La notizia è stata diramata da fonti del governo di Kabul, mentre la rivendicazione dell’azione è stata fatta pervenire dal portavoce degli islamisti radicali Zabihullah Mujahid.
Si tratta di un film già visto. In una fase nella quale si attende il disimpegno Usa (e dei suoi alleati, Italia inclusa) dal Paese centroasiatico, in concomitanza con la visita dell’ex presidente afghano Hamid Karzai a Mosca – che è rimasto a colloquio per mezz’ora con una delegazione talebana guidata da Sher Mohammad Abbas Stanekzai -, e mentre tutti attendono forme e modi del ritiro delle truppe americane annunciate da Donald Trump nel quadro di quell’intesa in via di principio per un accordo di pace, qualcuno si è fatto sentire marcando il proprio “peso” con le armi.
Che sta succedendo in quel martoriato paese? E cosa succederà quando le truppe della forza multinazionale di pace non ci saranno più? Anche in questo caso si reciterà sulla base di un copione già recitato?
Il timore di non pochi afghani è che si ripeta la storia, come ai tempi di Najibullah, quando andati via i sovietici a Kabul rimasero col cerino in mano e, dopo un’altra parentesi di guerra e distruzione, gli “studenti islamici”, un po’ combattendo e un po’ comprandosi gli avversari, fecero il loro disordinato ma trionfale ingresso nella capitale.
Incertezza. Trump ha fretta e accelera il disimpegno americano dai teatri operativi del Medio Oriente e dell’Asia centrale. Lo fa perché vuole concentrare il suo potenziale militare nel Pacifico, in funzione di contrasto della Cina Popolare, per ora nemico soltanto economico. I talebani si incontrano con Karzai a Mosca, però hanno intavolato un dialogo diretto con gli americani. Ma, quanti e chi, in questa terra di gruppi armati, milizie, trafficanti di droga e warlords sono d’accordo? Chi invece ha interessi diversi da quelli dell’intesa con Washington?
Al momento metà del territorio afghano è sotto il controllo dei talebani (cioè dei combattenti dell’Emirato Islamico che fu del mullah Omar) o dell’Islamic State, che si oppongono al governo di Kabul sostenuto dalle forze internazionali di stabilizzazione. Un governo debole, dilaniato dalle lotte intestine che oppongono la fazione riconducibile ad Ashraf Ghani, presidente della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, a quella che sostiene il primo ministro Abdullah Abdullah. Compromesso politico basato sulla spartizione del potere che si regge, seppure precariamente, dal 2014, quando grazie a un accordo si evitò di innescare una nuova guerra civile nel Paese, ma i perduranti contrasti rendono comunque instabile la situazione.
Nel frattempo le forze di sicurezza afghane – 340.000 uomini tra militari e polizia addestrati dalla NATO – sono state l’oggetto delle attenzioni di Washington e della comunità internazionale dal 2012 in poi, anno della ritirata degli uomini del mullah Omar e del conseguente insediamento a Kabul dell’Alleanza del Nord, variegata coalizione messa in piedi da Bush per fare la guerra al terrorismo dopo gli attentati dell’undici settembre.
Però le unità dipendenti dal governo non esprimono certamente l’efficacia adeguata agli scopi per le quali sono state costituite. I limiti da loro evidenziati sono indice della sostanziale incapacità nel controllo del territorio nazionale. Ripiegate – con il consenso degli americani – quasi totalmente nelle principali città del paese, più facilmente difendibili, hanno così sguarnito le aree rurali, che ora sono quindi nelle mani dell’opposizione armata.
Ma, allora: si deve restare in Afghanistan oppure lo si deve abbandonare al suo tragico destino? E ancora, come reagiranno di fronte a questi sviluppi gli attori regionali, Pakistan in primis? Non è chiaro quali risultati siano stati raggiunti nel dialogo di riconciliazione nazionale. Una delle parti in causa, i talebani, sono «una galassia insurrezionale» estremamente composita al proprio interno mantenuta relativamente coesa da una leadership al momento forte. Durerà?
Il dubbio è che non tutte le componenti accettino i risultati del negoziato con Washington, sfuggendo di mano ai vertici dell’Emirato che trattano mediante il loro ufficio politico in Qatar e, di risulta, ponendo a rischio l’eventuale accordo di pace che verrà (o che è già stato) stipulato. A questo punto si configurerebbero due ordini di rischi: la prosecuzione dei combattimenti da parte di un non irrilevante numero di talebani e la confluenza di parte di loro all’interno della milizia jihadista dello Stato Islamico del Khorasan, incrementandone l’attuale ridotta consistenza.
Inoltre, come accennato in precedenza, qualora il processo negoziale in atto avesse successo potrebbe portare alla conseguenza dell’isolamento delle forze di sicurezza governative e del loro rapido sfaldamento. Sentendosi abbandonati, alcuni di questi uomini armati potrebbe allora trovare conveniente passare dalla parte degli islamisti, con funeste conseguenze prevedibili.