Generale Vincenzo Camporini (vicepresidente Istituto Affari Internazionali) – Quello di oggi è un incontro su un tema di estrema attualità e lo è da qualche anno, purtroppo, e probabilmente lo resterà ancora nei prossimi anni.
Prima di dare
la parola agli oratori, un solo pensiero da parte mia: noi parliamo di
sicurezza nel Mediterraneo. Ora bisogna notare che la semantica è importante,
dato che noi abbiamo questo termine “sicurezza” che vuol dire due cose, perché
in inglese lo stesso termine si può tradurre o con il vocabolo “safety” oppure
con “security”. Il fatto che nel mondo anglosassone le due cose siano viste in
modo separato, mentre noi le vediamo sempre strettamente interconnesse, credo
sia fondamentale. L’evidenza è nell’atteggiamento che noi abbiamo avuto in
questi anni per quello che accadeva nel Mediterraneo. Perché, certamente, ci
interessava la security, ma non abbiamo trascurato la safety di quelli che si
avventuravano in mare. È una cosa di cui tenere conto perché le differenze di
percezione nei vari Paesi possono poi porre a comportamenti che non sono
perfettamente in linea, come abbiamo purtroppo visto in questi anni e soltanto negli
ultimi tempi c’è stata una condivisione quasi unanime dell’atteggiamento
assunto dall’Italia da tempo.
Ma, come ho detto, abbiamo molto da
fare questo pomeriggio, quindi io mi taccio e passo subito la parola al dottor
Alessandro Marrone, che ha svolto un ottimo lavoro di ricerca sull’argomento.
Alessandro Marrone (responsabile di ricerca IAI) – Grazie generale e grazie ai tutti i partecipanti per essere intervenuti questo pomeriggio.
Da molto
tempo lo IAI sviluppa un’attività di studio sui temi della sicurezza e difesa,
nella convinzione che solo una visione globale può consentire una comprensione
di determinati settori o aree geografiche e la validità di questo approccio è
sempre più confermata dall’evoluzione dello scenario internazionale e mai come
negli ultimi mesi è emersa in modo prepotente la dimensione globale della
sicurezza, sia sul piano delle minacce che su quello delle risposte. Per citare
un matematico e meteorologo, Lorenz, che nel 1972, ben prima che io nascessi si
chiese se il batter d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado
in Texas. Ecco, passando dalla meteorologia al campo della sicurezza economica
e politica, la risposta è sì. Viviamo in un mondo sempre più globalizzato in
cui integrazione e interazione accentuano la complessità dei problemi.
Tuttavia, fatta questa premessa e sulla base di questa consapevolezza, lo IAI
sviluppa anche approfondimenti specifici, perché la complessità delle
problematiche sul tappeto richiede anche di concentrare gli sforzi su un’area
di ricerca più limitata. Lo studio che presentiamo oggi ne è un esempio, un po’
come la conferenza che faremo il 9 dicembre sulla minaccia cibernetica ai
sistemi di controllo del traffico aereo civile, altro incontro su un problema
specifico e interessante al quale vi invito a partecipare.
Oggi non presentiamo una ricerca sulla
sicurezza marittima a livello globale, ma ci concentriamo sul bacino del
Mediterraneo e sull’Italia. Devo dire che anche con questo perimetro il focus
non si presenta certamente di ridotte dimensioni e ha richiesto un
significativo sforzo analitico. Per questo abbiamo puntato a un’opera
collegiale – ogni capitolo è stato firmato da un differente autore – attivando
la migliore expertise che abbiamo in diversi programmi dello IAI (Programma
energia, Programma Europa, Programma Mediterraneo e Medio Oriente e Programma
sicurezza e difesa). Non vi farò il riassunto del volume anche perché sono 160
pagine belle dense, ma fornirò alcuni elementi chiave dei singoli capitoli che spero
possano contribuire al dibattito di oggi.
Il primo capitolo (di Silvia Colombo, responsabile di ricerca del Programma
Mediterraneo e Medio Oriente) ci fornisce un’analisi e una guida dei
cambiamenti in corso nel mondo arabo. Qui vorrei sottolineare solo due
elementi: da un lato abbiamo nuovi attori, statuali e non, che stanno venendo
alla ribalta con dinamiche di competizione e conflittualità reciproca;
dall’altra si acutizzano quelle linee di divisione di natura settaria, etnica o
tribale, che vediamo in particolare nel caso sunnita, sciita, ma non solo. In
realtà si sta verificando una crisi dello stato-nazione, è il venir meno del
nazionalismo arabo e del panarabismo che per decenni aveva costituito un
collante per la stabilità nel Mediterraneo. Quindi oggi, più che nel passato,
sono le dinamiche interne ai vari stati a influenzarne la politica estera
oltreché lo scacchiere regionale. I partiti islamisti ne sono l’esempio
principale, ma in generale sta mutando il ruolo delle potenze regionali – si vedano
ad esempio i casi della Turchia, dell’Arabia saudita e del Qatar – e questa
mutazione dipende da una situazione politica interna. Queste sono alcune delle
ragioni di fondo del proliferare di conflitti intra-statali, lungo la linea di
faglia sunnita-sciita o che vedono contrapposti islamisti a non islamisti, con
il coinvolgimento di alcuni stati della regione che sono ormai considerate come
guerre per procura (Proxi-War).
Il messaggio
di fondo di questo capitolo secondo me è che lo stato-nazione e l’ordine
regionale sono collassati sotto il peso dell’insostenibilità socio-politica di
questi regimi, di cui le primavere arabe sono state la conseguenza e non la
causa. Di conseguenza, se si vuole affrontare efficacemente la minaccia
terroristica, il Daesh, la crisi migratoria, eccetera, è proprio dalla
ricostruzione dell’ordine regionale e dei suoi attori statuali che bisogna
partire.
Il secondo capitolo – firmato da Alessandro Riccardo Ungaro, ricercatore del
Programma sicurezza e difesa dello IAI molto attento alla dimensione economica
e industriale – offre una serie di analisi e di dati notevolmente interessanti
sui traffici navali, sulle sfide commerciali e infrastrutturali che deve
affrontare l’Italia nel Mediterraneo. Qui il “messaggio chiave” è che l’Italia
può cogliere nel Mediterraneo grandi opportunità. Si pensi soltanto che
l’antico mare nostrum ancora oggi rappresenta un punto nevralgico per i
commerci e l’economia internazionale, infatti vi transita circa il 20% del
traffico marittimo mondiale, percentuale che era solamente del 15 fino a una
decina di anni fa, quindi è interessato da una fase di crescita. L’interscambio
commerciale dell’Italia con l’area mediterranea è cresciuto del 64% tra il 2001
e il 2013, passando da 33 a 55 miliardi di euro. Il fatto che tale interscambio
abbia luogo per il 75% via mare dimostra ulteriormente quanto siano
fondamentali i traffici marittimi per un paese come l’Italia e, più in
generale, quanto sia fondamentale quella che viene denominata economia del mare
per l’economia nazionale. Un esempio: il solo segmento della cantieristica si
posiziona ai primi posti dell’economia del mare con circa 27.000 attività
imprenditoriali, che incidono per il 15% sul totale delle impese del settore.
Nel suo complesso la filiera della cantieristica è capace di generare un
effetto moltiplicatore pari a 2,4 euro sul resto dell’economia, quindi a fronte
di 7,2 miliardi di euro prodotti nel 2014 ne sono stati attivati altri 17,4
derivanti da varie attività.
Il terzo capitolo è firmato da Nicolò Sartori, coordinatore dell’area energia dello IAI, un programma di ricerca lanciato da poco ma che è già molto attivo. Se il Mar Mediterraneo è strategico dal punto di vista economico lo è altrettanto dal punto di vista energetico. Qui è necessario chiarire un punto: la crescita dei consumi energetici in Asia, la quasi indipendenza energetica degli Usa e la stagnazione dei consumi in Europa possono far immaginare un certo ridimensionamento del Mediterraneo come snodo dei traffici energetici globali, ma il Mar Mediterraneo dal punto di vista energetico sta diventando sempre di più un’area interconnessa, interdipendente e integrata, ed è quindi strategica per i paesi che vi si affacciano. In questo senso il mare nostrum è davvero il “mare nostro”, in quanto può anche risultare meno importante per la Cina o per gli Usa, ma resta importante per noi e per gli altri paesi che vi si affacciano. Anche in questo caso le tradizionali dinamiche di complementarietà dei paesi produttori di energia della sponda sud e di quelli consumatori della sponda nord stanno cambiando. Ad esempio vi è un’importante transizione energetica che interessa Paesi arabi come l’Egitto, non più esportatori, ma divenuti importatori di energia a causa della crescita dei consumi interni; si registra una crescita delle trivellazioni offshore, quindi non sulla terraferma ma sui fondali marini, sia a largo della sponda sud (si pensi al giacimento scoperto dall’Eni in Egitto) sia in Adriatico nelle acque croate come nel Mediterraneo orientale.
Il giacimento egiziano di Zohr, scoperto dall’Eni, è il più grande del Mediterraneo e ha delle riserve stimate pari a 850 miliardi di metri cubi di gas naturale. Si tratta di scoperte che potrebbero portare alla creazione di un hub del gas in Mediterraneo, quindi a maggiore cooperazione, oppure a un aumento delle dispute e delle tensioni, derivanti ad esempio dalla zona economica esclusiva (ZEE) tra Cipro, Turchia e Israele. Si tratta comunque di scoperte le cui infrastrutture in mare vanno protette. Nel Mediterraneo l’Unione europea ha importanti carte da giocare sul fronte energetico, come evidenziato anche dalla comunicazione della Commissione europea sull’Energy Union.
E, venendo all’Unione europea, arriviamo al capitolo firmato da Lorenzo Lai, che è un ricercatore sia dello IAI sia del Centro Studi per il Federalismo di Torino, che ringrazio oggi per essere venuto appositamente per questa conferenza. Lorenzo si concentra sulla European Union Maritime Security Strategy, che porta diverse novità. La prima è quella “di esistere”, dato che per un attore complesso e dai molteplici centri decisionali come la Ue, già il fatto di aver trovato un accordo tra il livello intergovernativo (cioè dei Paesi membri presenti in Consiglio) e il livello comunitario della Commissione europea rappresenta già un successo, o, se si vuole, una novità. Ora, certamente non basta un copione per essere un attore, quindi non basta la strategia di sicurezza marittima per fare dell’Unione europea un soggetto rilevante in questo campo, tuttavia – a meno che un attore sia molto bravo a improvvisare, ma questo non è il caso della Ue, e lo si è visto in Ucraina e durante le primavere arabe – avere un canovaccio per recitare la propria parte è in ogni caso un punto di partenza indispensabile.
