REGNO UNITO, Brexit (3). Neverending story: la May cerca disperatamente di prendere tempo, ma per ottenerlo ha bisogno dei laburisti.

La situazione si evolve (o forse si involve…) in maniera articolata e confusa. Il capo negoziatore dell’Unione europea Michel Barnier ha informato il Collegio dei commissari che, mentre i negoziati del 5 marzo col ministro per la Brexit Stephen Barclay e il procuratore generale Geoffrey Cox si sono svolti in un’atmosfera costruttiva, le discussioni tuttavia non hanno portato ad alcun risultato tangibile, meno che mai alla soluzione del problema dell’Ulster, un dossier che a detta del portavoce della Commissione europea Margaritis Schinas non verrà riaperto.

Per il momento sono questi i risultati dei tentativi esperiti dalla premier britannica Theresa May di ottenere entro martedì dal parlamento un secondo voto che sia favorevole all’accordo che lei stessa ha stipulato con l’Ue, quello bocciato in gennaio dalla Camera dei Comuni. Nel frattempo si è vista costretta a fare delle concessioni agli interlocutori interni, transigendo ob torto collo su alcuni importanti punti della sua linea politica, Una tattica che non si è rivelata pagante. La May è stata più conciliante, impegnandosi a mettere ai voti un’altra proposta entro il 12 marzo nella speranza di ottenere la maggioranza in aula. Ella vorrebbe far compiere al Regno Unito il passo decisivo verso la Brexit ma definendone meglio i dettagli soltanto dopo la data di scadenza prevista.

E se il parlamento bocciasse nuovamente il suo piano, riveduto e corretto dal gabinetto conservatore in carica? Beh, allora il giorno successivo, cioè il 13 marzo, la premier dovrà sottoporre al giudizio della Camera dei Comuni un’alternativa alla “Brexit senza accordo”. Ai deputati toccherà fare la loro mossa: se decideranno nel senso indicato dalla premier, ritenendo disastrosa un’uscita dall’Ue senza un accordo, il giorno successivo (14 marzo) saranno chiamati a una terza consultazione, stavolta sulla possibilità di chiedere a Bruxelles un’ulteriore proroga, che se concessa rinvierebbe la Brexit a dopo il 29 marzo.

A questo punto si aprirebbero diversi scenari. Uno è quello della proroga breve e limitata, come vorrebbero a Downing street. Un risultato certamente non scontato, poiché il parlamento potrebbe invece optare per tempi più lunghi cercando di avviare un processo che consenta la radicale revisione della situazione creatasi col referendum del 23 giugno 2016. Ma dovrebbero proporre, qualora ne restasse ancora il tempo, un’ennesima consultazione referendaria alla quale chiamare i sudditi di Sua Maestà, con l’evidente scopo di ribaltare il precedente verdetto delle urne.

I membri del governo sembrerebbero ottimisti. Sperano di ottenere la maggioranza, seppure per pochissimi voti. La May e il suo inner circle si stanno giocando il tutto per tutto. Nel tentativo di coinvolgere l’opposizione laburista, varano in tutta fretta provvedimenti di natura “sociale”, come la costituzione di un fondo la cui dotazione viene indicata in 1.600.000 sterline, destinato alle “città disagiate”. Investono sul consenso potenziale delle comunità urbane danneggiate dalla globalizzazione e dalla de-industrializzazione, un elettorato che al referendum si è espresso per l’uscita dall’Ue.  

La traumatica vicenda della Brexit ha aperto alcune crepe nel tradizionale sistema bipartitico britannico. Infatti, se la premier conservatrice tenta disperatamente di ottenere il favore dei deputati della sinistra, anche una ridotta pattuglia di parlamentari che potrebbe rivelarsi decisiva al sostegno del suo piano alla Camera dei Comuni – e per farlo scavalca le procedure ordinarie, assumendo un impegno di spesa prima della presentazione del bilancio dello Stato prevista per il mese di marzo -, sull’altro fronte politico anche Corbyn deve fronteggiare dei problemi.

