AEROSPAZIO, F-35. Washington preme sul governo Conte, ma i moderni cacciabombardieri sono solo un pretesto nel confronto globale con la Cina

Le cose degli umani quasi mai accadono casualmente, un assunto che è valido anche alla luce del riacutizzarsi della polemica sull’acquisto dei cacciabombardieri F-35 statunitensi. C’entrerà mica l’attesa visita ufficiale a Roma del segretario generale del Partito comunista cinese Xi Jinping e tutto il suo corollario di preoccupazioni americane sulla possibile fagocitazione cinese dell’Italia, oppure si tratta di argomenti del tutto speciosi? La Nuova Via della seta fa sicuramente paura agli avversari di Pechino e Shenzhen nella competizione commerciale globale, tuttavia le intimazioni di pagamento provenienti dalla Casa Bianca vanno considerate con minori patemi d’animo. Si è affermato: «Il governo Lega-M5S tentenna riguardo al costosissimo programma militare e allora Trump alza la voce pretendendo che si rispettino gli impegni e si paghino gli arretrati». Una presa di posizione che ha avuto l’effetto di scomodare l’inquilino del Quirinale, inducendolo a richiamare all’ordine il governo in carica durante il Consiglio supremo di Difesa che ha avuto luogo la scorsa settimana.

 

Succede che l’esecutivo presieduto da Giuseppe Conte, varato – e questo va ricordato – col placet di Washington, si stia mostrando insofferente riguardo ad alcuni atteggiamenti di Palazzo Chigi, dal Venezuela alla rete 5G di Huawei per finire, appunto, alla “controversa” questione relativa alla Nuova Via della seta promossa dai cinesi. E poi c’è sempre la Russia di Putin dietro l’angolo, indispensabile fornitore di materie prime energetiche all’Italia (piuttosto: come andrà a finire in Algeria?), un rapporto che Roma non è certamente in grado di recidere, malgrado continui a imporre sanzioni economiche che paradossalmente danneggiano il proprio export.

 

Torniamo ai caccia F-35. L’Italia aveva inizialmente deciso l’acquisizione di 131 caccia multiruolo prodotti dal consorzio Lockheed Martin-Northrop Grumman-British Aerospace, ma in seguito per ragioni di bilancio l’ordine era stato ridimensionato a 90 macchine, con un relativo impegno di spesa ammontante a circa quattordici miliardi di euro. Ma nel frattempo i costi del velivolo erano cresciuti di pari passo ai ritardi nello sviluppo tecnologico, poiché i tecnici del colosso americano dell’aerospazio si sono di fronte a una serie di problemi impeditivi che, inevitabilmente si riflessero anche sulla percezione da parte dell’opinione pubblica sull’andamento dello specifico programma industriale. Lo stesso presidente Trump nel dicembre del 2016 giunse ad affermare che i costi del programma F-35 erano andati fuori controllo e che a quel punto miliardi di dollari si sarebbero potuti risparmiare nel campo delle spese militari.

 

Un po’ di storia. Nel recente passato Business Week, settimanale economico-finanziario del Gruppo Bloomberg, nel trattare l’argomento relativo al programma di sviluppo del nuovo cacciabombardiere si riferì a esso come a un «errore da mille miliardi di dollari». Non aveva poi tutti i torti, poiché dal momento in cui nel lontano 2001 la Lockheed Martin si vide aggiudicare il contratto dal Pentagono, contratto che prevedeva una spesa di complessivi 200 miliardi in trent’anni, si sono verificati prolungati ritardi nella realizzazione dei velivoli e sono state registrate una serie di difficoltà sul piano tecnologico, il tutto associato a un esponenziale incremento dei costi.

 

Il 2007 rappresentò l’anno cruciale. Le differenti versioni del velivolo destinato alle tre forze armate americane (USAF, US Navy e US Marine Corp) e a undici forze aeree di Paesi alleati hanno visto lievitare il costo unitario degli apparecchi di due terzi rispetto al previsto, portandone il costo finale da cinquanta milioni di dollari a quasi il doppio.

 

In ogni caso il difficile sviluppo proseguì grazie ai favori del Pentagono, che con la Lockheed Martin aveva stipulato un contratto provvisorio concedendogli l’ossigeno necessario a far sopravvivere il nuovo velivolo. Nel frattempo il caccia multiruolo F-35 – del quale ne venne prevista l’assegnazione all’Aeronautica e alla Marina militare italiana – divenne il maggiore programma della Difesa italiana, pari a uno stanziamento in bilancio di 724 milioni di euro, una somma superiore a quella spesa per i caccia Eurofighter Typhoon, ma in prospettiva destinata ad aumentare.