Quali sono
dunque i punti salienti della Maritime
Security Strategy della Ue? Intanto quattro principi guida: primo, un
approccio intersettoriale che conduca a una migliore cooperazione tra tutti i
soggetti operanti in mare, sia civili che militari, comprese le varie agenzie
dell’Ue e le industrie del settore privato; secondo principio, un’integrità
funzionale che non pregiudichi le competenze soggettive dei soggetti coinvolti
e che eviti l’introduzione di nuove strutture, norme e organi amministrativi;
terzo, il rispetto delle norme e dei principi riconosciuti dal diritto
internazionale (tutela dei diritti umani, convenzione Onu sul diritto del mare);
quarto, un multilateralismo marittimo che coinvolga tutti i partner e le
organizzazioni internazionali pertinenti, a partire da Nato e Onu. Ora, su
queste basi la Strategia individua varie linee di azione, qui per brevità ne
citerò soltanto due che mi sembrano molto importanti: in primo luogo l’aumento
della Maritime Situational Awareness,
l’aumento della sorveglianza degli spazi marittimi e della condivisione delle
informazioni e dei dati raccolti dai sistemi di sorveglianza esistenti, dando
vita a un’ambiente comune dell’informazione; in secondo luogo il sostegno allo
sviluppo delle capacità tecnologiche duali, il sostegno alla cooperazione in
materia di standardizzazione e di certificazione, al fine sia di rafforzare
l’interoperabilità civile e militare sia la competitività industriale.
Ora, anche la Nato ha una sua maritime strategy, ma il documento
risale al 2011 e mi sembra datato, quindi non ve ne parlerò. Ma dal capitolo
quinto, che ho scritto io su Occidente, Nato e Mediterraneo, vorrei estrarre
solo la risposta a una semplice domanda: come vedono il Mediterraneo i nostri
principali alleati della Nato? La domanda non è banale.
Iniziamo dagli Usa, Washington vede il Mediterraneo non come “Mediterraneo”, bensì come Meaddle East e North Africa (MENA), e questa regione è da sette anni una regione dalla quale l’amministrazione Obama sembra volersi disimpegnare il più possibile. E non importa se tale disimpegno implica una competizione senza esclusione di colpi tra gli stessi alleati degli americani (vedasi Arabia saudita e Turchia in Siria, con le conseguenti guerre civili, avanzata di Daesh e crisi migratoria), perché finché tutto questo non comporta un attacco diretto alla sicurezza americana, per Washington questi restano problemi degli europei.
E ancora, la Gran Bretagna come vede il Mediterraneo? Essa guarda poco al Mediterraneo in quanto da tre-quattro anni non volge lo sguardo oltre il canale della Manica. Tra referendum scozzese, brexit, tagli massicci al bilancio della difesa e il reiterare la guerra in Afghanistan, il governo di Londra nel 2013 non è riuscito a ottenere l’approvazione del parlamento per l’effettuazione di raid aerei in Siria e fatica tuttora per ottenerli.
La Germania. Berlino non guarda al Mediterraneo perché quando si volta a sud il suo orizzonte si ferma alle Alpi e ai Carpazi, cioè ai confini del suo spazio geopolitico. Infatti, quando la crisi migratoria del 2013-14 era tutta sulle spalle dell’Italia, Berlino – e (quindi) Bruxelles – non guardavano al Mediterraneo. Solo quando le colonne di migranti hanno fatto il loro ingresso a piedi nel cuore della Mitteleuropa attraverso la rotta balcanica, allora si è interessata del problema siriano, estendendo la protezione ai profughi che premevano sui confini della sua area d’interesse geopolitico (che però non include il Mediterraneo). Ora Berlino si interessa del Mali, bypassando il Mediterraneo, perché è lì che può aiutare la Francia.
La Francia.
La Francia guarda al Mediterraneo, non a caso ha annunciato l’Unione per il
Mediterraneo, ma lo vede come un tutt’uno con il Sahel a sud e con il Levante e
il Golfo Persico a sud-est, è in quest’ottica che interviene politicamente e
militarmente in Mediterraneo. Come ha fatto in Libia nel 2011 prima dell’intervento
della Nato e come fa in Siria da prima degli attentati di Parigi. In questo
quadro, se questi sono i nostri alleati, cosa può fare l’Italia? Beh, l’Italia
potrebbe e dovrebbe aviare un dialogo strategico con la Francia su cosa fare
nel Mediterraneo, tirandovi dentro in un formato minilaterale gli altri
maggiori Paesi europei, giocando di sponda con l’Ue e con la Nato. Tra Parigi e
Roma ci sono interessi e visioni comuni, anche divergenti, quindi sarebbe bene
parlarne francamente per vedere cosa fare al riguardo. Ma per dialogare bisogna
essere in due. Se non si rinviene un terreno comune, un’azione militare
francese senza una strategia condivisa rischia solo di peggiorare le cose, come
è avvenuto in Libia nel 2011.
Concludo con l’ultimo capito scritto e firmato da me, dal professor Michele
Nones e da Alessandro Ungaro, dove partendo dall’analisi dall’ondata migratoria
che negli ultimi anni ha interessato il Mediterraneo centrale coinvolgendo
principalmente l’Italia. Da qui lo sforzo senza precedenti per il salvataggio
in mare di centinaia di migliaia di migranti, grazie soprattutto all’impegno
della nostra Marina militare. Il secondo aspetto che abbiamo voluto
sottolineare è la grande attenzione che il Libro bianco italiano per la
sicurezza internazionale e la Difesa ha dedicato alla regione euromediterranea,
indicato come l’ambito di azione prioritario per gli interventi nazionali,
prioritario ma non esclusivo. Se si vuole dare seguito a questa indicazione
servirà una volontà politica costante e forte di prendere iniziative
diplomatiche e militari, cioè di fare politica estera e di difesa. Ma
serviranno anche gli strumenti per realizzare queste iniziative e, per troppo
tempo si è fatto fronte alle nuove e maggiori esigenze operative mettendo sotto
sforzo uno strumento militare disegnato molti anni fa, senza assicurare la
necessaria continuità, oltreché intensità, dell’ammodernamento degli
equipaggiamenti. In quest’ottica la legge pluriennale per i maggiori programmi
di investimenti per le Forze Armate prevista dal Libro bianco potrebbe
rappresentare il motore di un adeguamento dello strumento militare che non è
più rinviabile. Grazie per l’attenzione.
Generale Vincenzo Camporini (vicepresidente Istituto Affari Internazionali) – A questo punto dò la parola all’Ammiraglio De Giorgi, inutile presentarlo: capo della nostra Marina e motore del rinnovamento della nostra flotta.
Ammiraglio Giuseppe De Giorgi (capo di Stato Maggiore della Marina) – Grazie generale, buongiorno a tutti, Sottosegretario, Presidente Latorre, Autorità, gentili ospiti. Io tratteggerò rapidamente alcuni punti che mi stanno molto a cuore su questo argomento che secondo me è centrale per la sicurezza nazionale.
In primo luogo va un apprezzamento allo IAI per aver affrontato questo tema, che è particolarmente trascurato in generale, a mio parere l’Italia è uno di quei paesi che ha la minor consapevolezza del proprio destino marittimo. Nonostante, anche nei libri di geografia dalla prima elementare, l’azzurro che circonda la penisola faccia capire anche ai meno esperti in geopolitica che siamo circondati dal mare e non dal deserto, per cui oltre alle Alpi non c’è il deserto che ci circonda con i cammelli ma c’è l’acqua, quindi questo ci rende una nazione inerentemente marittima, considerato il fatto che la stragrande maggioranza dei beni che trasformiamo e dell’energia che ci è necessaria arriva dal mare. Questo però non è conosciuto e non è al centro, finora, delle politiche nazionali e tantomeno della sicurezza e questo lo si evidenzia anche dal fatto che la Marina militare è la forza armata più piccola col budget più ridotto storicamente dal dopoguerra. Quindi è segno che il nostro approccio verso la sicurezza certamente non è in chiave marittima, non lo è stato perlomeno. L’investimento nella componente marittima va oscillando ed è più figlio della imminente risoluzione della flotta piuttosto che da un aggiornamento di ampia visione strategica: si prende atto che non si costruiscono navi da moltissimi anni, sta per finire la flotta e di conseguenza si cerca di porvi rimedio.
Eppure, invece, il Mediterraneo è non solo è fondamentale per la sicurezza, ma è una grandissima opportunità per l’Italia. Anzi, probabilmente è l’unica opportunità in politica estera che ha l’Italia visto il fatto, come afferma lo studio appena presentato, che nel Mediterraneo c’è un vuoto strategico, perché il Mediterraneo in quanto tale alla fine interessa a pochi attori. Soprattutto, direi, all’Italia e alla Grecia. Per gli altri è tutta una componente di regioni geostrategiche dove ci sono interessi diretti di alcune nazioni: per la Francia sono stati nominati il Sahel e il Mali, per la Turchia soprattutto il Medio Oriente inteso come zona di espansione verso Oriente.
Però, parlare del Mediterraneo, a mio avviso, non ha senso se non si parla della sua dimensione allargata. Cioè, il Mediterraneo non è un mare autonomo e non lo è soprattutto nell’ottica italiana, perché se lo vediamo come un lago circondato da terre animate e percorse da gravi problemi che si risolvono solo sulla terra si tratta di un approccio che si può anche considerare, ma nell’ottica italiana a mio avviso è un grave errore.
Sarebbe
infatti molto difficile ragionare sul Mediterraneo senza parlare della
sicurezza dei suoi accessi e quindi del Mar Rosso. Se uno chiudesse Bab
el-Mandeb sarebbe come chiudere Suez, cioè vorrebbe dire che il traffico
commerciale aggirerebbe Suez e il Mediterraneo trovando il suo centro di snodo
in Marocco, dove le navi portacontainer di grande pescaggio distribuirebbero i
loro carichi su navi più piccole che poi farebbero ingresso nel Mediterraneo
dallo stretto di Gibilterra. Come accade adesso con Gioia Tauro, che appunto
assolve a questa funzione. Trieste e Genova perderebbero il loro compito
attuale, che il ruolo di snodo per l’Europa centro-orientale e
centro-occidentale, quindi tutto entrerebbe poi dai porti atlantici di Francia,
Olanda e Germania.