«Il Regno Unito ha una orgogliosa tradizione nell’aprire la strada ai diritti dei lavoratori – ha affermato pubblicamente la May -, ecco perché abbiamo promesso nuove misure per proteggere e migliorare tali diritti mentre stiamo lasciando l’Ue, dando al Parlamento, ai sindacati e alle imprese un maggiore ruolo nel plasmare i diritti dei lavoratori dopo la Brexit».

I laburisti, fin dall’inizio scettici nei confronti della politica del governo conservatore, hanno apertamente bollato le parole della premier come «retorica vuota». Tuttavia uno di loro, Jim Fitzpatrick, si è invece dimostrato pragmatico, commentando con favore il pacchetto di misure annunciate, aggiungendo che esso potrebbe rendere meno indigesto il Brexit deal. «Oggi il governo si è impegnato a considerare eventuali cambiamenti che rafforzino i diritti dei lavoratori – ha scritto sull’Huffington Post -, il governo afferma di adottare la direttiva sull’equilibrio della vita lavorativa, seppure questa entrerà in vigore dopo che il Regno Unito avrà lasciato l’Unione europea (…) riesaminerò, dunque, l’accordo sulla Brexit durante la prossima settimana sulla base di queste concessioni ai lavoratori e invito caldamente i miei colleghi laburisti a fare lo stesso».

Chi sono oggi i laburisti? All’interno del loro campo non pochi vengono assillati dal dilemma primigenio, quello sulla compatibilità del programma di Jeremy Corbyn con la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea. Il leader del Labour si è sempre pronunciato criticamente riguardo all’impianto neoliberista alla base della costruzione europea, ma buona parte dei militanti del suo partito, soprattutto quelli residenti nei maggiori centri urbani e i più giovani, al referendum hanno votato per il Leave. Il dilemma, o forse meglio sarebbe parlare di ubbia, è dunque se sia possibile trasformare il funzionamento dell’economia britannica mediante ricette socialiste ma permanendo nel rigido quadro normativo dei trattati europei.

Negli ultimi decenni, in Europa si è assistito a un’accelerazione del processo di liberalizzazione economica, ottenuta mediante la sistematica apertura ai mercati. La sovranità degli Stati membri è andata via via riducendosi, mentre sono stati sacrificati gli interessi nazionali quando collidevano con quelli dei grandi gruppi economici e finanziari privati. Corbyn sarà pure un massimalista, però è un politico lucido seppure a tratti venato da ambiguità. In questa difficile fase sta evitando di emarginare i settori del suo elettorato che vorrebbero rimanere nell’Ue. Allora paventa ardue prospettive, annunciando che qualora divenisse primo ministro negozierebbe con Bruxelles un’unione doganale permanente, che obbligherebbe Londra al rispetto della totalità delle regole comunitarie senza però rinunciare ai punti programmatici laburisti in materia di nazionalizzazioni e interventismo economico.  

Per quanto concerne la May, se dovesse andare nuovamente in minoranza per lei si materializzerebbe il worst case scenario. Tuttavia, i timori di una hard brexit potrebbero indurre molti dei parlamentari sia conservatori che laburisti (magari adeguatamente consigliati da qualche “gnomo” della City) ad andare oltre lo stratagemma negoziale architettato dalla May per giungere a ottenere dalla Ue una proroga meno vincolata a limiti temporali eccessivamente stretti. Un respiro maggiore porrebbe i negoziatori britannici nelle condizioni di concepire addirittura il superamento dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, anche perché l’Alta Corte del Regno Unito ha avuto modo di rimarcare con una sua sentenza che la sovranità risiede negli organi rappresentativi del popolo, cioè nella Camera dei Comuni, piuttosto che in una consultazione referendaria.

In conclusione, le possibilità che seguiranno al voto potranno essere tre: una proroga di breve periodo (quella che vorrebbe la May), una invece di maggiore respiro e, infine, nessuna proroga. In quest’ultimo caso si tornerebbe al punto di partenza, cioè al No Deal. Molto, se non tutto, dipenderà dallo scioglimento del nodo centrale della controversa questione del backstop.

Prendere tempo per negoziare, dunque. Il Labour Party sarebbe anche favorevole a una proroga, ma in una prospettiva che conduca al ribaltamento degli esiti referendari del 2016 con un’affermazione del leave. Nei fatti, comunque, una proroga aprirebbe un ventaglio di scenari finora rimasti preclusi.

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