ROMANZO D’APPENDICE. Alto Adige Südtirol e Friuli Venezia Giulia: il passato. Accadde al confine, storie di Giovanni Postal e Udo Grobar. Gli eventi che sconvolsero le tranquille quotidianità di uomini dai destini più grandi di loro (4)

 I morti non han maniglie. L’abitazione che aveva ereditato dalla madre era un piccolo appartamento di due vani, cucina e bagno, più un ripostiglio nel seminterrato e il posto auto nella rimessa comune del condominio. Cinquanta metri quadrati al primo piano, uno spazio per lui più che sufficiente.

La palazzina era stata costruita nei primi anni Settanta e era parte dell’ultima schiera di edifici prima del confine con la Jugoslavia, nell’area compresa tra i valichi della Casa Rossa e di Sant’Andrea-Vrtojba.

Dalle finestre si vedeva il prato esteso alcune centinaia di metri prima della ferrovia e, oltre, fino alla linea di frontiera. Dal suo davanzale, in territorio italiano restavano solo le Cjasis dal Eremit, le case dell’eremita e poco più in là il cimitero.

Alla sua scomparsa, la madre oltre alla casa gli aveva lasciato anche gli arredi, un mobilio di scarsissimo valore che evidenziava il suo stato di usura. Una brandina, un comodino, un armadio a due ante per riporre gli indumenti, uno specchio e, nel soggiorno, due poltrone foderate di velluto.

Infine la televisione a colori, davanti alla quale negli ultimi anni della sua esistenza l’anziana donna aveva passato il tempo guardando le telenovelas prodotte in Sudamerica.

Udo era ritornato in quella casa e ci aveva vissuto in profonda solitudine. Un’esperienza traumatica. I primi tempi non erano stati facili. Aveva provato ad adattarsi, ma non ci era riuscito, tanto che la malinconia aveva finito per assalirlo nella sua morsa.

Quando se ne restava chiuso lì dentro e non aveva nulla da fare che potesse distrarlo ripensava con nostalgia ai tempi felici trascorsi con la moglie e i figli a Trieste. Nella città giuliana aveva un lavoro sicuro e trascorreva tutte le serate insieme ai suoi cari a ridere e scherzare.

I Grobar erano una famiglia affiatata. I soldi, a dir il vero mai tantissimi, erano comunque sufficienti per pagare l’affitto e far studiare i ragazzi.

Almeno una volta al mese, la domenica a pranzo andavano a mangiare in qualche osteria sull’altopiano. Udo e la moglie si facevano qualche bicchierino in più e alla fine, quasi ebbri, si prendevano in giro nell’allegria generale. Un periodo davvero felice.

A Trieste aveva trovato subito lavoro. Venne assunto dall’Ospedale Maggiore come portantino, una qualifica che in seguito gli venne cambiata. Trascorsi pochi mesi, venne infatti assegnato come “aiutante” presso la cappella mortuaria dell’obitorio. Quella che si affacciava su Via della Pietà.

Senza dubbio un lavoraccio, tuttavia, dopo averne discusso molto con la moglie, decise lo stesso di restare in servizio presso la morgue. Ai cadaveri ci avrebbe fatto l’abitudine. In fin dei conti, in anni come quelli un posto fisso rappresentava pur sempre una sicurezza per il futuro.

E di questa scontata verità avrebbe ricevuto presto conferma, quando la città giuliana colpita da una grave crisi economica sprofondò nella depressione. Chiusero la fabbrica della birra Dreher, le Officine Grandi Motori e altri impianti industriali. Trieste venne avvolta da un’atmosfera plumbea e decadente.

Ma per lui, all’obitorio, le cose continuarono ad andare bene. Lo stipendio ogni ventisette del mese gli veniva corrisposto. Non solo: con le mance elargite dai parenti dei defunti, divise più o meno in parti eguali tra gli addetti della cappella mortuaria, qualche volta riusciva addirittura a tirare su il doppio del salario.

Tra rasature e vestizioni dei morti, rosari di plastica del valore di lire cinque infilati tra le mani rigide e fredde delle salme composte nelle bare e pronte per gli stanzini di esposizione, in cappella arrotondava assai bene.