Ora, ecco perché è necessario
affrontare la sicurezza in Mediterraneo sempre in un’ottica che va verso una
dimensione allargata, questo anche perché coincide con l’interesse nazionale.
Se noi guardiamo alla partecipazione italiana alle imprese internazionali
vediamo che una grandissima parte di queste si è giocata nel Golfo Persico.
Chiudere gli stretti di Hormuz in pratica vorrebbe dire intercettare una buona
parte delle merci che noi esportiamo verso l’Oceano Indiano e, viceversa, il
petrolio che noi importiamo.
Analoghe considerazioni si possono fare per la pirateria in Oceano Indiano. Già pochi anni fa, quando la pirateria era nel “suo splendore”, era stata registrata una riduzione del 16% del traffico mercantile attraverso Suez e problemi analoghi potremmo avere – in misura diversa ovviamente, analoghi nella fattispecie ma diversi nell’impatto – se le coste della Guinea dovessero diventare altrettanto pericolose come lo erano quelle della Somalia.
Naturalmente l’altro aspetto fondamentale in termini di sicurezza nel Mediterraneo è l’accesso alla disponibilità energetica nei bacini adiacenti, come le acque di fronte al Mozambico o all’Angola, dove l’Italia ha investito grandi quantità di denaro e di risorse. A mio avviso sono strettamente legate che vanno viste come un unicum. Oggi ancora di più, considerata la situazione in Siria. Evidentemente in Siria gli attori principali sono l’Arabia Saudita, i Paesi del Golfo Persico e l’Iran, tutti paesi che si affacciano sulle acque del Golfo Persico, quindi questo è un altro elemento da considerare.
Il Mediterraneo è l’ultima frontiera aperta che ha l’Italia, dato che tutte le altre frontiere nazionali non ci sono più. Sono divenute frontiere regionali in un’ottica di federazione, sono comunque di un’Europa amica – ammettendo che la Svizzera non ripeta gli eventi dei lanzichenecchi, né che l’Austria decida improvvisamente di invaderci e né Slovenia cambi idea -, noi, in teoria, da quella parte dovremmo stare tranquilli. Di risulta, le aree che dobbiamo considerare più vulnerabili non possono che essere quelle della frontiera marittima. Frontiera marittima che si caratterizza sempre più da affacci sulle coste mutevoli e anche in tempi molto rapidi. Drammaticamente mutevoli. Ad esempio, sulla costa adriatica, quella che era considerata sempre più una zona pacificata con gli investimenti effettuati da paesi come l’Iraq o l’Arabia Saudita, le comunità musulmane stanno crescendo a un rateo molto sproporzionato rispetto alle comunità cristiane presenti in quelle zone. La distanza dall’Italia è talmente breve che il concetto di awareness, diciamo di costruzione della situazione di superficie e subacquea diventa vitale tanto quanto la difesa aerea e caratterizzata dalle alte velocità e dai tempi di reazione molto ridotti, quindi ecco che lì c’è un’altra area estremamente complicata.
Nella parte a Sud abbiamo problemi che si allacciano e si sovrappongono. La Libia, cioè la presenza di un failed state che rischia di diventare come la Somalia, si sovrappone come effetti a disastri di carattere ecologico. Basti pensare cosa potrebbe accadere se una piattaforma petrolifera – che, per altro, sono di proprietà dell’ENI anche se con bandiera libica – venisse attaccata, si potrebbe provocare, anche intenzionalmente, un disastro ecologico. E anche l’Egitto possiede riserve di gas naturale immense anche queste affidate all’Eni.
Dunque noi abbiamo da una parte questo insieme intricatissimo di fattori destabilizzanti che possono sfociare in azioni di tipo ibrido o di tipo asimmetrico, ma su tutto questo si sovrappongono, ritornano, invece elementi convenzionali tipici più della guerra fredda, come ad esempio la ricomparsa della Flotta del Mar Nero.
Quando parliamo di Mediterraneo, dunque, non possiamo non parlare di Mar Nero. I fatti della Crimea hanno cambiato completamente le carte in tavola per quanto riguarda l’equilibrio delle forze in Mediterraneo, con la ricostruzione della Flotta del Mar Nero e almeno sei nuovi sottomarini russi in arrivo in Crimea. Sei sottomarini russi che si sommano agli altri sottomarini che sono già presenti in Mediterraneo, per una presenza di quasi cinquanta sottomarini russi residenti in questo mare, questo senza poi considerare i sottomarini nucleari di passaggio. Un aspetto che muta completamente la dinamica del mantenimento della sicurezza, perché – ricollegandoci al concetto di “frontiera aperta” – chi possiede sottomarini può inserire in modo occulto sia terroristi, che mine, può condurre operazioni di ogni genere tra le quali quelle di intelligence o di controinformazione a nostro danno. Per queste ragioni anche la nostra postura, inevitabilmente, dovrà finire per cambiare e quello che finora era stato un intervento, più che di contenimento, di soccorso in mare, dovrà sempre più riconvertirsi e consolidarsi in una capacità di tipo militare molto più considerevole.
Chi, fino a poco tempo fa, avrebbe potuto immaginare che i turchi avrebbero potuto abbattere un cacciabombardiere russo? Tra poco opereremo tra occidentali e forze russe dotate di armi avanzatissime, nello stesso spazio e nello stesso tempo. Tant’è che i francesi sono riusciti a stipulare accordi operativi che gli permettono di agire nello stesso micro-spazio operativo. Parigi ha schierato la sua portaerei davanti alle coste siriane, mentre dal nord della Scandinavia, dalla Penisola di Kola, bombardieri russi accompagnati da aerorifornitori si sincronizzano con i bombardieri russi che decollano dalla Crimea e con i missili lanciati dalle unità della marina nel Mar Caspio e insieme, nel medesimo istante, colpiscono centinaia di bersagli in Siria. Questo per dire come la situazione in Mediterraneo sia cambiata radicalmente, stratificandosi in tante forme di minacce e di pericolo. Questo è anche dovuto al fatto che il coperchio di quella che una volta era la pentola a pressione, cioè la marina americana è sostanzialmente sparita dal Mar Mediterraneo riducendosi a quattro supercaccia della classe Arleigh Burke in chiave di protezione, però antibalistica di base, a Roda, quindi una presenza rilassata rispetto a quella russa, che invece è massiccia nelle acque prospicenti la Siria. Altra novità è la presenza sistematica della marina cinese, che impiega le sue unità in Mediterraneo ormai su base regolare, fatto che segue il massiccio investimento economico in Africa, che dalle regioni orientali del continente si sta estendendo anche verso paesi come l’Egitto e, al riguardo, sono state intraprese iniziative per il Mediterraneo proprio dalla Cina.
Con quali minacce dovrà confrontarsi l’Italia? Indubbiamente, oltre a quelle macroscopiche ricollegabili all’energia e alle linee di comunicazione, tra le nostre vulnerabilità vi è sicuramente quella relativa alla possibilità di essere attaccati nei nostri porti mediante la costruzione e la distribuzione di mine anche primordiali, l’utilizzo dell’arma subacquea anche in forma primitiva, del resto non è un mistero per nessuno che nel Sud America, nei Caraibi, i trafficanti di droga utilizzino dei sommergibili rustici che però attraversano ampi tratti di mare per trasportare il loro carico a destinazione. Nulla di più facile, quindi, di una “bomba sporca” portata con un primordiale sommergibile in un nostro porto.
L’altra grande vulnerabilità sta nel fatto che la nostra economia è fortemente dipendente dalla trattazione dei dati e quindi tutto il nostro sistema, compresa la parte marittima, può essere messa ko con una certa facilità mediante attacchi cibernetici o attraverso la privazione di dati, privazione di dati che può avvenire anche tramite la recisione dei cavi sul fondale marino, sia che siano elettrodotti, sia che siano gasdotti, ma sia che siano anche dati portanti di comunicazioni, perché il satellite fa molto, ma ancora adesso la maggior parte delle comunicazioni avviene via cavo e via cavo sommerso.
Un’altra
considerazione che noi dobbiamo fare è quella relativa alla collocazione
geografica dell’Italia, che è strategica in chiave di controllo del
Mediterraneo, ma in una chiave di minaccia asimmetrica è chiaramente esposta: poche
ore di gommone ci separano dalla Tunisia e dalla Libia e, utilizzando una nave
di dimensioni medie, pochissime dalla costa orientale dell’Adriatico.
Cosa possiamo fare quindi per essere presenti nel modo migliore e più efficace?
Innanzitutto va detto che noi finora non siamo stati particolarmente attivi,
abbiamo delle iniziative, il 5+5 e altre collaborazioni, tuttavia la
collaborazione teorica, esclusivamente diplomatica, è priva di valore se poi
non è accompagnata da azioni concrete. C’è un settore che si annuncia come un
settore di confronto ulteriore e che mette in competizione gli interessi dei
paesi costieri, quando si parlava prima di una politica europea tutti sappiamo
che noi siamo alleati solo in certe cose e solo a volte, poi siamo in competizione
gli uni con gli altri. E uno dei settori di competizione è quello di certe aree
del mare non più totalmente libere. Non quanto la sappiano, ma solo il 30%
della superficie del Mediterraneo ha mantenuto lo status di “acque
internazionali”, quindi totalmente prive di vincoli, mentre il 70% è reclamato
dagli Stati costieri in un modo o nell’altro. E dato che questi spesso sono
reclami unilaterali (basti pensare alla Libia, che fino a circa 70 miglia dalla
costa ha precluso lo sfruttamento del mare in termini di pesca a chiunque
altro), evidentemente tutto questo, con il ridursi delle risorse ittiche,
genererà elementi di tensione, non sono più solo tra i Paesi della sponda Sud,
ma anche tra quelli europei.
Di fronte a queste sfide, come è organizzato il nostro strumento militare? Va detto che presenta alcune lacune molto profonde.
