Le partecipate proteste di piazza organizzate venerdì scorso dalle opposizioni contro il governo di Algeri hanno lascato il segno. La stampa del Paese nordafricano ha ne riferito come di «manifestazioni storiche», dedicandogli molte pagine nelle edizioni di sabato. In effetti si è trattato di una gigantesca mobilitazione che avrebbe seriamente limitato il residuo margine di manovra del gruppo di potere di Algeri che sta cercando di imporre un quinto mandato presidenziale del vecchio Abdelaziz Bouteflika, del quale per altro non si ha cognizione certa delle sue condizioni di salute, poiché poco trapela all’esterno dal suo luogo di ricovero di Ginevra.
«Un popolo favoloso!» ha titolato “el-Watan”, dedicando al terzo venerdì consecutivo di protesta ben dodici pagine, segnato da una gigantesca mobilitazione in tutto il paese. E ancora, «sta per essere scritto un nuovo romanzo nazionale – assicurano i giornali locali – il popolo ha riacquistato il controllo attraverso questa ondata di orgoglio che rimette la storia al suo posto». La stampa è oltremodo chiara al riguardo: se gli uomini del regime contavano su una mancanza di respiro del movimento hanno ricevuto una risposta inequivocabile. Insomma, per dirla allo stesso modo del quotidiano in lingua francese “Liberté”, venerdì è stato «un giorno di indipendenza».
Tuttavia, nulla accade per caso in un Paese come l’Algeria, laddove l’informazione viene strettamente monitorata. Dunque, il fatto che la stampa ufficiale abbia magnificato le proteste popolari è indice del fatto che in Algeria sia in atto una rimodulazione al vertice del potere. Un’evidente conferma di questo deriverebbe dal sostegno fornito all’opposizione da sindacalisti, veterani e industriali. Il vecchio e malato presidente, più volte utile al sistema imperniato sul FLN del quale fa parte integrante, starebbe per essere abbandonato.
In ogni caso il governo non ha mancato di fare la voce grossa. Ci ha pensato il generale Gaia Salaj, capo di stato maggiore dell’Armée Nationale Populaire (le forze armate algerine). L’alto ufficiale si è reso perfettamente conto che la sindrome del “decennio nero” non riesce più a inibire le proteste della gente e, quindi, preso atto delle perduranti manifestazioni di massa ha pensato bene di lanciare un’inquietante monito alla popolazione agitando lo spettro della guerra al terrorismo: «Ci sono partiti che vogliono riportare indietro l’Algeria agli anni della violenza – ha affermato pubblicamente intervenendo in una scuola militare presso la capitale -, un popolo che ha sconfitto il terrorismo sa come preservare la stabilità».
Dal canto suo Bouteflika – che nel 2013 venne colpito da un’emorragia cerebrale che in parte lo paralizzò, costringendolo a deambulare sulla sedia a rotelle – resta sempre ricoverato in clinica, ufficialmente per visite mediche di controllo. Dal giorno dell’attacco ischemico non è comparso più in pubblico se non attraverso l’emittente televisiva di stato e questo ha ingenerato molti dubbi tra la gente. È davvero l’ottantaduenne presidente, ormai fantasma di sé stesso, a esercitare la propria suprema funzione, oppure dietro di lui manovrano altri (i fratelli, i generali, la Sonatrach…) in attesa di un prossimo difficile riassestamento della leadership algerina? Interrogativo del tutto legittimo dato lo stato delle cose.
Il paese vive una profonda fase di incertezza, alimentata anche dall’atteggiamento del gruppo di potere che controlla direttamente o indirettamente lo Stato e le sue fonti principali di ricchezza, materie prime energetiche in primis. L’establishment evidenzia la situazione di confusione nella quale in questa delicata fase sta versando. Indice ne è la mancata designazione di un successore che fosse in grado di condurre l’Algeria attraverso una transizione credibile e questo agire ha generato discredito. A nulla è valsa la lettera di Bouteflikà letta alla nazione nella quale si prometteva l’indizione di una conferenza nazionale incaricata di fissare nuove elezioni presidenziali nel caso di vittoria alle presidenziali. In essa si assicurava che lui (Bouteflikà) non vi avrebbe partecipato e che si sarebbe anche elaborata una riforma della costituzione sottoposta in seguito ad approvazione tramite referendum. Non è servito a nulla, poiché le promesse di concessioni non hanno placato la gente, esasperata dalle condizioni di vita e irretita dall’annuncio della ricandidatura di Bouteflika, percepita come l’ulteriore imposizione da parte di un’élite privilegiata e incapace di fronteggiare i bisogni del paese.
Ma dove origina questo profondo malcontento? Alla base di tutto risiedono due cause: l’improvvida decisione di ricandidare Bouteflika per un quinto mandato presidenziale alle elezioni indette per il prossimo 18 aprile e il degrado ulteriore delle condizioni sociali ed economiche nel paese. La gente chiede un’apertura democratica e migliori condizioni di vita, i principali gruppi di opposizione al governo si sono fatte carico di tali istanze, tuttavia essi sono sostanzialmente divisi e non starebbero cogliendo appieno l’opportunità di una possibile svolta politica nel paese.