Anche solo intascando mille lire a funerale, in media con quindici funerali a mattinata si tiravano su un bel po’ di quattrini. Poi però la festa finì. Un bel giorno, con la messa a disposizione dei nuovi stanzini di esposizione al cimitero di Sant’Anna la procedura subì una variazione: da allora le salme sarebbero sempre uscite nude dall’obitorio di Via della Pietà, trasportate dai furgoni nella grande camera fredda del campo santo di Via Costalunga. Della vestizione se ne sarebbero occupati quelli delle pompe funebri e i parenti dei defunti avrebbero pagato a loro il servizio.

Durante le sue lunghe e tristi riflessioni all’interno della casa di Gorizia, se lo ricordava bene quel periodo. Ricordava perfettamente quando il tasso dei suicidi a Trieste era estremamente elevato e quando in sala anatomica c’era il professor Renato Nicolini, un luminare nel campo, l’unico vero coroner italiano.

Un gigante che aveva iniziato a espletare la professione nell’immediato dopoguerra, quando nel Territorio Libero di Trieste c’erano ancora gli Alleati. Allora l’Ospedale Maggiore drenava tutto il lavoro, sia dell’area urbana che dei comuni dell’altopiano, poiché era l’unico plesso ospedaliero in zona a essere dotato di una sala anatomica, delle celle frigorifere e i mitici banchi in porcellana per le autopsie acquistati in Austria e Cecoslovacchia.

In Via Pietà quei banchi di porcellana erano un vanto esibito con orgoglio, «un bene senza prezzo», come ripeté spesso con estremo disappunto Giorgio Sancin quando l’amministrazione decise di farne il “fuori uso” perché non più a norma. Sancin, il servolano doc storico preparatore autoptico dall’esperienza pluridecennale.

Udo Grobar non aveva studiato. Era stato assunto nei primi anni Sessanta per essere impiegato nello svolgimento di compiti di livello inferiore. Tuttavia, col passar del tempo maturò una certa esperienza, riuscendo a volte anche intercambiabile con l’altro personale di livello superiore al suo. Questo accadeva quando il preparatore autoptico aveva bisogno di aiuto. Udo era un sempliciotto, volenteroso e con tanta voglia di imparare.

«Dì, Grobar …varda che i morti nò gà manillie!»

I morti non hanno le maniglie, questo gli ripetevano sempre i necrofori più anziani nei primi mesi di servizio in Via Pietà. Un modo come un altro per ricordargli di sollevare adeguatamente le salme più pesanti, altrimenti sarebbero crepati tutti per la fatica.

Non erano in tanti a lavorare presso la cappella mortuaria. Fino al 1970 il custode era allo stesso tempo il consegnatario della struttura, per questa ragione aveva avuto in comodato d’uso l’alloggio di servizio all’interno dell’ospedale, un’abitazione dove risiedeva stabilmente con la famiglia.

Poi c’era il vice custode e gli aiuti. Tra questi ultimi figuravano anche lui e la donna delle pulizie, una signora di San Dorligo della Valle anche lei della minoranza slovena.

Ogni mattina Udo usciva da casa sua in Via Ponzanino per raggiungere a piedi il luogo di lavoro. Giunto in Via della Pietà apriva il grosso cancello di ferro nero che dava accesso al cortile ed entrava nella cappella mortuaria.

Se non c’erano da fare interventi sui corpi si metteva a disposizione del custode di cappella, quello che riceveva le salme sia interne (cioè provenienti dai vari reparti dell’ospedale) che esterne.

Nel primo mattino lo si trovava quasi sempre seduto al piccolo banchetto nello stanzino situato al piano terreno, dove avveniva la prima accoglienza delle salme. Di solito concentrato nella lettura de “Il Piccolo”, con le spalle volte al tavolone a rotelline dal piano in formica verde dove venivano deposti provvisoriamente i cadaveri.

Udo lo salutava frettolosamente e poi si infilava subito nello spogliatoio del personale, accanto alla porta del montacarichi per il trasporto dei morti al piano sottostante, dove c’erano le celle frigorifere e la sala anatomica.

A differenza di quelli che lavoravano al piano di sotto il personale di cappella aveva meno obblighi di natura igienico-profilattica.