Quando parliamo di consapevolezza operativa in realtà manchiamo di satelliti, manchiamo di sorveglianza aerea, manchiamo di sorveglianza subacquea. Quindi su questi aspetti bisognerà sicuramente investire. Noi abbiamo bisogno di molti più sottomarini di quelli che abbiamo adesso. Considerate che la Turchia ne ha quattordici, la Grecia ne ha undici, noi ne abbiamo sei… immaginatevi voi; la Spagna – che ha un Pil pari a quello della Lombardia e del Piemonte – di sottomarini ne avrà sei tra poco, mentre l’Algeria ne ha quattro. Quindi è evidente che già in prima battuta qualcosa è già profondamente sbagliata. Abbiamo bisogno di una rete radar costiera integrata, completamente inserita nel comando e controllo (C2) e abbiamo bisogno di navi che possano essere presenti in mare in maniera continuativa, perché la caratteristica della sorveglianza marittima è che deve essere continuativa. Se si considera che nei prossimi dieci anni cinquanta delle nostre sessanta navi andranno in disarmo, ora con il timido investimento …no, l’investimento è stato importante, considerato il fatto che è stato fatto in un momento particolarmente critico per il bilancio economico nazionale e, diciamo che deve essere dato atto al Governo di avere avuto il coraggio non solo di avviarlo ma anche di difenderlo nei tempi successivi quando tutti sono a caccia di risorse, questo dimostra come la consapevolezza in questo senso sia mutata in chiave positiva. Tuttavia è evidente che questo ci consentirà, sulla base dei programmi già esistenti, di costruire al massimo venti nuove navi. Ma venti non ne sostituiscono cinquanta. Considerando poi che la prontezza operativa non è una nave pronta (perché è necessario averne tre per disporne in stato di prontezza operativa una o due) è evidente che l’investimento dovrà essere portato avanti fino al raggiungimento di una massa critica tale, come dire, da dare continuità e sostenibilità allo strumento marittimo in un quadro bilanciato di uno strumento interforze che vede non solo la Marina protagonista della sicurezza nel Mediterraneo, ma tutte le Forze Armate e in particolare l’Aeronautica, perché il potere aereo – ovviamente – va insieme al potere navale.
Il fattore fondamentale che ritengo a monte di tutto è uno sforzo di tipo culturale, quindi ritorno alla mia considerazione iniziale che queste iniziative a mio avviso bisognerebbe aumentarle, diffonderle e portarle avanti, perché il Mediterraneo è il luogo della prosperità e della sicurezza nazionale, e su questo non ci piove. Si pensi che non è solo esposto alla minaccia dei paesi vicini, ma si immagini cosa accadrà quando e se la calotta artica dovesse sciogliersi maggiormente e quindi dovesse aprirsi la via del Nord in maniera più massiccia di quanto già non sia aperta adesso: sarebbe già un’alternativa conveniente per molte merci. Da questo punto di vista è evidente che l’Italia debba assumersi un ruolo completamente diverso. Il mare rappresenta quella zona di politica estera flessibile che non impone il commitment all’operazione se non esattamente quando lo si vuole, che per sua natura sottrae la forza della minaccia asimmetrica del nemico su terra e, quindi – sulla base della linea di pensiero che io propongo – si dovrebbe vedere come portare avanti a tutti i livelli, come rendere sostenibile quello che non deve rimanere un’iniziativa estemporanea, un “colpo di mano”, e mi riferisco all’investimento dei 5,4 miliardi di euro, ma deve inquadrarsi in un progetto di più ampio respiro di natura decennale/quindicennale per il sostegno e il rilancio della capacità marittima nazionale. E per capacità marittima nazionale mi riferisco alla flotta, alle sue basi e all’industria che costruisce le navi, quindi alla cantieristica e all’industria a tecnologia avanzata a essa collegata. Queste sono le tre gambe di quella che è la capacità marittima nazionale. Grazie.
Generale Vincenzo Camporini (vicepresidente Istituto Affari Internazionali) – Grazie ammiraglio. Ritorniamo spesso a parlare di questa carenza culturale sui temi della sicurezza e della difesa, che è uno dei vizi nazionali, non soltanto italiano, per carità, ma in Italia è particolarmente sviluppato e lo sforzo che il Governo sta facendo e che anche noi come IAI nel nostro settore stiamo facendo, è proprio quello di incrementare questa capacità di comprendere, perché se si comprendono i problemi soltanto allora sarà possibile in qualche modo provare a risolverli.
L’ammiraglio ha concluso chiamando in causa l’industria, quindi io do subito la parola all’ingegner Bono che ci parlerà delle attività attuali di Fincantieri.
Giuseppe Bono (amministratore
delegato Fincantieri) – È sempre difficile in queste occasioni parlare, da
industriale, soprattutto per me che ho passato gran parte della mia vita a
occuparmi dell’industria della difesa nazionale. Una volta si chiamavano armi,
poi con l’evolversi della cultura pacifista si è chiamato sistema della difesa
e oggi la chiamiamo industria della sicurezza.
Allora, molte delle pecche
riscontrabili in vari Paesi, ma soprattutto in Italia, derivano dall’industria,
e dalle politiche industriali che, di volta in volta, hanno imposto di tutto e
di più. L’Italia credo sia il Paese da prendere a esempio negativo: noi abbiamo
partecipato a tutti i programmi possibili e immaginabili, abbiamo speso tanti
di quei soldi che nemmeno il Padre Eterno sa quanto avremmo potuto costruire,
poi alla fine andiamo a vedere che le nostre industrie veramente competitive a
livello internazionale le contiamo sulle dita di mezza mano.
A questo punto è importante fare una considerazione: quando il nostro amico diceva che in Inghilterra hanno ridotto le spese per la difesa… ma non è vero, la verità è che le navi costano tre o quattro volte quello che era stato programmato all’inizio – una portaerei da 2,9 milioni di pound è arrivata a sei – e così molti altri programmi militari. Per dare ai vari paesi quello di cui i vari paesi hanno bisogno, noi, alla fine, essendo vissuti sotto l’ombrello americano, ci siamo sbizzarriti un pochettino a fare della nostra industria non un’industria assolutamente efficiente ed efficace dal punto di vista dei costi e dei mezzi, ma abbiamo fatto un’industria di sopravvivenza, in un certo senso.
Questa è la prima cosa che dobbiamo cambiare. Lo dico come capo di un’azienda come la Fincantieri che solo per il suo 30% si occupa di militare, perché per il resto è civile e questo ci dà una capacità, una forza che forse altri settori non hanno. Su questo bisogna avviare una riflessione sul futuro. Perché è vero che dobbiamo prendere in considerazione tutte le minacce di cui parlava prima l’ammiraglio De Giorgi, e sulle quali concordo al cento per cento, però chi conosce un po’ la storia sa che non è che quello che sta succedendo adesso sia molto diverso da quello che succedeva tre-quattrocento anni fa in Europa. Allora noi oggi li chiamiamo terroristi, mentre allora – non so – li chiamavamo protestanti, ma succedevano sempre le stesse cose. Si tratta di momenti di assestamento che si superano aumentando la capacità culturale, ma aumentando anche la collaborazione. E qui spendo una parola in favore della nostra industria, perché è una di quelle che può essere più facilmente esportabile. Quando noi esportiamo delle navi molto spesso ci chiedono anche delle componenti superiori, e siccome l’industria cantieristica – io non sono d’accordo sul moltiplicatore – è quella che diffonde di più sul territorio a tecnologie, sì avanzate, però assimilabili da parte dei Paesi che abbiamo di fonte, quindi è un modo di essere e di collaborare, perché se non collaboriamo facciamo solo antagonismo e, a mio avviso, con l’antagonismo non si risolvono i problemi.
C’è un altro fattore che ritengo importante: quello della costruzione della nave, credo sia l’unico settore della Difesa – forse ce n’è qualcuno che mi sfugge, ma se c’è è di piccole dimensioni – nel quale il gap tecnologico nei confronti degli Usa è a favore dell’Europa; gli americani oggi non sono in grado di costruire le navi che costruiamo noi. Noi abbiamo dei cantieri negli Usa, dove per la prima volta siamo partiti per fare delle “piccole” (piccole per loro) fregate da 3.200 tonnellate, molto veloci. Recentemente mi sono recato al Pentagono per un incontro con il sottosegretario alla Difesa a capo del procurement alla Navy e gli ho chiesto: «Ma se non veniva Fincantieri in America a comprare i cantieri navali e a fare queste navi, voi da soli le avreste fatte?», beh, lui mi ha risposto di no. Per me è stato un momento di grande soddisfazione. Ovviamente, ora speriamo che attraverso di loro riusciamo ad avere delle commesse in qualche paese dove normalmente non ci siamo.
Io credo che la politica del Mediterraneo possa essere affrontata, ed è vero quello che dice l’ammiraglio De Giorgi: quando noi parliamo del Mediterraneo non dobbiamo riferirci a questo Mediterraneo, ma quantomeno dall’Oceano Indiano a tutta la costa della Nigeria, perché di questo stiamo parlando. Se ci riferiamo soltanto a quello che abbiamo qui è molto più pericoloso. Voglio dire, abbiamo di fronte paesi che hanno più di 400 milioni di abitanti e che non hanno (e quasi sicuramente non l’avranno neppure nei prossimi anni) la stabilità. Una situazione dunque molto più complessa.
E qui vengo a un altro dei punti che secondo me sono fondamentali. Diceva il dottor Marrone della convergenza politica tra Italia e Francia, io aggiungerei anche la Germania, perché – forse non se ne accorgono – ma molti transiti diretti ai tedeschi attraversano il Mediterraneo. Ma tra Italia e Francia è sicuro, malgrado i tanti problemi. Ma, allora, perché prenderla soltanto dal punto di vista politico e non fare come alla metà degli anni Novanta, quando si realizzarono aggregazioni dei sistemi produttivi, perché se non partiamo, soltanto con la politica non ci arriviamo. Noi abbiamo costruito un’Europa che doveva in qualche modo introdurre strumenti di efficienza e di competitività all’interno, oggi i nostri competitor sono fuori dall’Europa e noi siamo tropo piccoli per competere con questi colossi che stanno emergendo fuori dell’Europa. Quindi il consolidamento dell’industria è fondamentale e, guarda caso, va anche a vantaggio dell’industria nazionale, di quella che abbiamo e che è l’eccellenza a livello mondiale e che dobbiamo difendere.
