Questo significa che non esisterebbe una reale minaccia nucleare nordcoreana, poiché per loro, come per chiunque altro, usare l’atomica significherebbe suicidarsi.