Infatti, in cappella dovevano indossare soltanto il camice, il grembiulaccio paraspruzzi di plastica e i guanti di gomma. A quei tempi non esistevano materiali usa e getta e quindi i guanti li riutilizzavano più volte dopo averli lavati accuratamente dopo ogni intervento. Li rivoltavano, li “soffiavano” all’interno e, infine, li appendevano per l’asciugatura. Con questo sistema erano in grado di riutilizzare il medesimo paio anche per mesi.

Udo, per movimentare le salme se ne era procurato un paio in caucciù. Erano di colore giallo-ocra e gli avvolgevano tutto l’avambraccio. Li avevano fabbricati utilizzando un materiale molto spesso, grezzo e di fattura datata, comunque gli risultarono molto funzionali, poiché al momento della presa lo proteggevano maggiormente dai liquidi sprigionati dai corpi in avanzato stato di decomposizione attraverso l’epidermide, liquidi che generavano un fastidioso effetto scivolamento.

A volte per sbrigarsi, ma solo se il custode della cappella non lo osservava, con questi guanti indosso lui ci scriveva con la biro quando doveva compilare i registri di cappella, dove annotava i dati anagrafici, la provenienza e l’eventuale messa a disposizione dell’Autorità giudiziaria del cadavere che la polizia mortuaria gli aveva appena scaricato sul tavolone dalla cassa di trasporto in bachelite. Una procedura burocratica che preludeva al suo trasporto nel deposito di osservazione, dove rimaneva alcune ore.

In Via Pietà non ci stava poi così male, anche se il lavoro era pur sempre stressante. Al pari di altri suoi colleghi, Udo cercava di alleviarne il peso ricorrendo all’alcole. Una devianza che tra il personale di cappella aveva una notevole incidenza.

Proprio di fronte all’obitorio c’era un bar e, abbastanza spesso, capitava che qualcuno ci desse dentro. D’altro canto la stessa cosa accadeva anche a tutti quelli esposti a stress continui come loro. Ad esempio alcuni agenti delle volanti. Il bumba lo trovavi dappertutto e Udo non faceva certo eccezione.

Durante le brevi pause tra lo spostamento di una salma, il sezionamento di un’altra in sala anatomica e l’arrivo di un furgone della mortuaria con un nuovo cadavere da registrare, Grobar faceva delle veloci puntate al bar per un intermezzo a base di brandy Stock o di grappa.

L’alcole lo reggeva bene, dunque le bevute non gli procurarono mai problemi al lavoro né tantomeno richiami disciplinari.

A Trieste si usava dire che, delle cinquecento osterie della città nessuna è mai fallita. Probabilmente è vero. Una conferma deriva anche da quel bar di fronte all’obitorio. Un locale angusto e squallido, lungo quattro metri, largo due e senza neppure il cesso. Per anni, almeno fino a quando i funerali sono partiti da Via della Pietà, per il proprietario è stata una miniera d’oro. Quando le esposizioni delle salme si facevano ancora in cappella, prima che il corteo funebre muovesse in direzione del cimitero, i parenti dei defunti e i becchini che attendevano la chiusura della cassa del morto si assiepavano all’interno del bar per fare colazione.

A volte non si riusciva neppure a entrare tanto era pieno. Là dentro in tre si stava già stretti, nonostante gli arredi e le suppellettili fossero limitati all’essenziale: un piccolo bancone, la macchina del caffè e quattro bottiglie esposte. Non c’era nemmeno lo spazio per esporre le brioches, ma al gestore questo “poco” era sufficiente per fare una fortuna.

 

 

«Scenderete sulle nostre fiancate…» A Trieste quella del 1972 viene ricordata come una estate particolarmente calda. Anche quel venerdì di luglio inoltrato non fece eccezione, seppure all’interno della sala anatomica dell’obitorio non si soffriva per la canicola.

Al mattino presto il custode consegnatario aveva dovuto aprire il cancello al furgone Fiat 1100 nero della mortuaria: una salma era stata recuperata in provincia. Si trattava di una donna affogata, dall’apparente età di cinquant’anni. L’avevano ripescata a Duino e addosso non gli avevano trovato documenti o effetti personali che ne permettessero il riconoscimento.