Anche su questo noi dobbiamo basare la nostra politica di presenza militare. È inutile fare gli aerei, non li abbiamo mai fatti nella nostra storia, quindi non credo che adesso sia conveniente metterci a fare un’industria aeronautica noi quando gli altri stanno facendo meglio di noi: dobbiamo comprarli gli aerei. Non mi sembra che sia questo il modo. Invece, il consolidamento dell’industria porta, di fatto, a quello che è auspicabile, insomma… sono venti anni che ci battiamo per queste cose e negli anni Novanta pareva che ci si fosse arrivati. E abbiamo fatto qualche tipo di joint-venture, ma adesso speriamo di ripartire da capo. Ma bisogna ripartire, perché non ci possiamo più permettere, noi, tutti i Paesi, di sostenere dei costi e di avere ognuno, come dire, delle proprie navi, dei propri aerei, eccetera. Dobbiamo pervenire a una politica comune europea. Gli Usa sono forti, la Russia è forte, perché hanno uno stato centrale che sulla sicurezza decide sulla base delle proprie esigenze, mentre qui decidono ventisette paesi. Cosa molto complicata anche per l’industria, perché ovviamente abbiamo meno possibilità – non solo in Europa – di avere molti stati. Insomma: dove abbiamo delle trattative importanti in atto, molto spesso ci confrontiamo con l’industria europea e non con l’industria del resto del mondo… per il momento, che vuole il prodotto di elevato livello tecnologico… beh, Europa e, soprattutto in Italia. Perché, insomma, non mi pare che gli inglesi siano in grado di competere. Non mi pare che gli americani fanno una politica di competizione sul navale. I tedeschi hanno una grande capacità nei sottomarini, ma per il resto anche loro non fanno molto. Quindi restano Italia e Francia, due paesi che più hanno una cantieristica navale avanzata. Dobbiamo arrivare a una politica comune europea. Io, suggerisco, partendo dall’industria. Se noi non partiremo dall’industria sarà difficile mettersi assieme. Quindi dobbiamo dimostrare ai nostri paesi che c’è un interesse concreto con ricadute economiche sul tessuto industriale, economico e sociale del paese che deriva dal fare le cose in comune. La legge navale ce la siamo combattuta…
Ammiraglio Giuseppe De Giorgi (capo di Stato Maggiore della Marina) – …la prima tranche. Quando dico queste cose c’è il generale Camporini che oscilla qua vicino a me, sento una vibrazione…
Giuseppe Bono (amministratore delegato Fincantieri) – Mi pare che oggi più che fare la battaglia su chi ha preso di più e chi ha preso di meno vada fatto un discorso su quello che vogliamo sia il futuro. A me pare, così. Da osservatore esterno sicuramente interessato, ci mancherebbe altro, che dopo la caduta del muro di Berlino siamo andati avanti esattamente come prima, cioè non abbiamo elaborato dal punto di vista politico. L’Europa e l’Italia, non hanno elaborato una nuova strategia. Se andiamo a vedere, noi stiamo facendo le stesse cose che facevamo venticinque anni fa e questo, secondo me, è un errore fatale.
Per altro –
lo dicevo prima -, per esportare dobbiamo costruire lì. Noi abbiamo
sperimentato questo: elaborando il progetto, allestendo un cantiere in Turchia,
abbiamo un cantiere negli Emirati Arabi Uniti e, pensate quanto è importante
anche per la politica nazionale, avere delle industrie che sono in grado di
essere presenti in quei luoghi, di dare tecnologia e, come dire, di guidare
anche. C’è tutto un mondo dietro che, anche questo, meriterebbe una grande
riflessione politica.
Quindi voglio spendere una parola in
favore della cantieristica che è ancora uno dei pochi settori nei quali
l’Europa, e l’Italia in particolare, godono di eccellenza e leadership
mondiale. Noi di navi ne vogliamo fare tante, però, anche qui questo pure mi pare
un elemento di riflessione. Noi stiamo costruendo le FREMM (Fregate europee
multi-missione), lo sapete perché ogni tanto c’è qualcuno che dice che costano
troppo, bene: io ho dimostrato al Pentagono che una FREMM, che è il doppio una
MCS (Multi-Mission Combat Ship), costa però esattamente lo stesso di
quest’ultima, solamente che il prezzo di quella viene espresso in dollari
mentre quello della nostra in euro. Questo vuol dire che noi abbiamo raggiunto
anche qui un’efficienza e una capacità di dotare la nostra Marina non solo di
mezzi nuovi e tecnologicamente elevati sulla base degli standard e delle
esigenze richiesti, ma anche a prezzi competitivi. A noi fa piacere perché ne
vendiamo di più e, quindi, ne costruiamo di più. Grazie.
Generale Vincenzo Camporini (vicepresidente Istituto Affari Internazionali) – Grazie ingegnere, sull’aspetto della strategia che è stata assente per così tanti anni, credo che tutti quanti siamo d’accordo. C’è da dire che, finalmente, l’Italia uno sforzo in questo senso lo ha fatto: può piacere o non piacere, ma il Libro bianco sicuramente pone delle riflessioni di carattere strategico che impronterà il futuro del nostro strumento militare, ma anche della nostra politica compreso lo strumento militare. Così come in ambito europeo, finalmente, Federica Mogherini sta portando avanti un progetto per la revisione della strategia europea, per quanto posa essere scritto di un insieme di paesi che ancora non hanno trovato una vera convergenza in tutte le loro politiche estere e di sicurezza.
Una piccola osservazione però la devo fare: io ho volato col 346 e vi posso assicurare che l’industria italiana fa ancora degli ottimi aeroplani che sono competitivi in tutto il mondo, dato che l’ha scelto un cliente esigente come Israele…
Giuseppe Bono (amministratore delegato Fincantieri) – …ma che cosa vi ha dato in contropartita Israele? Meglio che non ne parliamo di quell’affare lì
Generale Vincenzo Camporini (vicepresidente Istituto Affari Internazionali) – Do la parola al professor Parsi pregando anche lui di stare nei limiti di tempo.
Professor
Vittorio Emanuele Parsi (direttore ASERI, Alta Scuola di Economia e Relazioni
Internazionali vicepresidente Istituto Affari Internazionali) – Grazie. Beh, intanto sono molto
contento di essere qua allo IAI, perché non sono riuscito a intervenire al
cinquantenario per colpa di un incidente legato alla decadenza fisica… dovuta
al passare degli anni sostanzialmente.
È difficile parlare dopo che si è
stati preceduti da chi è del mestiere molto più di me. Evidentemente, però,
cercherò di farlo partendo da una costruzione che vuole alleviare lo stato a
volte di prostrazione in cui ci troviamo noi italiani.
Vi ricorderete, qualche anno fa un politico di cui non faccio il nome scoprì di essere il proprietario di un appartamento con vista sul Colosseo “a sua insaputa”. Più recentemente, un cardinale ha scoperto anche lui di essere usufruttuario di un favoloso appartamento “a sua insaputa”: sarà il ponentino romano, chissà, a giocare brutti scherzi, però in realtà oggi ci è stato ricordato come l’Italia è un paese marittimo “a sua insaputa”. È vero che gli italiani si dimenticano che lo stivale sta nell’acqua, non è che sta, appunto, nella sabbia. Quindi, tutto sommato questi episodi che ho citato si perdono in un’abitudine nazionale del non essere consapevoli delle cose importanti della vita. Devo dire che se andiamo a cercare una delle ragioni per cui tutto questo sia successo, credo che abbia a che fare, in realtà, con la storia d’Italia in qualche modo, cioè col fatto che l’Italia – dai tempi del Cavour per così dire, quindi dai tempi del Regno di Sardegna – ha disperatamente cercato di essere un paese europeo e questo l’ha portata più a guardare verso le Alpi che non verso il Mediterraneo, nel tentativo di attaccarsi, di diventare un paese come gli altri. Una cosa della quale non ci siamo mai liberati, per alcuni aspetti, anche se in alcuni momenti l’abbiamo seguita con maggiore brillantezza e in altri momenti meno.
Ora è chiaro che, salterò tutta la parte sui sommovimenti e sui confini nel Mediterraneo, perché mi è già stata bruciata dall’ammiraglio e dall’ingegnere, quindi me ne vado mesto direttamente verso questo punto: come si persegue l’interesse nazionale?
Qualunque sia l’interesse nazionale, oggi in un sistema che probabilmente non è ancora multipolare, ma che si presenta come policentrico – cioè non c’è più una superpotenza in grado di “dare la forma al sistema” – e, lo vediamo su un aspetto secondo me fondamentale, su come l’America adesso inizia a pagare gli errori commessi in Medio Oriente. Pagare, nel senso che se ne avvantaggiano i russi, non è che se ne avvantaggiano quattro pastori erranti dell’Asia… Quando i romani persero contro i barbari nell’assedio di Teutoburgo l’Impero andò avanti altri tre secoli, ma quando, invece, vennero sconfitti dai Parti la cosa divenne piuttosto complicata. Oggi gli americani hanno perso in Medio Oriente nei confronti dei russi e questa è una novità, perché per decenni gli americani hanno fatto le peggiori idiozie – non me ne vogliano gli amici americani – in Medio Oriente, senza pagare scotto per questo. Allora, quando siamo in questa situazione nuova credo sia importante comprendere alcuni elementi, quando ci si muove in una situazione come la nostra in Mediterraneo: innanzi tutto chi sono i partner e la loro natura, perché i partner sono diversi e richiedono un trattamento diverso; poi quali sono gli scopi e quali sono i limiti della nostra azione, che è un elemento centrale; infine, quale è lo schema.
