ARABIA SAUDITA, il punto. Riyadh arranca? Sempre più attivi in campo diplomatico, i sauditi giocano al rialzo sui prezzi petroliferi

Le sabbie del deserto della Penisola arabica scottano sempre di più sotto i piedi della leadership saudita. Il Regno attraversa una epocale fase di transizione che dovrebbe condurre al definitivo superamento della tradizionale successione gerontocratica al trono.

Con il consolidamento del potere nelle mani dello scaltro e determinato Mohammed bin Salman si prospetterebbe dunque una prolungata fase di stabilità ai vertici della monarchia più potente del Golfo. Infatti, il principe ereditario ha solo 34 anni e sarebbe riuscito, con le buone o con le cattive, a controllare i vari rami della dinastia, facendo allo stesso tempo strame dell’opposizione all’estero. Apparentemente nessuno osa opporglisi. Egli, per mano dei suoi mukhabarat, soffoca l’opposizione all’estero.

Il brutale assassinio del giornalista Jamal Khashoggi rappresenta una delle modalità di azione del nuovo gruppo dirigente a Riyadh. Le palesi violazioni dei diritti umani, dentro e fuori il Regno, non ricevono sanzione alcuna. I sauditi sono troppo importanti nel giro mondiale degli affari e questo spiegherebbe l’inerzia dell’Onu e della Lega Araba.

Riyadh non naviga più in ottime acque dal punto di vista economico, però si permette il lusso di vestire i panni del terzo importatore mondiale di materiali d’armamento, un invidiabile record che, in controluce, lascia intravedere la filigrana delle ambizioni del giovane principe, che vorrebbe vedere il proprio regno assurgere a potenza regionale egemone. È il vecchio sogno di una parte degli al-Saud, portare a termine la mai sopita creazione di un unico soggetto politico autonomo che comprenda tutte le genti arabofone sia mediorientali che nordafricane, ovviamente di credo sunnita.

Mohammed bin Salman avverte l’intensità della sua potenza, però non è chiaro se e quanto riesca a misurarla. Tuttavia la applica concretamente ai suoi disegni egemonici. Ma non tutto gli va per il verso giusto. Il suo esercito si è impantanato nel confinante Yemen, dove si combatte una guerra devastante che oppone Riyadh all’altra potenza regionale, l’Iran sciita che sostiene gli Houti. Si tratta di un conflitto che lambisce i confini del Regno e che a volte li attraversa anche.

Non solo. In realtà è l’intera regione a essere sconvolta da conflitti per procura e i sauditi cercano di limitare in Siria e in Libano l’influenza attualmente esercitata da Teheran. Le potenze planetarie e quelle regionali si combattono in diverso modo un po’ dappertutto: Yemen, Siria, Palestina, Sinai egiziano, Libia, Iraq. Le alleanze sono oltremodo definite, da un lato il gruppo riconducibile ai sauditi, cioè quel blocco sunnita comprendente Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, visti di buon occhio da Israele e dagli Usa del presidente Trump. Dall’altro i loro avversari, non sempre con totale comunanza di interessi, tuttavia uniti per necessità, essi sono l’Iran, il piccolo ma ricco emirato del Qatar e la Turchia di Erdoğan, a loro volta sostenuti dalla Russia e, in parte, anche dalla Cina. In mezzo restano le vittime predestinate: curdi, siriani, palestinesi, iracheni e via discorrendo. Le alleanze si modellano anche in funzione delle materie prime energetiche presenti nel sottosuolo. Riyadh è un alleato dell’Egitto del generale al-Sisi, che a sua volta fornisce il fondamentale sostegno a un altro generale, il libico Haftar, grande amico dei francesi e potente referente nella disputa per il petrolio che fu di Gheddafi.

L’Egitto ha anche raggiunto un accordo con Israele, Cipro e Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale del Mediterraneo e, secondo alcuni analisti del settore, ora si verrebbe a creare un corridoio energetico che anche i sauditi potrebbero utilizzare. Essi attualmente indirizzano i loro flussi di esportazione di prodotti petroliferi attraverso il Mediterraneo orientale, lo fanno in quanto costretti dalle pressioni iraniane esercitate da questi ultimi, direttamente o per mezzo dei loro alleati, negli Stretti di Hormuz e a Bab el-Mandeb.

Ma sono davvero soltanto gli attacchi subiti dalle sue navi cisterna a imporre nuove rotte oppure alla base di esse risiedono altre ragioni? Nei recenti attacchi le due petroliere, aventi una capacità di due milioni di barili di greggio, hanno riportato solo danni lievi, in ogni caso le azioni hanno provocato la temporanea interruzione dei flussi. Nel 2016, in diverse condizioni sia di mercato che di sicurezza, dagli stessi “colli di bottiglia” transitavano quotidianamente 4,8 milioni di barili di prodotti raffinati diretti ai consumatori di Europa, Asia e Stati Uniti d’America.

L’interruzione dei flussi coincide praticamente con la decisione di ridurre le proprie esportazioni di greggio annunciata nel gennaio scorso dal ministro saudita del petrolio Khalid al-Falih, ritenuto de facto leader dell’organizzazione dei produttori di petrolio, un’Opec ormai senza più il Qatar tra i suoi membri. Dai 7,9 milioni di barili di greggio ogni giorno collocati sui mercati internazionali nel novembre del 2018, Riyadh è passata ai 7, 1 milioni del febbraio 2019, con l’obiettivo esplicito di favorire un rialzo dei prezzi almeno a 80 dollari al barile.

Evidentemente i sauditi hanno bisogno di soldi e un livello più elevato dei prezzi delle materie prime energetiche potrebbe metterli nelle condizioni di iniziare a risanare il loro enorme deficit di bilancio e riavviare quello che fino a un recente passato è stato il loro generoso sistema di welfare. Saranno in grado il giovane Mohammed bin Salman e la sua cerchia di commisurare le proprie ambizioni egemoniche con i crescenti costi di una politica di potenza regionale?

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