In seguito la polizia risalì comunque alla sua identità: Mara P., residente nella zona di Roiano, separata dal marito e senza prole. La sua scomparsa da casa era stata denunziata due giorni prima dalla sorella ai carabinieri.

Come abitualmente era usa fare, anche quel martedì Mara P. si era recata in pineta a Barcola per fare il bagno a mare, però alla sera non aveva fatto rientro a casa, cosa aveva preoccupato i parenti, che avevano pensato bene di avvisare militari dell’Arma.

I carabinieri si attivarono subito e raccolsero delle testimonianze. La donna era stata vista da alcuni suoi conoscenti nel tardo pomeriggio del giorno della scomparsa mentre era seduta sulla riva. Da quel momento di lei non si ebbero più notizie.

Alla fine la rinvenirono morta, ripescata gonfia a Duino alle sei di mattina di quel venerdì. Le ipotesi formulate sulle cause del suo decesso furono le più varie: incidente, suicidio, omicidio.

Per non sbagliare, dopo che l’effettuazione di una preliminare ispezione esterna del cadavere, l’Autorità giudiziaria aveva incaricato il professor Nicolini dell’esame autoptico.

In quel periodo le autopsie si facevano anche al pomeriggio. Il professore convocò tutti i suoi collaboratori e alle undici e mezza l’équipe al completo fu al lavoro sull’affogata.

C’erano Nicolini, Sancin che lo assisteva e, siccome era estate e parte del personale era assente per ferie, c’era anche un giovane laureato in medicina tirocinante presso la cattedra di anatomia patologica, il dottor Fulvio Costantinides.

Il gruppo, concentratosi sul cadavere di Duino non escluse il suicidio. Non si sarebbe trattato certo di una novità per Trieste, soprattutto nella stagione estiva, quando la solitudine per alcuni diviene fatale.

Infatti, nel capoluogo giuliano il numero di suicidi è sempre stato elevato, ai livelli dell’Ungheria e della Finlandia. Ancora negli anni Settanta in città si registravano trecento tentativi di suicidio all’anno. Una triste caratteristica del luogo risalente nella storia, con picchi estremi anche al tempo dell’Austria, quando ogni anno si toglievano la vita numerose persone.

In passato si era tentato di dare una risposta a questo problema e l’origine del fenomeno era stata oggetto di studi approfonditi, che tuttavia non condussero a nessuna certezza. Cosa poteva influenzare così i triestini? Si pensò alla commistione culturale frutto della particolare condizione di frontiera vissuta. Oppure anche la particolare posizione geografica, o la depressione economica che aveva afflitto Trieste a un certo punto della sua storia, senza escludere poi l’elevato tasso medio alcolemico dei suoi abitanti.

A uccidersi erano perlopiù persone di mezza età. Vecchi e malati psichiatrici. Ma non sempre però, poiché qualche volta capitava che si ammazzassero anche dei ragazzi.

Quel giorno d’estate sul tavolo di ceramica c’era l’affogata di Duino. Era stato proprio Udo a portarla in sala anatomica per l’intervento.

Data la temperatura refrigerante dell’ambiente, avrebbe preferito rimanersene al fresco lì al piano di sotto, ma il professore lo aveva rimproverato con severità:

«Grobar! – aveva gridato – lei non ne sa nulla dell’anguria conservata al fresco nella cella frigorifera accanto ai morti!?!»

Udo con lo sguardo basso aveva quindi fatto ritorno su in cappella. Quel giorno non si sarebbe più fatto vivo in sala anatomica, Nicolini lo aveva beccato sul fatto e adesso rischiava la commissione disciplinare.

In realtà accadeva di frequente. D’estate lui e i suoi colleghi scendevano di sotto senza farsi vedere e mettevano la frutta nei frigoriferi per conservarla fino all’ora della pausa pasto a una temperatura di due gradi centigradi.

Altre volte, ma solo quando la sala anatomica era completamente vuota, Udo vi faceva ingresso per camminarci a passi lenti e calibrati, in guisa da provocare volutamente quel caratteristico rumore ottenuto dal contatto della suola di cuoio delle scarpe col piano di calpestio in marmo. Come si verifica all’interno di quegli ambienti dove l’acustica è formidabile, ad esempio in certe chiese barocche particolarmente adatte allo svolgimento dei concerti di musica da camera o polifonica.