Non basta “fare squadra” – come si usa dire -, ma bisogna capire un attimo come ci si può muovere in questo Mediterraneo. E noi veniamo anche qui da un recente passato non così piccolo rispetto agli interessi nazionali. Lo è stato detto: per gli Usa il Mediterraneo è stato – e tutto sommato resta – sostanzialmente un canale di transito che porta al Medio Oriente, e anche nel momento in cui gli americani si disimpegnano dal Medio Oriente tradizionalmente inteso, il suo nucleo, il Levante, diciamo così, porta comunque al Golfo Persico per via mediterranea. È un transito. Quindi gli americani hanno trattato questo mare durante la guerra fredda in questo modo e hanno disinvestito, adesso, in termini di difesa perché, fino a questo momento, di minacce puntuali sul mare non ce ne sono. Ed è quello che a noi preoccupa di più quando riflettiamo su chi sono gli alleati sulla politica mediterranea, quali sono quelli più importanti e quelli che iniziano a perdere una certa importanza. Non c’è dubbio che se pensiamo al Mediterraneo gli Usa oggi contano meno. Gli Usa torneranno a cercare di contare in Medio Oriente, nel Golfo Persico e nel Mar Rosso, ma nel Mediterraneo contano meno, perché anche in questa situazione di estrema instabilità non c’è una minaccia puntuale ai loro interessi nazionali. Quindi, mentre possiamo aspettarci che gli americani si riattivino nel Golfo Persico e nel Levante anche, magari, dicendo ai turchi: «Ma sì dai, va… puoi farlo», e nessuno crederà che Erdoğan si sia sognato di abbattere un aereo russo che sconfina per diciassette secondi senza avere almeno l’idea che a Washington non sarebbero stati tropo scontenti. È incredibile una cosa del genere. Comunque – stavo dicendo – se anche gli americani torneranno a giocare la partita, continueranno però a trattare il Mediterraneo come un luogo di transito. E il fatto stesso che la loro flotta sia basata il più lontano possibile dall’epicentro dei problemi sulla costa ci dice che non intendono utilizzare quello strumento come uno strumento che abbia in mente le preoccupazioni e gli interessi dell’Italia e dell’Europa, direi a questo punto.
Chi ha avuto occasione di ascoltarmi o leggermi in questi anni sa che tutto mi si può dire meno di essere antiamericano, però, prima di tutto devo ragionare sugli interessi nazionali italiani e sulle situazioni mutate che è importante capire in quanto non sempre chiare. Quando le situazioni mutano devono mutare anche le politiche, se si vogliono perseguire gli stessi obiettivi, perché se mutando la situazione si continua a fare quello che si è sempre fatto non si andrà molto lontano. E, chiaramente, anche per noi italiani il Mediterraneo ha una duplice natura, perché è un confine e per alcuni aspetti un “fronte”, se vogliamo usare una parola un pochino più robusta. Però, contemporaneamente, è anche il centro dei nostri interessi e il punto di collegamento con quest’area geografica integrata così come è stata indicata prima dall’ammiraglio e dall’ingegnere, ma che in senso, diciamo così, di area di sviluppo economico potremo dire che va da Capo Nord al Capo di Buona Speranza, in realtà. Anche perché anche l’Africa, nonostante la massiccia presenza cinese, continua a essere il punto verso il quale un’Europa che adesso ha una forma di proiezione economica e strategica dovrebbe pensare di cercare di investire molto per evitare problemi che dall’Africa vengono e verranno (flussi migratori spaventosi nei prossimi vent’anni) e per creare opportunità rispetto a quelle che invece possono essere i destini europei.
Quanta
consapevolezza c’è di questa necessità di capire partner, scopi, limiti e
schema di gioco? Se devo essere sincero a me non sembra che siamo messi proprio
benissimo, e lo vediamo nel dispositivo della questione Libia e Siria. Quello
dove le nostre Autorità di governo stanno sbagliando a non capire cha la
posizione italiana si sta condannando a un isolamento che sarà pesantissimo in
termini di costi politici e di reputazione. Perché dico questo, perché è
evidente che la Libia è di immediata importanza per l’Italia, ma è anche
evidente che non è immediatamente importante quasi per nessun altro. Questa è
la verità. Neanche per i flussi migratori. Perché i flussi migratori che
riguardano la Grecia provengono dalla Turchia, quindi non c’è nessuno con noi
che divide naturalmente un interesse particolare per la questione libica. E
questo allora vuol dire che le cose andrebbero contrattate meglio nello
“schema” mediante un do ut des. In
qualche misura, anzi, devo essere sincero: penso che la funzione di chi fa il
mio mestiere si a di spronare i governi, non di adularli. Ma gli italiani si
caratterizzano per il loro conformismo innato.
Comunque, tornando al tema del
terreno, il governo all’inizio si era mosso in questa direzione, venendo addirittura
accusato di voler fare uno scambio. Come se fosse, chissà, quale scambio. Poi,
però, questo si è interrotto clamorosamente nel momento in cui anche
l’occasione simbolica rendeva l’operazione ancora più semplice. Se c’è una cosa
che lascia perplessi rispetto appunto a partner, schema e compagnia cantante, è
che cosa il Governo italiano non ha fatto dopo gli eventi di Parigi: credo che
siamo stati l’unico grande paese che non ha modificato la sua politica in
seguito a quegli attentati. È vero che anche i tedeschi adesso fanno più o meno
come noi, ma c’è un fatto fondamentale: la Merkel ha cambiato politica dopo il
13 novembre. Ha capito che se voleva mantenere la relazione speciale con la
Francia doveva fare qualcosa. Non era più come prima, perché la situazione era
cambiata. E quando la Francia ha chiesto ci ha messo due giorni a pensarci, ma
poi ha fatto. E non credo che gli interessi tedeschi in Siria siano così
cospicui neanche pensando alla questione dei migranti e, soprattutto, tenendo a
mente quale è la difficoltà dei tedeschi nel muoversi in politica estera
mediante un approccio più, non direi “muscolare”, ma proattivo, più cinetico
semmai. Purtroppo questo non lo abbiamo fatto, la nostra azione è stata quella
di prima: abbiamo confermato che avremmo mandato truppe in Libia, ma l’avevamo
già fatto al segretario generale dell’Onu un mese prima; abbiamo confermato che
saremmo rimasti in Afghanistan, ma lo avevamo già detto un mese prima al
presidente Usa Obama… cosa è successo dopo per dire noi ci siamo davvero?
Niente.
Ora, io sono convintissimo che i terroristi non possano averla vinta su di noi, ma nessuno può pensare che per sconfiggere un nemico basti prendere i pasticcini o andare al cinema. E così come neppure per effetto di un concerto di Jovanotti al Circo Massimo, dove andiamo tutti, al-Baghdadi capirà di non potercela fare e se ne tornerà nel deserto. Non scherziamo sempre, trattiamo le opinioni pubbliche come adulti. Diciamoci la verità. Dopodiché noi possiamo anche pensare che l’opinione pubblica italiana, per motivi nobili o ignobili, si accontenti di tutto questo, ma non possiamo dire che stiamo facendo qualche cosa di significativo. E ripeto, non è questione di combattere contro al-Baghdadi, se crediamo veramente a quello che diciamo quando affermiamo che vogliamo assumerci una responsabilità sulla Libia, dopo quello che è successo chi prenderà minimamente in considerazione. Io non credo che sarà così, io non credo che sarà così anche perché – e le cose dobbiamo dircele tra italiani – noi abbiamo il problema reputazionale dai tempi di Macchiavelli e di Guicciardini. Un problema che non è mai cambiato e che altri non hanno: siamo noi quelli che sono giudicati inaffidabili. Ed è un peccato pensare come, dopo anni di missioni militari, uno sforzo che è costato la vita a tanti soldati italiani, in questo momento questo investimento si stia perdendo. Perché nessuno ci prenderà in considerazione per la Libia – io credo – se non daremo un contributo più serio nella lotta contro ISIS in Siria e in Iraq. Ce ne assumeremo le responsabilità se non faremo vedere di esserci.
L’espressione “metterci la faccia” è molto usata dal nostro primo ministro ed è un’espressione che anche noi rugbisti usiamo, ma in un senso diverso. Quando un rugbista dice «ci metto la faccia» intende dire un’altra cosa, cioè, io metto la mia faccia dove altre persone non avrebbero mai voluto mettere neanche un piede pur di difendere i miei compagni, pur di dare sostegno alla mia squadra, pur di far avanzare il pallone. E se un mio compagno reagisce – qualcuno direbbe oggi, “di pancia” – e va dritto contro il muro della mischia avversaria, non mi metto lì a discutere: intanto vado e lo sostengo, poi dopo avremo tempo di ragionare se non si poteva andare al largo.
Ecco, io
credo che noi abbiamo perso quest’opportunità per dimostrare che l’Italia è
cambiata verso la percezione altrui e che questa è la volta buona. Per una
volta che c’era veramente una volta buona per dimostrare che eravamo cambiati,
che però è stata perduta. In politica nulla è definitivo grazie a dio, quindi
tutto può cambiare. Le dichiarazioni dei nostri rappresentanti lasciano spesso
dei margini di incertezza. Con quei “magari vedremo”, che poi potrebbero
diventare “vediamo con più attenzione”. Si tratta di una cosa veramente
importante, perché se noi non cambieremo questo nostro atteggiamento nessuno ci
darà assistenza nella cura dei nostri interessi in Libia. E siamo sicuri che da
soli non potremo fare niente. Niente.
Quindi pochi ci possono aiutare. Ma ci
chiederanno: voi dove eravate quando noi vi abbiamo chiesto aiuto? Quando noi
un passo in più dell’usuale?
Se abbiamo riconosciuto che è il nostro undici settembre europeo, beh.. caspita! Allora dovremo reagire in maniera appropriata, non reagiremo andando tutti assieme al cinema a passare il natale lì. Credo che questa sia una cosa che debba essere compresa, e lo dico senza pensare che chi ci ascolta non può comprenderlo, e che debba essere fatto, altrimenti l’Italia pagherà un prezzo altissimo nei termini di conferma della reputazione che invece stiamo cambiando in vent’anni di missioni militari all’estero. Nelle quali il nostro contributo è stato apprezzato sempre di più e che hanno mantenuto lo standing di un paese piccolo come l’Italia in un mondo sempre più “fuori scala” per l’Italia stessa. Dopo la fine della guerra fredda nel mondo abbiamo dovuto fare molto di più per restare quello che volevamo essere.
E la pagheremo in termini economici e in termini politici. In termini politici perché se la Germania e la Francia si attrezzano tra di loro per mantenere la loro relazione speciale: signori miei… succederà che noi resteremo fuori da questo direttorio. Se noi non giochiamo la nostra partita nel Mediterraneo noi non giocheremo nessuna partita europea, neanche sul predellino. L’abbiamo già visto. L’abbiamo già visto alle conferenze cui siamo stati invitati: l’Italia non c’è a livello internazionale. Noi possiamo raccontarcelo per farci piacere, ma il nostro mestiere non è carezzarci per dirci quanto siamo belli, il nostro mestiere è identificare gli errori che stiamo commettendo affinché a essi si possa porre rimedio. E proprio in termini economici, pensate a quanto ci siano costate le sanzioni alla Russia e quanto siamo stati forti a tenere il punto dal punto di vista politico. Il Governo ha agito bene a tenere il punto, ha capito perfettamente che non c’era possibilità di muoversi lì senza pagare un prezzo, nonostante la visita di Renzi a Mosca che fece infuriare Obama.