Ma la crisi algerina ha radici più profonde. Data la dipendenza dell’economia del Paese dagli introiti derivanti dalla vendita di materie prime energetiche, la sensibile diminuzione del prezzo del petrolio verificatasi negli ultimi anni ha riflesso i suoi effetti sulle finanze pubbliche, costringendo l’esecutivo ad assumere serie di provvedimenti impopolari, quali un forte contenimento della spesa e un aumento della pressione fiscale, IVA e accise sui carburanti incluse. Contestualmente, la crescita dell’inflazione ha contribuito alla riduzione del potere d’acquisto, in un contesto dove i propri consumi primari, come quelli dei generi alimentari, dipendono dalle importazioni dall’estero, che però si trovano soggette a una serie di restrizioni imposte anche dalla contrazione delle finanze pubbliche.
Nel 2017 si sono manifestati i primi segnali di malcontento e il governo, anche in vista delle imminenti elezioni, ha adottato una politica economica più conciliante e prudente negli esercizi finanziari 2018 e 2019. Ma le condizioni permasero critiche, poiché l’assunzione di alcuni provvedimenti di natura congiunturale non avrebbero comunque potuto risolvere una situazione critica per cause strutturali. Il tasso di disoccupazione si attestava all’11%, mentre la crescita reale del prodotto pro capite rimase stagnante. In Algeria il tasso di partecipazione attiva alla forza lavoro è di appena il 41%, insufficiente per un paese in crescita demografica. Nel 2018 il 54% della popolazione aveva meno di trenta anni, il 45% meno di venticinque, una massa di persone a stento occupate grazie a una diffusa economia informale, che però, quando ci riesce, è in grado di offrire precarie mansioni lavorative a bassissimo valore aggiunto, retribuite peraltro con salari modesti. I manifestanti che scendono in piazza a protestare, in buona parte giovani, chiedono un’azione decisa contro la corruzione, la gestione più trasparente delle rendite energetiche e una più equa redistribuzione della ricchezza. Gli algerini sono sempre più sfiduciati, lo si era capito già dall’affluenza alle elezioni presidenziali precedenti, nel 2014, quando soltanto il 49,4% degli aventi diritto al voto si era recato ai seggi, una notevole flessione rispetto al 74,6% registrato nel 2009. La conferma di questa disaffezione si ebbe poi alle parlamentari del 2017, quando alle urne andò il 37% dell’elettorato.
Si è dunque giunti al redde rationem? In Algeria si sta per concludere un lungo ciclo politico? Un possibile aumento dell’instabilità in un paese di importanza fondamentale nelle regioni mediterranea e saheliana ingenera seri timori. Al momento, la riproposizione della candidatura di Bouteflika ha dimostrato la precarietà degli equilibri interni al sistema. L’establishment teme i cambiamenti e, malgrado si trovi con le spalle al muro, azzarda un pericolosissimo temporeggiamento, cercando di guadagnare tempo per trovare un successore al vecchio Bouteflikà, tuttavia non possiede sufficiente forza e credibilità per mantenere lo status quo. Le viscose dialettiche intestine ai palazzi del potere di Algeri iniziano a far filtrare all’esterno i primi segnali di mutamento. Lo si è riscontrato con la recente solidarietà della stampa ufficiale con i dimostranti. Evidentemente così com’è ora il sistema non regge più e allora chi può cerca in qualche modo di correre ai ripari, magari abbandonando la nave che affonda.
Per il momento i militari non sembrerebbero intenzionati a intervenire, temono un’escalation violenta della protesta. In Algeria è già successo e fu una carneficina nella quale un algerino su dieci perse la vita. Ma se il Paese venisse cadesse nel caos le conseguenze di esso si ripercuoterebbero anche altrove. Nella confinante Tunisia, nella turbolenta Libia e sulle rotte dei migranti. Senza considerare poi gli approvvigionamenti energetici europei, garantiti finora per il 12% dal gas naturale algerino. Per la Spagna e l’Italia si tratta rispettivamente del 27% e del 36% del totale. E poi ci sono gli investimenti e gli interessi delle compagnie del settore, come Repsol ed Eni, che in Algeria hanno ottenuto concessioni per l’esplorazione e hanno stipulato contratti con l’impresa di stato algerina Sonatrach per l’ampliamento della capacità estrattiva. Per la Russia, un cambio di regime in Algeria potrebbe significare la perdita di un’importante fetta di mercato in termini di esportazioni di materiale militare, infatti Algeri è il loro terzo acquirente di sistemi d’arma, mentre a Washington un radicale rivolgimento ai vertici dello Stato algerino potrebbe compromettere la continuità del contrasto dei gruppi islamisti nella regione, provocando un vuoto esteso dalle coste mediterranee all’Africa sub-saheliana. La crisi algerina non è dunque uno scherzo.