All’obitorio la goliardia era una costante. Mai eccessiva e mai pari a quella di una sala operatoria in chirurgia. L’obitorio era quotidianamente pervaso da un umorismo da commedia che spezzava l’atmosfera rendendola meno pesante.

Ricorreva frequente una battuta, ripetuta da tutti ma della quale a tutti il significato risultava però completamente oscuro:

«Scenderete sulle nostre fiancate…»

Veniva pronunciata all’improvviso da un medico o da un preparatore, a volte da qualcuno del personale della cappella mortuaria che si affacciava di sotto durante gli interventi. La bisbigliava a denti stretti e poi si eclissava.

Si diceva che fosse stata inventata chissà perché molti anni prima da un preparatore autoptico che faceva il verso a Umberto Saba quando questi commentava le partide de bałon giocate dalla Triestina alla domenica.

Quando non era la goliardia a farlo, il clima dell’obitorio veniva reso più leggero dalle stranezze dei parenti dei morti.

Una volta una celebre cantante lirica volle a tutti i costi vestire per l’ultimo viaggio la madra morta come l’Aida nell’opera.

Oppure quando c’erano i funerali degli zingari, coi parenti del defunto che riempivano di fiori tutto il pavimento della celletta di esposizione dov’era stata sistemata la bara per la camera ardente.

Il più delle volte il lavoro scorreva liscio e i parenti si limitavano a piangere lo scomparso raccogliendosi attorno a esso. Altre volte, invece, i morti non avevano parenti o conoscenti, allora la salma veniva tumulata a spese del comune nei campi a terra del cimitero. Erano casi molto tristi, nella memoria di Udo ne rimase impresso uno in particolare, era legato a un caso di cronaca nera, quello del cadavere della donna uccisa rinvenuto sulla panchina dei giardini di Via San Michele in una fredda alba dell’inverno del 1969.

Era deceduta per le percosse ricevute dal compagno col quale conviveva. Non si comprese mai il reale movente che spinse l’uomo a commettere l’omicidio. Si era infuriato e aveva iniziato a picchiarla fino a lasciarla esanime su quella panchina dove l’avrebbero trovata gli agenti delle volanti.

«L’ho presa a calci nel culo», aveva poi affermato con serenità a poche ore dal fatto, quando i poliziotti lo avevano tratto in arresto nell’appartamento nella Città vecchia dove abitava.

Un fatto di sangue del quale in seguito non si seppe più nulla. Due giorni dopo, l’assassino si suicidò in una cella del carcere Coroneo dov’era stato astretto.

L’assassinio dei giardini di Via San Michele a Udo rimase bene impresso nella mente per due precise ragioni: la prima era che i protagonisti del fatto, sia la vittima che il suo carnefice, erano entrambi triestini della minoranza slovena come lui, inoltre perché quel mattino, mentre si recava al lavoro, attraversando Piazza Garibaldi si era imbattuto in una troupe cinematografica che stava effettuando le riprese di un film.

Mosso dalla curiosità si era avvicinato al set e, sbirciando, era riuscito a intravedere la nota attrice inglese Joan Collins. La troupe stava girando una scena de “Lo stato d’assedio”, un’opera di Romano Scavolini ambientata nella Trieste contemporanea divenuta fantasma della mitteleuropa. Una città segnata dai drammi umani strettamente legati al suo inesorabile declino.

Il film, che sarebbe stato successivamente presentato al festival di Venezia con un titolo diverso, “L’amore breve”, ricevette dalla critica giudizi alterni: bella la fotografia, inadeguate le velleità viscontiniane e modesta la interpretazione. Il film contiene numerose concessioni all’erotismo tali da renderlo del tutto negativo.

Dal canto suo, la Collins, attrice protagonista, affermò che «Trieste era una delle città più tristi e deprimenti in cui ella fosse mai stata».