Benissimo, però adesso tutto questo rischia di sparire, perché di fronte a quello che i russi e i francesi stanno facendo noi abbiamo subito detto: «Quello è sbagliato!», lo abbiamo detto a Hollande e lo abbiamo detto a Putin. Il nostro credito nei confronti della Russia credo che si sia eroso e per che cosa? Nessuno ci chiedeva di inviare truppe di terra, ma tutti ci chiedevano un segnale anche militare. Non solo militare ma anche. Credo che si tratti di un problema grosso che rischiamo di pagare in termini pesanti e che rischia di condannarci a una irrilevanza che, credo che – nonostante quello che ho detto degli italiani, del nostro conformismo e del nostro cinismo che a volte definiamo “realismo” – rischiamo di pagare un prezzo che, tutto sommato, non meritiamo. Tutto lo sforzo che negli ultimi venticinque-trenta anni, con tutti i problemi che abbiamo avuto, abbiamo compiuto nella nostra lunga corsa verso l’Europa. Questo è un tipico caso in cui la via verso l’Europa non passava per le Alpi, ma passava per il Mediterraneo. Voglio sperare che sia ancora una via che passi per il Mediterraneo proprio perché il Governo ci ha detto che, sì per oggi è così, però nel futuro potrebbe cambiare atteggiamento. Speriamo, perché veramente per andare a Bruxelles stavolta si passa per il Mediterraneo orientale. Grazie per l’attenzione.
Generale Vincenzo Camporini (vicepresidente Istituto Affari Internazionali) – Grazie professore per il suo appassionato intervento. Con Vittorio Emanuele Parsi spesso siamo fianco a fianco nelle battaglie che conduciamo, in questo caso ho una visione un pochettino diversa, perché per volere stare con tutti quanti abbiamo consentito l’operazione in Libia nel 2011 e sappiamo che prezzo ne è stato pagato. Comunque è un discorso che potremo fare a lungo. Ora abbiamo le conclusioni del presidente della Commissione Difesa, il senatore Latorre, che segue con grande passione le nostre attività e, mi consenta di fare questa osservazione presidente: raramente ho visto un uomo politico prendere tanto a cuore le cose di cui sta trattando, a volte ne ho visti altri che erano un pochino più superficiali, ma nel suo caso lei è veramente una persona che sa di cosa parla e agisce di conseguenza. Devo dire che la comunità della sicurezza, la comunità militare italiana le è profondamente grata a livello personale. A lei la parola.
Senatore Nicola Latorre (presidente Commissione Difesa, Senato) – La ringrazio. Mi mette un po’ in imbarazzo questo esordio, perché, insomma, ho seguito con estremo interesse e attenzione – vi assicuro, ho i foglietti pieni di appunti presi nel corso delle cose interessanti che ascoltavo – e soprattutto è per me un grande piacere esserci perché apprezzo il lavoro che poi è alla base di questo incontro. Non soltanto perché affronta un’importante questione e contribuisce ad aprire gli occhi su uno dei temi cruciali su cui il nostro sistema-paese dovrebbe concentrarsi. La cosa che mi colpiva – ora voi mi perdonerete questa divagazione sul tema, diciamo – che tradizionalmente, le uniche componenti politico-culturali che tentavano di sollecitare un’attenzione sulla centralità del Mediterraneo erano questi “terroni” meridionali e il tema del Mediterraneo veniva coniugato con la questione meridionale, perché non si coglieva la portata strategica per l’intero sistema-paese e poi, aimè, anche per tutta l’Europa. Ma la cosa che più mi ha colpito di positivo di questo lavoro, naturalmente mettendo i piedi nel piatto, perché l’intervento del professor Parsi, con la sua consueta ricchezza di argomenti, stimola una discussione molto interessante in questa fase. Ma la cosa che colpisce favorevolmente è che propone un approccio al tema del Mediterraneo, che è un approccio completamente nuovo rispetto a come tradizionalmente lo si è posto, non soltanto per la rilevanza che il tema del Mediterraneo ha per la questione più strettamente attuale che ci riguarda, cioè il tema della sicurezza, ma anche perché, oggettivamente, il Mediterraneo, come giustamente si è rilevato, è diventato sempre più il crocevia delle sfide cruciali dell’intero pianeta in questa fase. Che sono di carattere geopolitico, che sono di carattere energetico, che sono appunto i temi della sicurezza. È diventato insomma il luogo cruciale dove queste sfide si incontrano e che imporrebbero, come giustamente si dice nella parte del lavoro proposto dalla professoressa Colombo, che impone anche un cambio da parte dell’Europa su coma ci si deve cimentare sul tema del Mediterraneo, perché proprio per la portata globale che assume la sfida del Mediterraneo è chiaro che ci deve essere un cambiamento radicale rispetto alla vecchia visione che del Mediterraneo si è avuta da parte dell’Unione europea, diciamo quasi come il cortile vicino su cui si era basata per decenni la strategia europea, trascurando non soltanto l’emergere di nuovi attori, ma anche trascurando la sempre più problematica distinzione surrettizia sostenuta dalle politiche europee tra il Mediterraneo occidentale da una parte e il Medio Oriente allargato fino al Golfo dall’altra.
Questo impone chiaramente un cambiamento, come si dice, di paradigma, che però rende chiara anche il carattere complesso con il quale noi dobbiamo fare i conti. Non c’è una linearità nel modo in cui il tema Mediterraneo, in particolare con riferimento alla questione della sicurezza, si propone. Intendiamoci: io credo che ci sia – per mettere subito i piedi nel piatto, diciamo – intanto un nesso tra quello che è accaduto a Parigi e quello che sta accadendo in quella parte del mondo. Non per teorizzare una consequenzialità tra il conflitto siro-iracheno e l’offensiva terroristica che c’è nelle nostre città, ma noi dobbiamo avere presente che uno degli elementi della complessità è che questi due fronti non possono essere disgiunti nelle valutazioni che dobbiamo fare e nelle impostazioni politiche con le quali dobbiamo affrontare questa sfida. Così come il tema dello sconvolgimento geopolitico di questa parte del mondo è caratterizzata da una serie di ingredienti, a cominciare dal conflitto religioso interno al mondo musulmano tra sunniti e sciiti, per non trascurare anche una battaglia – e in questo sono d’accordo con le valutazioni che faceva il professor Parsi – e cioè che l’emergere di nuovi attori ha aperto anche un conflitto per definire le nuove egemonie all’interno di quella parte del mondo. Un conflitto ancora irrisolto da questo punto di vista. E poi c’è addirittura un conflitto interno anche alle componenti più radicali jihadiste. Mi ha colpito tantissimo, non so se vi è capitato di leggere questa notizia, il fatto che un kamikaze legato ad an-Nusra, sugli altipiani del Golan si sia inserito in una riunione di questi Martiri di Yamaturk, che è un gruppo terroristico legato a Daesh, e si è fatto esplodere liquidando l’intero gruppo dirigente di questo gruppo terroristico. A testimonianza anche di un conflitto interno che, aimè, si consuma con un rilancio anche della crudeltà e della violenza.
Che cosa voglio dire, ho fatto questi cenni perché qui c’è una platea di persone che conoscono molto meglio di me anche i termini di questa complessità, che la risposta e la capacità di fronteggiare questa sfida e di definire una rotta, perché già definire una rotta in questa complessità è un’operazione di per sé problematica – questo lo voglio dire con estrema franchezza, e chi dice di avere le idee chiarissime su questo, come dire, o sta bluffando oppure, diciamo, è un mago per il quale nutro anche una certa invidia – impone una risposta a diversi livelli, uno dei quali – lo dico con estrema sincerità – è anche il tema di come gestire il rapporto con le nostre opinioni pubbliche in questo momento.
È un problema non marginale rispetto alla portata della sfida, perché l’esigenza di, come dire, dare una risposta che non faccia passare anche l’offensiva terroristica come un modo per cambiare il nostro modo di vivere, come un modo per far sentire sotto minaccia le nostre società. È un capitolo non marginale, e da questo punto di vista credo sia importante mettere in campo una iniziativa che sia in grado di rafforzare le ragioni della sicurezza all’interno delle nostre società. Così come il problema, chiaramente, non è il concerto, non è il cinema, ma evitare che si ricreino le condizioni per cui di fronte a quello che sta accadendo in Occidente possa tornare in voga l’idea che siamo di fronte a uno scontro di civiltà. Questo è un altro capitolo di una battaglia rispetto alla quale non bisogna abbassare la guardia e, da questo punto di vista quindi, anche insistere su una risposta culturale a questa offensiva. Che in questo momento è ancora più complessa che nel passato, perché noi poi siamo anche oggetto di questo potente fenomeno che ci accompagnerà per un periodo non breve, che è il fenomeno migratorio, che rende ancora più complicato tenere questo tipo di fronte e, quindi, credo che sia un altro capitolo rispetto al quale dobbiamo mostrarci all’altezza e da ultimo anche quello militare, da ultimo per comodità di esposizione.
Non penso, non credo e non condivido, anche, alcune letture che sono state date della nostra… – poi entrerò nel merito di alcune questioni, almeno dal mio punto di vista -, che sono state affrontate dal professor Parsi, le cui argomentazioni capisco, e su questo mi tratterrò rapidamente alla fine del mio intervento. Però, l’idea di dire: ci vuole una strategia militare, perché Daesh si sconfigge militarmente, su questo non si discute. Ma che una strategia militare non può prescindere da una strategia politica di medio-lungo periodo E non tanto… vorrei dire, io sento fare con una certa frequenza questi esempi della Libia, dell’Iraq. A parte il fatto che Libia e Iraq sono due storie completamente diverse e bisognerebbe dire una volta tanto che sono due storie completamente diverse. Ma io, addirittura, rispetto a questo mi permetto di fare, invece, un ragionamento in positivo: cioè, proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se quando l’Iran era guidato da quel criminale di Ahmadinejad avesse preso corpo una teoria che c’era, in particolare negli Usa in una parte della destra americana, se in quel momento si fosse andati fino in fondo sull’idea di aprire un conflitto per regolare i conti con quel Paese in che situazione ci saremmo trovati. Si è innescato, invece, un processo politico, si è avviato un lavoro di medio-lungo periodo che ha prodotto dei risultati, anche se, su questo io sono d’accordo col professor Parsi, penso che anche l’importante accordo sul nucleare se non viene accompagnato da una saggia strategia politica che non faccia diventare questo addirittura un ulteriore elemento di destabilizzazione nel panorama mediorientale. Però è stato un significativo passo in avanti.
