Ai margini dei dibattiti nella campagna elettorale la questione palestinese riemerge prepotentemente sulla scena grazie al colpo di teatro di Benjamin Netanyahu, che ha parlato di Cisgiordania. Stando ai sondaggi, oltre il 40% degli israeliani sarebbe favorevole all’annessione della Cisgiordania, o, come usa dire, del «West Bank», cioè i territori occupati militarmente nel 1967, a fronte di solo un 28% che si pronuncia ancora per la soluzione dei due stati. E se buona parte dell’elettorato vuole il West Bank Netanyahu glielo concede, almeno a parole nelle ultime ore di campagna elettorale, quelle decisive in una competizione combattuta come questa.
Ma non si deve essere tratti in inganno dall’apparente nettezza degli schieramenti politici nel Paese, poiché non sono soltanto le destre, Likud in testa, a parlare di annessione, ma anche settori di Kahol Lavan e persino della sinistra. Complicato, semmai, sarà ottenerla concretamente.
Tra poco si apriranno i seggi e le urne ci diranno se i sondaggi di questi ultimi giorni erano attendibili. Si tratterà di formare una coalizione, infatti Israele in fatto di sistemi elettorali ricorda un po’ l’Italia, con un proporzionale e tanti partiti di diverso peso e orientamento, dagli ultranazionalisti e i religiosi alla sinistra del Meretz, passando per la destra, Blu e Bianco e i laburisti.
Da un lato Netanyahu, alla ricerca del massimo dei voti che gli consenta di formare una coalizione, che poi lo faccia con la destra a destra del Likud o con altri (si ipotizza addirittura che possa formare un esecutivo con il rivale Gantz) questo lo si vedrà, ma ovviamente dalla composizione del governo dipenderanno anche le politiche future, a cominciare da quella relativa ai Territori e alle colonie ebraiche da realizzare o meno in essi.
Dall’altro Benny Gantz, un ex militare che ricoprì anche la carica di capo di stato maggiore di Tsahal (le forze armate israeliane), oggi leader di Kahol Lavan (Blu e Bianco, i colori della bandiera di Israele), formazione politica moderata definibile di centro destra, l’uomo che forse potrà rendere a quella parte dell’elettorato una sensazione di sicurezza che nel passato gli derivava da quella politica di centro via via scomparsa a causa della polarizzazione avvenuta nel corso degli ultimi anni.
Rinnovati i 120 parlamentari della Knesset si passerà alle trattative post-elettorali, e sarà lì che uscirà fuori il nuovo governo. Su di esse peserà la personale situazione dell’attuale premier, che seppure vincitore avrà sempre penzolante sul proprio capo la spada di Damocle delle inchieste giudiziarie a suo carico per corruzione. Non è uno scherzo, al contrario si tratta di un fattore che potrà condizionare notevolmente gli scambi di natura politico-programmatica che si faranno i partiti quali contropartite per la formazione di un governo.
Questa è la politica israeliana oggi, a poche ore dall’apertura dei seggi elettorali, tuttavia la politica è anche lo specchio di un paese e in tal senso Israele non fa eccezione. Ma cos’è Israele oggi?
Intanto, a settantuno anni dalla sua nascita tra i sei milioni e mezzo di cittadini ebrei dello Stato di Israele – la componente arabo-palestinese ammonta a circa il 20% del totale della popolazione, pari a 1.800.000 persone, mentre gli immigrati sono circa 300.000 – non pochi si dicono convinti che il progetto sionista si potrà realizzare soltanto quando accanto allo Stato di Israele ve ne sarà uno dei Palestinesi. Purtroppo le dirigenze politiche di questi ultimi hanno deciso di percorrere la strada del confronto violento che li ha inesorabilmente condotti alla condizione attuale. Al contrario, se avessero praticato forme di resistenza non violenta probabilmente avrebbero conseguito risultati concreti ponendo in reale difficoltà l’avversario. Infatti, di fronte a manifestazioni pacifiche un esercito come Tsahal, formato in massima parte da riservisti e ragazzi di leva, avrebbe incontrato maggiori difficoltà nel reprimere militarmente le proteste.
Il 19 luglio 2018 la Knesset ha approvato la controversa Legge sullo stato-nazione ebraica, 62 i voti a favore, 55 contrari e 2 astenuti. Si tratta di un provvedimento normativo in parte di natura simbolica, in quanto si ritiene che non influirà eccessivamente sulla condizione dei cittadini israeliani non ebrei, arabi in primo luogo. Essa ha stabilito che Gerusalemme è la capitale dello Stato di Israele, inoltre che Israele «è lo stato nazione del popolo ebraico» aggiungendo poi che «il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei», una statuizione che contrasta con la Legge costitutiva del 1948, che invece afferma la completa eguaglianza di diritti sociali e politici ai suoi abitanti senza distinzioni sul piano della religione, della razza e del sesso. Ma l’interpretazione che si è inevitabilmente portati a dare a questa legge è che la componente non ebrea dello Stato, cioè il 20% della popolazione, diverrà irrilevante ai fini delle decisioni relative al carattere dello Stato stesso, quindi una minoranza nazionale praticamente priva di una ragion d’essere. Allo stesso modo i drusi e i cristiani.