Lui, che non era per nulla appassionato di cinema, non appena l’anno seguente venne proiettato nelle sale di seconda visione, andò a vederlo insieme alla moglie. Però a dispetto dei commenti della critica gli piacque, malgrado la storia non fosse poi così allegra e che lui, ormai, la collegasse indissolubilmente all’omicidio dei giardini di Via San Michele.

Quel goriziano di lingua e cultura slovena a Trieste ci si trovava completamente a proprio agio. La moglie era italiana e i loro figli erano nati in città, sia in casa che per la strada non parlavano sloveno, d’altro canto seguendo il corso dei loro studi i ragazzi si erano sempre iscritti a scuole italiane. I Grobar non si occupavano di politica. Udo non aveva mai militato in formazioni filo slave o comuniste, anche se per censo apparteneva alla base popolare, cioè a quella fascia sociale della sua minoranza che nel 1948, dopo lo strappo di Tito da Mosca, sostenne nella sua massima parte la componente “cominformista” del Partito.

Nella sua vita solo una volta venne avvicinato da un dirigente di un partito espressione della minoranza, uno della Slovenska Skupnost, l’Unione Slovena, formazione politica che raccoglieva consensi tra gli sloveni anticomunisti del Friuli Venezia Giulia.

Gli aveva dato ascolto per un po’ al fine di ottenere una raccomandazione per fare assumere suo figlio come usciere al comune di San Dorligo della Valle. Ma quella liason non portò ad alcun risultato, dunque troncò i contatti con la politica.

 

 

   Ti ricordi di Žižak Anton? Rientrato in casa verso le dieci della sera, vuoi a causa del caldo  vuoi anche per gli effetti generati sul suo fegato dalle grappe bevute al bar della piazzetta, non appena varcata la soglia del piccolo appartamento si precipitò in cucina a bere un bicchiere di Coca Cola.

Una volta dissetatosi scartò una caramella gommosa al gusto di liquirizia. La portò alla bocca e la succhiò lentamente facendola così sciogliere, poi deglutì la saliva nel frattempo divenuta una miscela fortemente aromatizzata.

Faceva sempre così quando eccedeva col bere. Era un trucco per non soffrire troppo per la sbronza. La liquirizia, oltre a dare sollievo alla sua bocca bruciata dall’alcool, alzava anche un poco il livello della pressione arteriosa, evitandogli gli immancabili giramenti di capo che si verificavano al momento in cui si coricava.

Era giunta l’ora di andare a dormire. Si recò in bagno a lavarsi i denti, dopo averli accuratamente puliti con lo spazzolino a setole di media durezza, li sciacquò ripetutamente con l’acqua del rubinetto. Infine andò in camera da letto e si sdraiò.

Spense la lampadina e accese la radio appoggiata sulla cassettiera in legno. Lo faceva sempre prima di addormentarsi, quando si immergeva nell’atmosfera della sua abitazione fatta di rumori attutiti a lui familiari, come quello dei secondi scanditi dall’orologio con la molla a bilanciere. Ma anche da quegli odori che sapevano di vecchio, emanati dalle due poltroncine di velluto nel soggiorno e dal legno tarlato degli arredi che furono di sua madre.

Nel dormiveglia, nella penombra resa tale dalla lieve luce lunare che penetrava attraverso la finestra, all’orizzonte, fuori, riusciva a intravedere la Jugoslavia. Laggiù apparentemente regnava la calma, seppure la radio sintonizzata sulle frequenze di Capodistria, che in quel momento stava trasmettendo il notiziario serale, continuava a riferire di fatti inquietanti.

La voce del giornalista di turno incaricato della lettura delle notizie giunse alle orecchie di Udo come un suono lievemente metallico.

Questa mattina alcune unità del XIII Korpus dell’Armata federale hanno lasciato le loro sedi stanziali di Rijeka in Croazia per raggiungere il confine sloveno con l’Italia, ma la loro avanzata è stata disturbata dalla popolazione civile, che ha reagito con forza allestendo barricate lungo gli assi viari, manifestando inoltre apertamente contro l’azione delle forze centraliste di Belgrado. Non si sono comunque verificati incidenti.