Ora il punto è definire una strategia. E questa strategia in questo momento non può che definirsi a partire da quello che è il cuore della vicenda, che è appunto la crisi siriana. Perché su quel capitolo si incrociano tutte queste questioni ed è chiaro che questo è il momento per condividere una riflessione, per condividere una strategia e, dunque, anche definire i termini di una iniziativa militare che abbia realmente la possibilità di determinare quei risultati che si vogliono determinare.
Quindi, io credo che non ci sia da parte del nostro Paese l’intenzione furbesca di defilarsi… e, quel “vedremo” a me non piace, perché in queste cose non ha senso dire “vedremo”. Vedremo può essere molto spesso declinato come fanno quei “figli di buona mamma” che come al solito, diciamo, se la svignano… io credo che noi realmente dobbiamo avere chiaro quale è la rotta attraverso al quale si intende procedere a una stabilizzazione di tutta l’area, sapendo che i capitoli di questa stabilizzazione sono molteplici. Il cuore oggi è la crisi siriana, ma, per esempio… e io qui non credo che il tema della Libia… oggi è , in effetti, nel dibattito internazionale, il tema della Libia non viene sufficientemente preso in considerazione, ma io penso che più si incancrenisce la situazione nell’area siro-irachena e più ci sarà uno spostamento della presenza terroristica verso la Libia e altro che sarà un problema soltanto italiano. Se voi considerate che, tra l’altro, il giorno della caduta del jet russo – naturalmente questa non poteva che essere la notizia che prendeva il sopravvento – ma in Tunisia quello stesso giorno veniva compiuto un attentato terroristico che sterminava dodici persone, tra l’altro dodici della Guardia… diciamo dei più importanti del sistema di sicurezza tunisino. Quello diventa un paese sempre più problematico, l’unico luogo dove si è riusciti a trovare un minimo di stabilità.
Dunque, lo scenario nel suo complesso deve essere preso in seria considerazione. E qui voglio dire: il nostro Paese ha la possibilità, e io qui penso che debba svolgere fino in fondo il suo ruolo, perché noi siamo lì a Vienna, siamo parte dei paesi che devono definire una ipotesi di soluzione politica di prospettiva, alla quale poi non potrà non fare seguito, o non potrà non essere accompagnata, anche da un’adeguata strategia militare. Questa è la posizione dell’Italia in questo momento, non è quella di ritirarsi rispetto a una volontà o di dire, come forse impropriamente qualcuno dice «vedremo». No, noi, a parte il fatto che qualche giorno prima degli attentati di Parigi, avevamo rinnovato, anche dando la disponibilità ad aumentare la nostra presenza militare in Afghanistan, cosa non secondaria. Così come io vorrei che si prestasse attenzione al fatto che la nostra presenza in Libano diventa non soltanto un fiore all’occhiello, ma diventa una presenza in uno degli altri punti cruciali su cui si concentra l’offensiva di destabilizzazione terroristica. E ritengo che, in questo quadro, noi abbiamo bisogno di una strategia e di un’iniziativa nella quale l’Italia può e deve svolgere un ruolo che forse nessun altro paese può svolgere in questo momento. A cominciare dal pretendere anche dai paesi che in questi anni hanno avuto un atteggiamento ambiguo nei confronti anche del fenomeno del radicalismo jihadista, ma nello stesso tempo, però, evitare che passi una linea di rottura con quella parte del mondo sunnita, che renderebbe probabilmente molto più complesso, se non irrisolvibile, il conflitto di cui stiamo parlando. Lo dico perché c’è tutta una letteratura in questo momento nel nostro paese, che ritiene che noi dovremmo interrompere i rapporti con i paesi del Golfo, è partita questa campagna sull’Italia che vende le armi… tutte cose prive di fondamento. Io vorrei approfittare di questa occasione per dire che sono tutte cose prive di fondamento. Noi siamo il paese nel mondo, non so se dire “aimè” o “per fortuna”, questo a seconda dei punti di vista, più rigoroso e dalle maglie più strette. Come dire, sono testimone di una serie di commesse che abbiamo perso a favore di Francia, Gran Bretagna e Usa, quindi non di altri paesi, perché le maglie del nostro sistema sono molto, molto, molto strette, e non è affatto vero che noi abbiamo rapporti commerciali relativi all’industria militare con l’Arabia saudita per forniture di armi. Noi abbiamo un contratto di fornitura con una società americana, alla quale forniamo del materiale, per altro neanche utilizzabile in uno scontro… perché deve essere completato dall’industria militare. Questa è una campagna soltanto propagandistica che noi ovviamente, caro professor Parsi, dobbiamo fronteggiare anche tenendo conto anche degli orientamenti della nostra opinione pubblica. Perché se noi in questa partita non considerassimo anche l’esigenza di tenere il paese su una linea, diciamo, di un certo tipo, noi richiamo anche di compromettere il ruolo e la funzione del nostro Paese. Io non credo che noi dobbiamo avere timore di fare scelte difficili, ma dobbiamo porci il problema di mantenere un rapporto forte con la nostra opinione pubblica. E in questo senso credo che questo è uno degli aspetti da considerare anche alla luce di un ruolo che possiamo svolgere al tavolo di Vienna, anche portando lì il tema della Libia come uno dei capitoli.
Io ho sempre pensato che per fare un piccolo riferimento a queste questioni, che, probabilmente, noi siamo stati esageratamente fiduciosi nell’iniziativa delle Nazioni unite, su questo tema della Libia abbiamo troppo investito sul ruolo e la funzione dell’incaricato delle Nazioni unite, cosa importante anche se fino a questo momento di incaricati delle Nazioni unite che hanno risolto crisi non me ne risultano, ma questo non è un problema. Diciamo che era giusto e doveroso farlo, ma credo che siano mature le condizioni – e qui penso sia importante farlo per evitare di ritrovarci probabilmente isolati al momento cruciale – per un’iniziativa politica del nostro Paese. Io ho usato uno slogan, assumendomene la responsabilità: Vienna è Roma deve diventare per la Libia. E noi abbiamo la possibilità, anche in virtù delle relazioni che abbiamo costruito in questi anni, di chiamare i paesi che possono aiutarci anche a creare le minime condizioni politiche in Libia per assumere poi un’iniziativa di supporto adeguata, nelle forme e nei modi in cui questa è possibile. Ripeto: sono i termini di un’idea con la quale noi stiamo affrontando la questione. Non c’è nessunissima voglia di ritirarsi rispetto alla drammaticità della sfida, non c’è nessuna scelta furbesca, c’è una scelta che tende a esaltare l’esigenza anche di un approccio saggio, determinato e anche lungimirante. Ed è questo un aspetto non marginale per recuperare il tema del Mediterraneo come un asset strategico, e io qui sono d’accordo con le nostre politiche in senso lato, a iniziare, chiaramente, dall’adeguare anche il nostro sistema di difesa e di sicurezza.
Da questo punto di vista noi abbiamo fatto un grande investimento, aimè, noi abbiamo fatto un grande investimento sulla prospettiva della costruzione di un sistema europeo di difesa e abbiamo fatto un grande investimento sulla riqualificazione della funzione e del ruolo della NATO. Tutti e due questi capitoli, aimè, si stanno rivelando dei capitoli complicati che stanno rendendo ancora più complesso il lavoro al quale siamo chiamati. In queste condizioni io credo che sarebbe un errore rinunciare a queste prospettive strategiche, ma ovviamente non possiamo nello stesso tempo non prendere atto che alcune emergenze, alcune urgenze impongono… ed è il senso che noi abbiamo dato alla scelta che si è fatta della legge navale, ed è il senso che si è dato alla necessità di non rinunciare al programma di aggiornamento della nostra flotta aeronautica con gli F-35, è il senso anche che noi dobbiamo dare all’adeguamento della nostra struttura del nostro esercito, ma è anche il senso che vogliamo cercare di dare a una riorganizzazione dell’assetto delle nostre Forze armate, che deve essere sempre più un assetto che tiene conto… io, per esempio, credo che nella prospettiva…, ne abbiamo parlato, anche perché io sono molto d’accordo con le riflessioni che faceva l’ammiraglio De Giorgi. Sono molto d’accordo nel senso di una prospettiva sempre più interforze del nostro assetto delle forze armate. È chiaro che la Marina militare diventa uno degli asset strategici nel nostro nuovo sistema, questo mi pare addirittura in un programma di valorizzazione, appunto, sia di un sistema europeo di difesa, sia del ruolo e della funzione della NATO. È chiaro che è la carta più importante che noi possiamo giocare è proprio questa. Su questo io credo che si possa e si debba lavorare.
Naturalmente il tema del Mediterraneo ha molte altre implicazioni, quelle sulle quali questo lavoro si è soffermato, ma è chiaro che questa discussione non poteva non tenere conto dell’attualità, con la quale dobbiamo fare i conti, anche perché, diciamo, come finiamo questo nostro incontro noi saremo precipitati nella drammatica realtà di una situazione che non è affatto ancora definita, ma che vedremo anche alla luce di queste ultime decisioni che sono state prese anche in quest’ultimo vertice con la Turchia per quanto riguarda il futuro delle nostre politiche di governo dei flussi migratori. Anche qui sperando che la giusta attenzione, stavolta al ruolo della Turchia, non ci faccia smarrire un atteggiamento che, da questo punto di vista, deve essere molto fermo e determinato rispetto a una serie di questioni, ma da questo punto di vista il Presidente del Consiglio ha detto parole molto chiare.
Abbiamo una visione, da questo punto di vista, che io penso posso dire con tranquillità che si possono avere anche opinioni, diciamo, articolate, ma noi, l’Italia, sta affrontando questa fase con una determinazione e una saggezza che in alcun modo deve essere interpretata come una voglia di rinunciare o di tirarsi indietro rispetto a delle responsabilità che noi invece vogliamo sicuramente assolverci.
Generale Vincenzo Camporini (vicepresidente Istituto Affari Internazionali) – Io a questo punto ringrazio il presidente Latorre per le sue considerazioni così appassionate e puntuali e, ponendo fine a questa serata, vi prego di ringraziare con un applauso tutti i panelisti.