 

Con l’avvento alla presidenza del democratico Obama la nuova amministrazione Usa procedette a un esame dei costi del dispendioso programma. Il fisico Ashton Carter, che nel biennio 2015-16 avrebbe poi ricoperto l’incarico di Segretario alla Difesa, fece prendere coscienza della voragine che l’F-35 stava provocando nel bilancio pubblico statunitense. Quel velivolo, per quanto ultramoderno e “invisibile” ai radar nemici, al signor Smith era costato il 38% in più del previsto, una cifra che nei quaranta anni di vita operativa prevista è destinata ad attestarsi intorno ai 380 miliardi, ai quali andranno sommati i circa seicento miliardi di dollari per il concreto esercizio e la manutenzione di una macchina così sofisticata.

 

E l’Italia? Negli ultimi decenni il settore industriale aerospaziale italiano ha compiuto grandi passi in avanti conquistandosi anche porzioni del mercato mondiale. Le indispensabili cooperazioni internazionali (i famosi consorzi) imponevano però regole ferree: ciascun paese riceveva tanto lavoro a seconda della rispettiva quota di investimenti nello specifico programma. È stato così per il Tornato e anche per l’Eurofighter. Ma questo ha significato anche che ciascun paese consorziato per poter modificare un apparato doveva chiedere il permesso agli altri, con nocumento riguardo alla complessiva flessibilità del sistema. Quando si è trattato di approvvigionare le Forze armate di un nuovo cacciabombardiere in sostituzione di quelli vecchi qualcuno si chiese il perché non si potesse proseguire con l’evoluzione dei sistemi d’arma precedentemente realizzati. Perché infilarsi con tutte le scarpe nell’avventura americana del F-35?

 

La risposta dei vertici dell’Aeronautica militare italiana è stata che in quella fase in giro per l’Europa non c’era più nessuno disposto ad affrontare un nuovo programma comune che avrebbe comunque richiesto finanziamenti assai onerosi. La Gran Bretagna aveva reso noto che per lei il dopo-Tornado sarebbe stato il JSF (Joint Strike Fighter), la Germania non aveva intenzione di partecipare, la Francia – che gli aerei se li fa per conto suo come li vuole lei – è sempre stata autonoma quando non in concorrenza con gli altri partner europei. Rimaneva l’Italia. Quindi comprare altri Eurofighter? Modificarli? Tutta spesa nazionale? Non parve una cosa fattibile e quindi l’F-35 venne prospettata come l’unica possibile soluzione.

 

Ha recentemente affermato il generale Francesco Langella, direttore di Armaereo: «Bisogna trarre il meglio che si può da questa avventura, su questo sono d’accordo: bisogna portare in casa quanto più possibile di quello che ci si mette a disposizione. È poco, per carità, ma stiamo cercando di fare di tutto per portare in casa il più possibile. Sull’Eurofighter l’industria italiana ha delle capabilities e delle competenze di design autority assolutamente rilevanti, sull’F-35 le imprese facenti capo a Finmeccanica e, comunque, la crema della competenza italiana, in realtà non ha potuto dire nulla in ragione prettamente della “by american rule” e non di un gap tecnologico-realizzativo. Allora, questo quantomeno potrebbe essere negoziato con gli americani».

 

A oggi l’F-35 ha tre le linee di produzione: una negli Usa a Fort Worth, una in Giappone a Nagoya e una in Italia, a Cameri, presso Brescia, dove i cacciabombardieri vengono assemblati nel cosiddetto FACO (Final Assembly and Check-Out), cioè il centro di assemblaggio finale e di supporto manutentivo delle cellule. Al riguardo Washington ha fatto intendere che la rivalutazione tecnica voluta dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta non è particolarmente apprezzata. Si andrà al fermo degli impianti nel bresciano?

 

Difficile, anzi impossibile. Il fuoco di paglia della polemica, interamente di natura politica, è destinato a spegnersi. Troppi, malgrado “The Donald”, sono gli intrecci industriali e finanziari che sottendono a operazioni colossali di questo genere. Boeing ha puntato sugli stabilimenti di Grottaglie per le fusoliere dei 787, mentre Leonardo (già Finmeccanica) si è aggiudicata una importante commessa dell’USAF e si è posta l’obiettivo della vendita di prodotti anche all’US Navy. Davvero la Nuova Via della seta comprometterà tutto questo? In questi casi solitamente prevale il pragmatismo.

 

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