A Lubiana il governo della Repubblica slovena ha applicato il piano relativo all’assunzione del controllo dell’aeroporto internazionale di Brnik e degli avamposti della dogana ai confini esterni. Al riguardo il ministro della difesa Janez Janša ha dichiarato che tale operazione è finalizzata allo stabilimento della sovranità slovena nel triangolo chiave del controllo dell’aria, dei confini e, appunto, delle dogane.

Udo si era quasi addormentato, ma udendo queste parole si destò improvvisamente. Tornò immediatamente lucido, nonostante la grappa bevuta in precedenza.

Dunque si sono ripresi i confini – pensò – e ora che succederà? I federali incominceranno a sparare? Vedrai che diverrà inevitabile uno scontro militare… devo assolutamente recuperare la macchina prima che sia troppo tardi, prima che scoppi un casino.

Il confine era a meno di cinquecento metri da casa sua, quel confine così diverso da quello dei paesi del blocco comunista più a Est. In fondo la Jugoslavia era sempre apparsa diversa.

In quel momento, però, dal fondo della sua memoria riemerse improvvisamente un fantasma che si appropriò immediatamente dei suoi pensieri fino a ossessionarlo:

Žižak Anton, quarantacinque anni, cittadino jugoslavo. Trovato cadavere nel luglio del 1984 da alcuni agenti della Guardia di Finanza nei pressi della linea di confine nella zona di Muggia.

Žižak Anton, quarantacinque anni, cittadino jugoslavo. A una prima ispezione esterna del cadavere il decesso si presume provocato da colpi di arma da fuoco.

Da quel momento in poi fino a quando, finalmente, riprese sonno, quell’immagine e quel nome non riuscì a scostarli dalla mente.

Žižak Anton, quarantacinque anni, cittadino jugoslavo. All’arrivo nell’obitorio di Via Pietà il cadavere non si trovava in pessime condizioni, questo nonostante la dinamica del decesso e l’esposizione all’elevato calore estivo.

Annotate le generalità e il luogo di provenienza del morto sul registro della cappella, Udo quel giorno di luglio del 1984 aveva poi aggiunto la nota che il cadavere doveva essere posto a disposizione dell’Autorità giudiziaria. Del caso se ne sarebbe occupato il dottor Costantinides e solo l’autopsia avrebbe fornito con estrema chiarezza la causa del decesso.

Comunque non sarebbe stato difficile arrivarci lo stesso data la situazione. Infatti era stato un colpo di fucile d’assalto in calibro 7,62 per 39, probabilmente sparato da uno Zastava M-70, la copia jugoslava del Kalashnikov, arma d’ordinanza in dotazione ai graničarji.

Il proiettile aveva perforato il tronco dell’individuo e il suo foro d’ingresso era stato localizzato senza difficoltà al di sopra del rene destro, quello di uscita nella regione addominale.

Udo ebbe l’opportunità di osservare attentamente il cadavere al momento in cui la polizia mortuaria glielo depositò sul tavolone a rotelline della cappella. Ancora adesso ne ricordava perfettamente le devastanti ferite presentate da quel corpo rigido e cereo.

Già, perché di ferite si trattava, dato che Žižak Anton  non era morto subito. L’uomo aveva tentato di fuggire clandestinamente dalla Jugoslavia, ma nel corso del suo disperato tentativo era stato visto dai graničarji e questi gli avevano subito sparato contro a raffica. Il resto si sapeva. Un colpo aveva attinto la sua schiena trapassandogli il corpo.

Ma Žižak con le sue ultime forze era riuscito egualmente a trascinarsi in territorio italiano, lì lo avrebbero trovato cadavere immerso in lago di sangue. Chissà perché fuggiva in quel modo dalla Jugoslavia? Se lo avesse voluto in quel periodo avrebbe potuto oltrepassare il confine addirittura con il passaporto senza farsi apporre il visto. Forse Žižak al suo paese aveva problemi politici, o magari era un criminale latitante che cercava di espatriare per sottrarsi definitivamente alla cattura, ovvero ancora, era uno dei tanti piccoli contrabbandieri che trafficavano quotidianamente a cavallo del confine con l’Italia.