È il segno dei tempi, sfumata gradualmente la sua tradizionale laicità, Israele si va sempre più connotando per la sua “ebraicità”, che viene posta enormemente in risalto dagli attuali governanti. L’impossibilità di uno stato unitario è stata certificata dalle vicende che hanno interessato il Paese dal 1948 in avanti e, in questo senso, la concezione di uno Stato palestinese è possibile soltanto nei termini di uno stato parallelo a quello di Israele. Quindi Israele come “Stato ebraico”, ma la statuizione dell’attribuzione della cittadinanza sulla base dell’ebraicità quali rischi di deriva può comportare? In Israele la definizione dell’identità ebraica è competenza del Gran Rabbinato. I rischi insiti in questa dinamica sono quelli della formazione all’interno dello stesso territorio di due diverse categorie, una con meno diritti dell’altra. La citata legge del 2018 prevede, ad esempio, che l’arabo non verrà più considerato come una delle lingue ufficiali (assieme all’ebraico) nello Stato israeliano, bensì una lingua avente uno status speciale, in ogni caso è stato mantenuto il bilinguismo nella segnaletica stradale. Inoltre, gli arabo-israeliani godono pienamente dei diritti civili e politici, molti di loro esprimono i consensi per un partito arabo che ha eletto una dozzina di deputati alla Knesset, cioè il 10% della rappresentanza parlamentare.
Sempre la stessa Legge sullo stato-nazione ebraica stabilisce poi che diviene «compito dello stato sviluppare comunità e insediamenti ebraici» senza comunque specificare dove, poiché in essa non si parla di confini dello stato, dunque queste comunità potrebbero trovare sviluppo col sostegno delle finanze pubbliche anche nel West Bank, quello che Netanyahu ha promesso agli elettori.
Pesa per altro fortemente il fattore demografico, che vede accresciuta sia la componente araba che quella ebreo-ultraortodossa della popolazione in quanto maggiormente prolifiche, un trend che preluderebbe a situazioni critiche sul piano della sostenibilità. Dunque, per mantenere integra l’ebraicità dello Stato di Israele si dovrà necessariamente addivenire a una separazione dagli arabi, auspicabilmente in modo pacifico.
In Israele si è davvero giunti di fronte a un rischio per la tenuta della democrazia? La discrezionalità della Corte suprema verrà messa in discussione? Con essa anche il bilanciamento dei poteri all’interno dello Stato?
In un Paese che non ha una costituzione è un tema estremamente sensibile. In Israele vigono una serie di leggi cosiddette «fondamentali» aventi un rango superiore a quelle ordinarie normalmente varate dalla Knesset, esse, ancorché approvate a maggioranza semplice dal parlamento, assumono una valenza per così dire “quasi costituzionale”. Ebbene, nella citata Legge sullo stato-nazione ebraica, anch’essa di rango fondamentale, si omette il termine “democrazia”, affermando in questo modo i diritti della maggioranza. Una tendenza riscontrabile anche in alcuni paesi occidentali, dove si sono andate affermando politiche velatamente autoritarie, le cosiddette «democrazie illiberali».
In questa dura campagna elettorale la figura di Netanyahu è stata accostata a quella di alcuni celebri autocrati del suo tempo come il russo Vladimir Putin e il turco Recep Tayyip Erdoğan, con i quali ha intrattenuto (e ancora intrattiene nel caso del presidente russo) stretti rapporti. In questi anni il leader del Likud si è comunque dimostrato abile nel mantenere il potere grazie alla sua azione di aggregazione dei piccoli partiti religiosi e della destra laica nella sua instabile maggioranza parlamentare. Egli ha dovuto tenere conto sia degli equilibri esterni al suo partito che a quelli interni, poiché oggi nel Likud è presente e molto attiva una giovane generazione di elementi radicali che hanno spostato il baricentro della formazione politica ancora più a destra. Alla destra del Likud c’è poi il partito “Casa ebraica”(HaBayt HaYehudi), di Rafi Peretz, che nel precedente esecutivo si era visto assegnare due importanti dicasteri, quello dell’istruzione e quello della giustizia. Oltre ai partiti religiosi minori.
Le tematiche relative alle elezioni politiche in Israele sono state trattate nel corso dell’intervista con Giorgio Gomel, economista ed esponente dell’associazione JCall Ebrei per la pace, della quale è possibile ascoltare l’audio integrale su questo sito (A116)