All’obitorio di Trieste la sua tragica disavventura sarebbe stata archiviata come un caso di omicidio volontario. Dall’altra parte della frontiera, invece, il militare jugoslavo in forza al 64º Battaglione della Granicka Straža che lo aveva fatto fuori avrebbe ricevuto dai superiori un encomio solenne per aver “esemplarmente adempiuto alla consegna assegnata”.

Udo pensava e ripensava a quella brutta storia. La legava indissolubilmente ai drammatici sviluppi della situazione in quei giorni ai confini. L’analogia era quella che c’erano nuovamente dei militari in forze a presidiare i valichi e la linea di frontiera.

Alla fine, come sempre, prevalse la stanchezza e Udo cadde in un sonno profondo.

Dopo sette ore, puntualmente la suoneria della sveglia trillò. Il vecchio si destò. Sbadigliò, si stirò ripetutamente e poi si alzò dal letto. Fuori, a prima vista la giornata sembrava serena. Avrebbe fatto caldo, tuttavia contava di uscire presto proprio per evitare la canicola.

Per prima cosa riaccese la radio sulla cassettiera per ascoltare le ultime notizie del giornale radio, italiano o sloveno che fosse. Voleva farsi un’idea della situazione a Nova Gorica. Capire se ci fossero problemi nel passare di là e se, dove e da chi fossero stati eventualmente disposti dei blocchi stradali.

Dai notiziari trasmessi in quel primo mattino non riuscì a saperne molto di più di quanto aveva appreso nella serata precedente, quindi entrò in cucina e iniziò con calma a consumare la prima colazione.

Sul vecchio tavolo di legno erano già pronte le stesse robe che da decenni mangiava al mattino: noci, pane, formaggio di montagna, succo d’arancia e tè. Un’abitudine risalente alla sua infanzia, una dieta che gli aveva trasmesso sua nonna Rada.

Accese il fornello con un fiammifero e ci pose a scaldare il bricco pieno d’acqua. Poi prelevò alcuni grammi di formaggio dal frigorifero Bosch dal maniglione a scatto e del pane dalla credenza, infine si sedette a tavola per mangiare.

Apriva il guscio delle noci inserendovi nelle fessure la lama di un coltellino col quale faceva leva per separarlo in due parti. Dopo aver estratto il gheriglio con le dita lo metteva in bocca e lo masticava per bene. A ogni noce associava dapprima un pezzettino di formaggio e poi il pane.

Quando era ancora viva, nonna Rada gli ripeteva continuamente che mangiare tre noci al giorno era salutare, perché aiutava ad abbassare il tasso del colesterolo. Udo aveva fatto tesoro di questo consiglio.

Quando l’acqua sul fuoco divenne calda al punto giusto la versò nella tazza di porcellana, nella quale c’era già un cucchiaino di zucchero e la bustina di tè per l’infuso. Più l’acqua è calda e più il tè viene forte, e a lui piaceva proprio così, scuro. Dopo aver mangiato e bevuto, i leggeri bruciori di stomaco che lo avevano infastidito al momento del risveglio sembravano attenuarsi.

Alle otto uscì di casa per avviarsi a piedi al valico di confine.

Il luogo dell’appuntamento con Joško era poco distante da casa sua. Fuori non faceva ancora caldo e lui durante il percorso pensò bene di chiedere in giro ai passanti incontrati lungo la strada quale fosse la situazione.

«Scusi, sa mica se il valico della Casa Rossa sia aperto o chiuso? – oppure – I poliziotti lasciano passare o no?»

Provò a chiedere a qualcuno, però non ottenne risposte precise. Mentre camminava a passo spedito verso la Casa Rossa gli tornò nuovamente in testa la terribile immagine di Žižak, che in quel particolare frangente contribuì ad accrescere il suo stato di tensione.

Non poté fare a meno di trovare un’analogia tra l’attuale situazione e il dramma di quell’uomo mitragliato sul confine a Muggia. In entrambi i casi si trattava di frontiere blindate da uomini armati pronti a fare fuoco coi fucili, con l’aggravante che adesso in Slovenia stava scoppiando addirittura la guerra.

Žižak scappava disperatamente da chissà cosa, lui aveva solo il terrore che quel catorcio della sua macchina venisse requisito dalla Difesa Territoriale slovena oppure distrutto nel corso dei combattimenti.

(4) continua

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